lunedì 12 ottobre 2009

Kabul e il dilemma delle forze alleate

Sono 42 le nazioni ad avere inviato soldati, ognuna ha regole di ingaggio diverse

I militari Isaf in attesa della nuova strategia comune: dominare il territorio o limitarsi a raid contro Al Qaeda

KABUL - Mettiamola così. Gli ame­ricani combattono, ma i risultati sem­brano meno che soddisfacenti. Sono i più determinati tra i 42 contingenti del­la missione Nato-Isaf, vorrebbero che tutti facessero come loro per contrasta­re Al Qaeda e i talebani. Però il rischio del fallimento appare palese e lo fanno puntualmente notare gli alleati a Ka­bul, basta contare la lista sempre più lunga dei loro morti e il crescente tasso di aggressività della guerriglia. Non aiuta l’impasse seguita alla presentazio­ne del piano del generale Stanley Mc­Chrystal, che include l’aumento di 40 mila uomini per il contingente Usa.

Che fare? Accrescere la presenza allea­ta, diffonderla ancora di più tra la popo­lazione civile, come fece David Petra­eus nell’Iraq del 2007? Oppure ridurla e concentrarsi solo a combattere Al Qae­da sulle montagne del confine afgha­no-pakistano? «Il dilemma resta aper­tissimo. Da una parte si tratta di sposa­re il principio per cui siamo venuti a co­struire un Paese ex novo, coinvolti nel forgiarne il sistema politico, l’econo­mia, la società e l’esercito. L’alternativa è invece tornare alle radici della guerra nel 2001. Allora intervenimmo per eli­minare i terroristi, per evitare un altro 11 di settembre», osservano scettici i diplomatici europei in loco. Al super­protetto quartier generale dell’Isaf nel­la capitale il clima è pesante. Il dibatti­to, già infuocato a Washington, qui si traduce in polemiche acide e sospetti che danneggiano le capacità operative delle truppe sul campo.

Gli inglesi ancora un anno e mezzo fa apparivano come fedelmente allinea­ti alle posizioni Usa. Adesso molto me­no. Predicano invece la necessità di ne­goziare un compromesso persino con il Mullah Omar, ribadiscono che la so­luzione non è militare. «Occorre inclu­dere i talebani nel governo afghano. Non ci sarà pace senza il ritorno massic­cio dei pashtun nella politica naziona­le», sostengono nelle riunioni con i di­plomatici occidentali a Kabul. I più cri­tici sono tedeschi e turchi, molto poco disposti a rischiare soldati. «Se ne resta­no chiusi nelle loro basi, non combatto­no, pur di non perdere uomini sono pronti a lasciar fallire la missione», ac­cusano risentiti gli ufficiali degli altri contingenti, specie Usa, britannici, ca­nadesi e danesi.

Migliorato è invece il giudizio sui francesi: «Una volta erano anche peggio dei tedeschi. Ma Nicolas Sarkozy ha cambiato radicalmente stra­tegie. È un atlantista convinto. Il con­tingente nella zona di Sarobi è diventa­to più reattivo, forse anche perché si rende conto che non ha alternative. Do­po i 10 soldati uccisi nelle vallate che portano a Jalalabad nell’agosto 2008, a Parigi hanno deciso che la miglior dife­sa era l’attacco».

Sta nel frattempo com­plicandosi la situazione degli italiani. Criminalità, rapimenti e terrorismo col­piscono ormai anche molto vicino al quartier generale italiano presso l’aero­porto di Herat. Che lo scenario sia tut­t’altro che facile per i circa 60 mila uo­mini del contingente internazionale è del resto cosa ben nota. Dall’invasione nell’ottobre 2001 i morti tra i suoi ran­ghi sono stati oltre 1.500. I conteggi del sangue sono però cresciuti soprattutto negli ultimi 3 anni, in concomitanza con la decisione nel gennaio 2006 di al­largare il mandato di Isaf dalla sola Ka­bul all’intero Paese. Nel 2009 i caduti sono stati poco meno di 400. Ad agosto l’impennata delle vittime Usa ha tocca­to quota 55. Settembre è stata simile. E i primi giorni di ottobre hanno visto bi­lanci da capelli bianchi, ancora peggio­ri dei momenti più gravi nell’Iraq della guerra civile tra 2005 e 2007.

È in que­sto clima di incertezza e attesa preoccu­pata che crescono le tensioni interne. Fu evidente per esempio il 4 settem­bre, dopo che un gruppo talebano si era impadronito di due autocisterne Nato nella regione di Kunduz, nel Nord controllato dal contingente tedesco. L’azione avviene di notte, gli aerei sen­za pilota individuano poco dopo i mez­zi rubati a 7 chilometri dal quartier ge­nerale tedesco. Il suo comandante chie­de allora l’intervento degli F16 america­ni, che li bombardano causando diver­se vittime civili e una nuova, grave cri­si nei rapporti tra Isaf e opinione pub­blica locale. «Perché le pattuglie di ter­ra tedesche non sono intervenute?», chiede polemicamente lo stesso Hamid Karzai. Per gli americani la risposta è sconsolatamente ovvia: «I tedeschi non vogliono vittime tra i loro ranghi. Così stanno perdendo il controllo del Nord». Ma d’altra parte la spettacolari­tà dell’attacco di oltre 300 talebani con­tro due avamposti americani sulle mon­tagne del Nouristan ai primi di ottobre pone una grossa ipoteca sulle teorie della guerra ad oltranza.

Tensioni simili stanno covando an­che con i turchi. In questo caso sono coinvolti gli italiani. Il 30 settembre la Folgore, come da programma, ha la­sciato il fortino avanzato nella vallata di Musahi, eretto tre anni fa a una tren­tina di chilometri a sud di Kabul, per passarlo alle nuove forze di sicurezza afghane. Entro l’ultima settimana di ot­tobre, con l’avvicendamento della bri­gata «Sassari», le forze italiane verte­ranno tutte su Herat. Ma c’è un proble­ma. «Noi non siamo in grado di tenere la posizione. Abbiamo bisogno della presenza di Isaf. Ed è grave, perché da qui le milizie talebane attestate nel Lowgar possono raggiungere facilmen­te la zona di Kabul», ammette il colon­nello locale, Ahmadullah Oriankhel. Che fare? «Toccherebbe ai turchi pren­dere il nostro posto. Però non lo voglio­no fare, il loro mandato lo vieta», spie­ga il colonnello Aldo Zizzo, comandan­te locale della Folgore. Dal quartier ge­nerale turco rispondono secchi che le attività del contingente saranno con­centrate a campo Invicta, nella capita­le, per addestrare i militari afghani.

«Questa è una vera guerra alla guer­riglia. Se non uniamo le forze, se non coordiniamo le nostre operazioni, il no­stro compito sarà ancora più difficile», ci dice il generale della Folgore Marco Bertolini, numero tre nella gerarchia del comando di McChrystal. Ma i pro­blemi di coordinamento restano im­mensi. Al loro cuore sta quello dei cave­at, le regole di comportamento sul campo, che il governo di ogni Paese ha impartito al proprio contingente. Non è un mistero che McChrystal vorrebbe omogeneizzarle il più possibile. Il nuo­vo segretario generale della Nato, Fogh Rasmussen, è pienamente d’accordo con lui. «Rasmussen pensa addirittura che i caveat vadano cancellati per la so­pravvivenza della Nato», dichiarano per telefono i suoi portavoce a Bruxel­les.

Non tutti sono però d’accordo. «Im­possibile abolire i caveat. Sono parte in­tegrante della cultura di ogni singola nazione componente di Isaf. È banale dire che la filosofia che guida larga par­te delle forze di intervento europee è molto diversa da quella di americani o canadesi», aggiunge Bertolini. «La no­stra è una missione di pace. Su questo punto il mandato concesso dal Parla­mento di Berlino è chiarissimo. Siamo venuti per aiutare a costruire l’Afghani­stan, non per fare la guerra», rincara Uwe Nowitz, colonnello tedesco e por­tavoce a Kabul. Ma come evitare che i talebani e i lo­ro alleati non sfruttino le differenze al­l’interno di Isaf per dribblare le difficol­tà? La domanda sorge evidente dopo aver trascorso una settimana assieme ai Marines nella regione meridionale di Helmand. Qui la nuova strategia americana è già in atto da almeno un paio di mesi. I soldati sono sparsi in piccoli fortini avanzati affiancati ai vil­laggi assieme alla polizia afghana. Prati­camente tutte le operazioni sono con­dotte con gli aerei senza pilota, che re­stano in volo notte e giorno in pieno coordinamento con i comandi che sor­vegliano le zone tribali pakistane. E la conseguenza è che i gruppi talebani tendono a fuggire verso Sud, a Est, e so­prattutto nelle zone occidentali control­late dagli italiani lungo il confine con l’Iran, a Farah, Herat e nel Badghis. «Ora tocca agli italiani fare la loro. Stringere patti con i comandanti taleba­ni è perdente. I nemici si combattono e basta», sostiene il colonnello dei Mari­nes Tim Grattan nel fortino circondato da campi di oppio a Khan Neshin. «Dobbiamo impedire che i talebani ap­profittino delle nostre differenze inter­ne per rafforzarsi».

Lorenzo Cremonesi


I movimenti contestano la legge sull'acqua


Sia quello che sia il socialismo di Correa, la repressione è l'altra faccia del progetto estrattivo.

di Raul Zibechi

Per alcune ore, il fantasma di Baguá ha sorvolato l'Amazzonia ecuadoriana. Il massacro perpetrato dal governo peruviano di Alan García il 5 giugno contro indigeni che vogliono evitare la distruzione della selva da parte delle multinazionali, non è arrivato a ripetersi in Ecuador, perché i diversi attori, dai movimenti indio fino al governo di Rafael Correa, hanno saputo disattivare un conflitto che sta ancora lontano da risolversi, ma che ora transita sui tavoli del dialogo.

Nonostante tutto, il recente sollevamento indio in difesa dell'acqua si è concluso con un morto e decine di feriti.

La rivoluzione cittadina che guida Correa è un processo pieno di contraddizioni. La Costituzione dell'Ecuador, approvata il 28 settembre di 2008 dal 64% degli ecuadoriani, è una delle più avanzate del mondo in materia di ecosistema, al punto che riconosce che la natura è un soggetto di diritti. La natura o Pacha Mama, dove si riproduce e realizza la vita, ha diritto che si rispetti integralmente la sua esistenza ed il mantenimento e rigenerazione dei suoi cicli vitali, struttura, funzioni e processi evolutivi, dice l'articolo71.

Tuttavia, il governo ha emesso un insieme di leggi che vulnerano lo spirito e la lettera della nuova Costituzione, in particolare la legge del settore minerario, quella della sovranità alimentare e quella dell'acqua. Ognuna è stata respinta dai movimenti promuovendo mobilitazioni. Il sollevamento iniziato il 27 settembre della Confederazione di Nazionalità Indigene dell'Ecuador (Conaie) e le sue organizzazioni dell'Amazzonia (Confeniae), e la catena montuosa (Ecuarunari), cercava di respingere la Legge di Risorse Idriche inviata ad agosto al parlamento.

Il movimento ha presentato l'anno scorso la sua propria Legge di Acque per il Buon Vivere (Sumak Kawsay) e respinge quella dell'Esecutivo perché non permette la ridistribuzione e statalizzazione dell'acqua e priorizza il suo uso per attività minerarie d'accordo con un piano nazionale di sviluppo di stampo estrattivo, in continuità rispetto al sistema che ha prevalso durante il periodo neoliberale.

D'altra parte, tanto nelle aree rurali come in molte periferie urbane, sono stati gli indigeni e settori popolari quelli che hanno costruito, a piccone e pala, canali di irrigazione e sistemi di distribuzione dell'acqua per il consumo. Si calcola che esistono 3.500 sistemi comunitari di acqua in Ecuador, costruiti e gestiti dalle comunità.

Secondo i movimenti la legge del governo prevede la creazione di un'autorità unica dell'acqua verticale e accentrata. Di conseguenza chi ha costruito le reti di acqua perderebbe il potere di continuare la sua gestione. Vogliono che semplicemente siamo utenti e non attori, ha detto Humberto Cholango, dirigente di Ecuarunari.

Due modi di intendere la vita si fronteggiano oggi nel mondo andino. Ora non si tratta di tentativi di privatizzare l'acqua, come è successo con i governi precedenti. Il problema è il settore delle miniere a cielo aperto, gran consumatore e contaminatore di acqua. La questione di fondo è il modello di paese sul quale ha scommesso Correa, ma anche gli altri governi del continente, compresi i progressisti. Secondo Alberto Acosta, ex presidente dell'Assemblea Costituente e fondatore di Alianza País, partito che ha portato Correa al Palazzo di Carondelet, i governi progressisti sudamericani non hanno messo in discussione né discusso sul modello estrattivo e continuano a scommettere sull'estrazione delle risorse naturali come via allo sviluppo.

Nel caso ecuadoriano si somma un altro problema. I movimenti indigeni, protagonisti dei cambiamenti negli ultimi 20 anni, hanno realizzato il primo sollevamento in1990. Negli anni seguenti hanno abbattuto due governi neoliberali e corrotti (quello di Abdalá Bucaram, in febbraio del 1996 e quello di Jamil Mahuad, in gennaio del 2000), mentre i movimenti urbani hanno svolto un ruolo importante nella caduta di Luccio Gutiérrez nell'aprile del 2005. Correa ha intrappreso l'attività politica nel 2005 ed è arrivato al governo, vincendo le elezioni del 2006, grazie a quasi due decadi di lotte sociali antineoliberali. Tuttavia, osserva Acosta, il suo personalismo gli impedisce di comprendere che lui è lì, nella presidenza, grazie a tutto lo sforzo realizzato dalla società ecuadoriana.

Nell'annunciare la rivolta del 27 di settembre, Correa ha accusato gli indigeni di estremismo, di fare il gioco della destra, (ha menzionato somiglianze tra Ecuador e Honduras) e ha detto che i dirigenti indigeni non hanno rappresentatività. Tuttavia, e a dispetto della scarsa forza della rivolta, si è visto costretto a sedersi in un tavolo di dialogo con 130 rappresentanti dei movimenti. I sei accordi raggiunti che includono continuare a discutere la legge sull'acqua, hanno portato la Conaie a sospendere le misure di lotta, benché una parte delle basi fossero disposte a mantenere la protesta.

La cordigliera andina e l'Amazzonia sono scenari di acuto conflitto tra comunità e multinazionali. In Perù e Colombia la repressione ed i massacri sono la forma che assume la guerra per imporre il modello estrattivo. In Cile si applica la legge antiterrorista ai mapuche che resistono alla versione locale del modello, l'insieme forestazione-cellulosa. In Ecuador, la repressione non è nuova sotto il governo di Correa -è stata applicata in modo massivo a Dayuma nel novembre 2007 e legata allo sfruttamento petrolifero-, ma è stata più un eccezione che una regola, cosa che segna chiare differenze con la politica di Álvaro Uribe e Alan García.

Ciò nonostante, il chiamato socialismo del secolo XXI non può permettersi la repressione agli stessi settori che hanno formato una relazione fra forze dalle quali è sorta una Costituzione come quella promulgata nel 2008. Non si tratta che il regime di Correa abbia vocazione repressiva, oltre i germogli autoritari del presidente.

La questione è il modello di sviluppo: fino ad ora è stato il petrolio; d'ora in poi il settore minerario. Sia quello che sia il socialismo di Correa, la repressione è l'altra faccia del disegno estrattivo.

Video della marcia della CONAIE

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!