Il popolo mapuche porta avanti una politica di rivendicazione tanto taciuta quanto storica. Soggetto alla legge, ha cominciato a recuperare territorio ancestrale. Al commemorare il 12 di ottobre, i casi, le testimonianze e le battaglie delle comunità
Wiñomüleiñ ta iñ mapu meu significa in lingua mapuche "territori recuperati”. È un'aspirazione, una pratica rivendicativa e, soprattutto, un diritto dei popoli originari a ritornare ai fondi che sono stati loro sottratti. Solo nell'ultima decade, e dopo aver esaurito l'iter amministrativo e giudiziale, il popolo mapuche ha recuperato 233 mille ettari - undici volte la superficie della città di Buenos Aires - il che ha comportato il loro ritorno alle terre ancestrali.
Appoggiati da trattati internazionali che hanno rango superiore alle leggi locali, il recupero implica molto più che ettari di terreno, installa una concezione differente della terra che interpella il concetto di proprietà individuale alla ricerca di rendimento e lo soppianta per un spazio di occupazione collettivo, "territorio ancestrale", imprescindibile per lo sviluppo come popolo originario.
"La nostra visione sbatte contro gli interessi del capitale che pretende l'appropriazione del territorio, e con i governi che permettono, facilitano ed orchestrano le nuove forme del saccheggio", spiegano dal Consejo Asesor Indígena (CAI), organizzazione di base delle comunità indigene del Rio Negro.
Lucinda Quintupuray aveva 79 anni. Tutta la sua vita è rimasta nello stesso posto, paraggi di Cuesta del Ternero, a 30 chilometri di El Bolsón, terre pregiate per commercianti immobiliari. E' stata trovata con due colpi di arma da fuoco. Non le hanno rubato niente, l'hanno assassinata solamente. Un anno dopo, Victoriano Quintupuray, figlio di Lucinda ed erede dei 2500 ettari è stato trovato soffocato. La polizia lo ha catalogato come “incidente".
Era agosto del 1994 e cominciava una lunga battaglia legale per il territorio ancestrale. La Comunità Quintupuray da un lato, il governo del Rio Negro ed operatori immobiliari dall'altro.
Dopo quindici anni di dispute amministrative e giudiziali, il 5 maggio del 2008, la Comunità Quintupuray ha recuperato il territorio: è entrata nell'appezzamento, ha costruito un'abitazione e ha cominciato ad utilizzare il territorio.
"Il governo provinciale non solo non prende in considerazione il crimine impune ma avanza nel completare il saccheggio, ignorando la nostra esistenza", ha spiegato la Comunità il giorno che è ritornata al suo posto.
Il Consejo Asesor Indígena (CAI) ha sostenuto la comunità e incitato la Direzione di Terre ed il Consiglio di Sviluppo delle Comunità Indigene (Codeci), dipendente dal Governo. Le "sue decisioni sono funzionali a chi vuole appropriarsi del nostro territorio. Non difenderemo solo i nostri diritti collettivi ma continueremo ad avanzare nel recupero del nostro territorio", ha affermato il CAI che ha sostenuto le comunità mapuches nel recupero di 160 mila ettari negli ultimi 10 anni.
Il presidente del Codeci, Fiorentino Huircapan, fuorviò dalle responsabilità nelle accuse, ma ha assicurato di appoggiare i recuperi come "un atto di giustizia". Ha accettato anche che il Governo provinciale sia in debito con i popoli indigeni e ha riconosciuto che nessuna delle 126 comunità del Rio Negro conta con titolo comunitario.
Il CAI è una delle organizzazioni di riferimento della lotta indigena. La sua formazione risale a metà degli anni '80, quando a forza di mobilitazioni e dibattiti sono riusciti ad ottenere una legislazione provinciale d'avanguardia, (Legge 2287). Due dei punti più innovativi erano l'espropriazione di terre da consegnare alle comunità e l'indagine storica del saccheggio del territorio, con la successiva restituzione.
“Dopo di dieci anni di tentativi per via amministrativa, con esigui risultati e grovigli burocratici, nel 1997 una trawün (assemblea), in località Ingeniero Jacobacci ha deciso di procedere con recuperi territoriali. "Per anni abbiamo creduto che lo Stato avrebbe restituito la terra depredata. Ma si è data finita la tappa amministrativa, il potere politico non ha alcuna volontà di rispettare la legge, lo Stato non ha volontà di restituire quello che ha tolto", ha spiegato Chacho Liempe, del CAI.
Si sono moltiplicate le azioni dirette e al passo con legalizzazioni di giudici corrotti, funzionari dalla doppia faccia e poliziotti di grilletto facile. Ad ogni sopruso corrispondeva un avanzamento nei campi, nella Linea Meridionale (l'inospitale deserto provinciale), o nella cordigliera, ettari recuperati dalle mani di grandi proprietari, governi (provinciali e nazionali) ed imprese forestali. Non sono mai stati occupati metri di terra di affittuari, contadini o piccoli produttori.
Tra 1987 e 1989 sono state realizzate riappropriazioni territoriali per più di 30 mila ettari. Nel 2000 si è prodotto il primo recupero, della Comunità Casiano-Epumer, di 8000 ettari che aveva usurpato un impresario e proprietario terriero locale. La Giustizia ha negato per sette anni il diritto a quegli appezzamenti, ma la Corte Suprema della Nazione ha certificato che la comunità aveva compiuto tutti i passi amministrativi, confermato che la provincia non rispose al reclamo e ha sollecitato il Tribunale di Bariloche ad occuparsi del caso.
Tra 2002 e 2005 si è proceduto per altri 30 mila ettari. Fino a maggio passato, e con una ventina di casi, il popolo mapuche del Rio Negro arriva al recupero di 160 mila ettari. La maggior parte nei dintorni di Ingeniero Jacobacci, Maquinchao ed El Bolsón.
Caso paradigmatico è la comunità José Manuel Pichún, a quindici chilometri da El Bolsón. Nonostante abitassero lo stesso posto da fin dal secolo XIX, il Governo provinciale (attraverso la Direzione Forestale), è entrato nel territorio ancestrale nel 1987, ha recintato e seminato monocoltura di pini in 250 ettari comunitari. Sono seguiti decine di richiami amministrativi senza risposta. In maggioscorso, quando un membro della comunità estraeva legna, è stato denunciato per "furto" nella sua propria terra.
"Di fronte a questa situazione, e stanchi di sopportare tanto oltraggio ed ingiustizia, la comunità Pichún ha deciso di riaffermare il possesso usurpato dall'impresa forestale", ha spiegato in un comunicato il 18 di giugno passato. Si sono rifiutati di ritirare i loro animali e hanno cominciato la costruzione di un'abitazione nel cuore della pineta. E hanno continuato più avanti: esigendo che l'Impresa Forestale Statale Rionegrina, Emforsa, si ritiri definitivamente.
Il Governo, contraddicendo tutta la normativa vigente (inclusa la stessa Costituzione provinciale), ha chiesto lo sgombero degli occupanti storici.
La Confederazione Mapuche di Neuquén ha quasi quattro decadi di storia, è protagonista della resistenza e i progressi nella regione. Benché attualmente i maggiori conflitti si producano per i tentativi di sgombero e criminalizzazioni, conta recuperati 73 mila ettari, principalmente nel dipartimento di Aluminé, e gran parte sono campi ad utilizzo stagionale. In 1995 sono cominciati con la più grande azione di recupero, nella proprietà Pulmarí, dipartimento di Aluminé, 350 chilometri dalla capitale provinciale. Un cimitero indigeno ed arte ancestrale su pietra confermano la preesistenza indigena. Se ne era appropriato lo Stato dopo della Campagna al Deserto, espropriati dal primo governo peronista e, uno delle maggiori tenute, trasferita all'Esercito.
La Corporación Interestadual Pulmarí (CIP) era stata creata in 1987 con l'obiettivo di amministrare in forma sostenibile 112 mila ettari, con una graduale restituzione al popolo mapuche. Ma la Confederazione Mapuche ha cominciato a denunciare che la CIP funzionava come "un agenzia immobiliare", dove c'era consegna di terre a "amici del potere”. Dopo ripetute denunce e richiami, hanno avuto inizio i recuperi. In quattordici anni sono stati recuperati 70 mila ettari, comprese diecimila che sono reclamate dall'Esercito. Nove comunità, 900 famiglie, 3500 persone che hanno già recuperato territorio ancestrale.
"Il concetto di recupero si completa con quello di restituzione che è l'atto legale di riconoscimento che ci aspettiamo su quelli recuperi. Per affermare che quelle terre le occupano come atto di stretta legittimità storica, davanti alla inattività politica e giuridica, e davanti alla minaccia imminente di subire l'intervento degli speculatori della zona", nota Jorge Nahuel, della Confederazione Mapuche.
Due mesi fa, il CAI ha preso l'iniziativa sul fronte giudiziale. In un caso inedito, ha esposto un reclamo collettiva contro lo Stato. "Chiediamo giudizialmente allo Governo del Rio Negro affinché disponga il riconoscimento totale e definitivo delle frazioni del territorio tradizionale che occupiamo. Contemporaneamente, affinché istituisca una commissione investigatrice dei saccheggi e furti di terre, e restituisca gli spazi", hanno segnalato undici comunità mapuches.
In base alla Costituzione Provinciale e la legislazione internazionale, l'obiettivo di fondo della domanda contro lo Stato del Rio Negro è che si dichiari la nullità di tutti gli atti amministrativi "che hanno legalizzato il saccheggio” delle terre storicamente occupate dalle comunità. La linea sostenuta nella denuncia è applicabile agli altri popoli originari: "Il furto di terre è stata una pratica estesa contro il popolo mapuche. Il meccanismo di saccheggio ed omissione che porta avanti lo Stato è a danno delle comunità e a beneficio di terzi, compreso il proprio Stato."