I militari Isaf in attesa della nuova strategia comune: dominare il territorio o limitarsi a raid contro Al Qaeda
KABUL - Mettiamola così. Gli americani combattono, ma i risultati sembrano meno che soddisfacenti. Sono i più determinati tra i 42 contingenti della missione Nato-Isaf, vorrebbero che tutti facessero come loro per contrastare Al Qaeda e i talebani. Però il rischio del fallimento appare palese e lo fanno puntualmente notare gli alleati a Kabul, basta contare la lista sempre più lunga dei loro morti e il crescente tasso di aggressività della guerriglia. Non aiuta l’impasse seguita alla presentazione del piano del generale Stanley McChrystal, che include l’aumento di 40 mila uomini per il contingente Usa.
Che fare? Accrescere la presenza alleata, diffonderla ancora di più tra la popolazione civile, come fece David Petraeus nell’Iraq del 2007? Oppure ridurla e concentrarsi solo a combattere Al Qaeda sulle montagne del confine afghano-pakistano? «Il dilemma resta apertissimo. Da una parte si tratta di sposare il principio per cui siamo venuti a costruire un Paese ex novo, coinvolti nel forgiarne il sistema politico, l’economia, la società e l’esercito. L’alternativa è invece tornare alle radici della guerra nel 2001. Allora intervenimmo per eliminare i terroristi, per evitare un altro 11 di settembre», osservano scettici i diplomatici europei in loco. Al superprotetto quartier generale dell’Isaf nella capitale il clima è pesante. Il dibattito, già infuocato a Washington, qui si traduce in polemiche acide e sospetti che danneggiano le capacità operative delle truppe sul campo.
Gli inglesi ancora un anno e mezzo fa apparivano come fedelmente allineati alle posizioni Usa. Adesso molto meno. Predicano invece la necessità di negoziare un compromesso persino con il Mullah Omar, ribadiscono che la soluzione non è militare. «Occorre includere i talebani nel governo afghano. Non ci sarà pace senza il ritorno massiccio dei pashtun nella politica nazionale», sostengono nelle riunioni con i diplomatici occidentali a Kabul. I più critici sono tedeschi e turchi, molto poco disposti a rischiare soldati. «Se ne restano chiusi nelle loro basi, non combattono, pur di non perdere uomini sono pronti a lasciar fallire la missione», accusano risentiti gli ufficiali degli altri contingenti, specie Usa, britannici, canadesi e danesi.
Migliorato è invece il giudizio sui francesi: «Una volta erano anche peggio dei tedeschi. Ma Nicolas Sarkozy ha cambiato radicalmente strategie. È un atlantista convinto. Il contingente nella zona di Sarobi è diventato più reattivo, forse anche perché si rende conto che non ha alternative. Dopo i 10 soldati uccisi nelle vallate che portano a Jalalabad nell’agosto 2008, a Parigi hanno deciso che la miglior difesa era l’attacco».
Sta nel frattempo complicandosi la situazione degli italiani. Criminalità, rapimenti e terrorismo colpiscono ormai anche molto vicino al quartier generale italiano presso l’aeroporto di Herat. Che lo scenario sia tutt’altro che facile per i circa 60 mila uomini del contingente internazionale è del resto cosa ben nota. Dall’invasione nell’ottobre 2001 i morti tra i suoi ranghi sono stati oltre 1.500. I conteggi del sangue sono però cresciuti soprattutto negli ultimi 3 anni, in concomitanza con la decisione nel gennaio 2006 di allargare il mandato di Isaf dalla sola Kabul all’intero Paese. Nel 2009 i caduti sono stati poco meno di 400. Ad agosto l’impennata delle vittime Usa ha toccato quota 55. Settembre è stata simile. E i primi giorni di ottobre hanno visto bilanci da capelli bianchi, ancora peggiori dei momenti più gravi nell’Iraq della guerra civile tra 2005 e 2007.
È in questo clima di incertezza e attesa preoccupata che crescono le tensioni interne. Fu evidente per esempio il 4 settembre, dopo che un gruppo talebano si era impadronito di due autocisterne Nato nella regione di Kunduz, nel Nord controllato dal contingente tedesco. L’azione avviene di notte, gli aerei senza pilota individuano poco dopo i mezzi rubati a 7 chilometri dal quartier generale tedesco. Il suo comandante chiede allora l’intervento degli F16 americani, che li bombardano causando diverse vittime civili e una nuova, grave crisi nei rapporti tra Isaf e opinione pubblica locale. «Perché le pattuglie di terra tedesche non sono intervenute?», chiede polemicamente lo stesso Hamid Karzai. Per gli americani la risposta è sconsolatamente ovvia: «I tedeschi non vogliono vittime tra i loro ranghi. Così stanno perdendo il controllo del Nord». Ma d’altra parte la spettacolarità dell’attacco di oltre 300 talebani contro due avamposti americani sulle montagne del Nouristan ai primi di ottobre pone una grossa ipoteca sulle teorie della guerra ad oltranza.
Tensioni simili stanno covando anche con i turchi. In questo caso sono coinvolti gli italiani. Il 30 settembre la Folgore, come da programma, ha lasciato il fortino avanzato nella vallata di Musahi, eretto tre anni fa a una trentina di chilometri a sud di Kabul, per passarlo alle nuove forze di sicurezza afghane. Entro l’ultima settimana di ottobre, con l’avvicendamento della brigata «Sassari», le forze italiane verteranno tutte su Herat. Ma c’è un problema. «Noi non siamo in grado di tenere la posizione. Abbiamo bisogno della presenza di Isaf. Ed è grave, perché da qui le milizie talebane attestate nel Lowgar possono raggiungere facilmente la zona di Kabul», ammette il colonnello locale, Ahmadullah Oriankhel. Che fare? «Toccherebbe ai turchi prendere il nostro posto. Però non lo vogliono fare, il loro mandato lo vieta», spiega il colonnello Aldo Zizzo, comandante locale della Folgore. Dal quartier generale turco rispondono secchi che le attività del contingente saranno concentrate a campo Invicta, nella capitale, per addestrare i militari afghani.
«Questa è una vera guerra alla guerriglia. Se non uniamo le forze, se non coordiniamo le nostre operazioni, il nostro compito sarà ancora più difficile», ci dice il generale della Folgore Marco Bertolini, numero tre nella gerarchia del comando di McChrystal. Ma i problemi di coordinamento restano immensi. Al loro cuore sta quello dei caveat, le regole di comportamento sul campo, che il governo di ogni Paese ha impartito al proprio contingente. Non è un mistero che McChrystal vorrebbe omogeneizzarle il più possibile. Il nuovo segretario generale della Nato, Fogh Rasmussen, è pienamente d’accordo con lui. «Rasmussen pensa addirittura che i caveat vadano cancellati per la sopravvivenza della Nato», dichiarano per telefono i suoi portavoce a Bruxelles.
Lorenzo Cremonesi