lunedì 12 ottobre 2009

Sognare Napoli

Immagini del capoluogo campano con occhi dell'altro lato dell'oceano

Riportiamo l'articolo de La Jornada scritto da Hermann Bellinghauser di ritorno da Napoli dove ha presentato il film "Corazon del Tiempo".


Desembarco del tren en el puerto de Nápoles y casi sin darme cuenta me encuentro sumergido en la excitada ciudad. Los carros, las motonetas y los transeúntes, numerosísimos todos, se mueven con libertad, caóticos, impacientes y eficaces en calles estrechas o de plano callejones curvilíneos que suben y bajan. La sombra de la arquitectura masiva cae sobre la calle, abigarrada de balcones (el sello de la ciudad, que literalmente vive asomada), de ropa y sábanas tendidas, macetas con enredaderas colgantes, nichos poblados de dioses, tritones y próceres húmedos, sucios, pesados.

Las avenidas no lo son mucho, no dan el ancho. A sus lados se implantan inmensos edificios grises; los modernos, herencia del entusiasmo musoliniano; los antiguos, de la corona española y sucesivos reyes y reyezuelos. Inútiles castillos y moles administrativas.

De pronto me viene una sensación, un rush de familiaridad intensa. El laberinto gris y nervioso es idéntico a una ciudad que frecuento en mis sueños y que no había logrado identificar. Recuerdo los espacios físicos en mi tránsito azaroso y sorpresivo, aunque no lo que sucede, si es que en esos sueños sucede algo más que este lugar de muros arrugados y verticales, serpenteando por vías empedradas que de la línea recta lo ignoran todo.

Las iglesias no son hermosas ni lo pretenden. Fortalezas, para un sitio que ha recibido el latigazo de grandes terremotos y los cambios de humor del implacable Vesuvio, ya ven a Pompeya, no lejos de aquí, cómo le fue.

Aquí todos son extrovertidos, sonoros, enfáticos. La sangre que les corre es caliente, como el sol que trae de la bahía vaharadas de las aguas contaminadas y semimuertas que sirven de suelo a otra ciudad, la flotante, hecha de millones de contenedores traídos y vomitados por barcos de China, que si te vi, no me acuerdo, fantasmas.

El día que llego a Nápoles es 30 de septiembre, aniversario de la primera insurrección popular en territorio europeo contra los fascistas y los nazis. Los napolitanos los echaron a patadas, entonces. Hoy, 5 mil manifestantes antifascistas no lo logran. Marchan contra la ocupación de un edificio eclesiástico abandonado, por una organización facha que cunde por Italia y se hace llamar Casa Pound. Okupas de derecha que con los procedimientos de la izquierda organizada (pintas, propaganda, Internet, radios libres, ocupaciones, centros sociales) aprovechan la permisividad con ellos del gobierno de Silvio Berlusconi para proliferar y ganar presencia.

Aprovechan la crisis económica e igualmente la derrota política y cultural de la izquierda italiana actual, de pronto sin unidad ni rasgos de identidad. Para dar el gatazo, los nuevos fachos ya hasta reivindican figuras culturales como el poeta estadunidense Ezra Pound, a quien seguramente no han leído. En todo caso, el fascismo del viejo Pound, la fase más estúpida de su genio, no aparece en su poesía ni en su edificio crítico. Ahora lo admiran porque durante guerra se quedó en el país y por la radio se dedicó a alabar a Benito Mussolini y vituperar a las tropas aliadas y la usura judía. Cuando los yanquis lo capturaron, piadosamente fue declarado chiflado, más que traidor a la patria, y de la cárcel pasó al hospital siquiátrico St. Elizabeth, donde con el tiempo compartiría las horas del recreo con Juan Ramón Jiménez, otro gran poeta en el otoño de su locura, pero que nunca fue fascista.

Los jóvenes libertarios, que marcharon con cascos y rostros cubiertos este mediodía, chocaron con la policía, la cual con gases y toletes les impidió llegar a la Casa Pound donde los fascistas esperaban desafiantes; se les conoce por golpear a homosexuales y migrantes, y provocar a los estudiantes.

En tanto, por las calles de las ciudades italianas, grandes carteles de la organización política de Berlusconi rinden homenaje a los soldados caídos en Afganistán combatiendo a los talibanes con una conmovedora frase sobre el honor y el amor de Ernst Jünger, el escritor alemán que amaba la guerra y terminó despreciándola con aristocrático gesto; que peleó las dos guerras europeas del siglo XX, la segunda como oficial del ejército nazi, y es autor de cabecera para los intelectuales de derecha en Francia y España.

En distintas partes de Italia se rinde homenaje estos días, con exposiciones, ediciones y discursos, a los pintores y poetas futuristas, aquella vanguardia profascista del siglo pasado. Dejaron la picaresca histórica y son héroes nacionales.

Con una renovada aplicación de los métodos de propaganda del doctor Goebbels (que a su vez plagiaba a su enemigo leninista), por primera vez desde su derrota en 1945 los neofascistas europeos tienen nervio para reivindicar, así sea de oídas, una herencia cultural. Este 30 de septiembre, en Nápoles, se dejó ver que la izquierda, y su resistencia contra ellos, necesitan volver a nacer. Ya conocemos la pesadilla, y la Historia no espera a nadie.

Kabul e il dilemma delle forze alleate

Sono 42 le nazioni ad avere inviato soldati, ognuna ha regole di ingaggio diverse

I militari Isaf in attesa della nuova strategia comune: dominare il territorio o limitarsi a raid contro Al Qaeda

KABUL - Mettiamola così. Gli ame­ricani combattono, ma i risultati sem­brano meno che soddisfacenti. Sono i più determinati tra i 42 contingenti del­la missione Nato-Isaf, vorrebbero che tutti facessero come loro per contrasta­re Al Qaeda e i talebani. Però il rischio del fallimento appare palese e lo fanno puntualmente notare gli alleati a Ka­bul, basta contare la lista sempre più lunga dei loro morti e il crescente tasso di aggressività della guerriglia. Non aiuta l’impasse seguita alla presentazio­ne del piano del generale Stanley Mc­Chrystal, che include l’aumento di 40 mila uomini per il contingente Usa.

Che fare? Accrescere la presenza allea­ta, diffonderla ancora di più tra la popo­lazione civile, come fece David Petra­eus nell’Iraq del 2007? Oppure ridurla e concentrarsi solo a combattere Al Qae­da sulle montagne del confine afgha­no-pakistano? «Il dilemma resta aper­tissimo. Da una parte si tratta di sposa­re il principio per cui siamo venuti a co­struire un Paese ex novo, coinvolti nel forgiarne il sistema politico, l’econo­mia, la società e l’esercito. L’alternativa è invece tornare alle radici della guerra nel 2001. Allora intervenimmo per eli­minare i terroristi, per evitare un altro 11 di settembre», osservano scettici i diplomatici europei in loco. Al super­protetto quartier generale dell’Isaf nel­la capitale il clima è pesante. Il dibatti­to, già infuocato a Washington, qui si traduce in polemiche acide e sospetti che danneggiano le capacità operative delle truppe sul campo.

Gli inglesi ancora un anno e mezzo fa apparivano come fedelmente allinea­ti alle posizioni Usa. Adesso molto me­no. Predicano invece la necessità di ne­goziare un compromesso persino con il Mullah Omar, ribadiscono che la so­luzione non è militare. «Occorre inclu­dere i talebani nel governo afghano. Non ci sarà pace senza il ritorno massic­cio dei pashtun nella politica naziona­le», sostengono nelle riunioni con i di­plomatici occidentali a Kabul. I più cri­tici sono tedeschi e turchi, molto poco disposti a rischiare soldati. «Se ne resta­no chiusi nelle loro basi, non combatto­no, pur di non perdere uomini sono pronti a lasciar fallire la missione», ac­cusano risentiti gli ufficiali degli altri contingenti, specie Usa, britannici, ca­nadesi e danesi.

Migliorato è invece il giudizio sui francesi: «Una volta erano anche peggio dei tedeschi. Ma Nicolas Sarkozy ha cambiato radicalmente stra­tegie. È un atlantista convinto. Il con­tingente nella zona di Sarobi è diventa­to più reattivo, forse anche perché si rende conto che non ha alternative. Do­po i 10 soldati uccisi nelle vallate che portano a Jalalabad nell’agosto 2008, a Parigi hanno deciso che la miglior dife­sa era l’attacco».

Sta nel frattempo com­plicandosi la situazione degli italiani. Criminalità, rapimenti e terrorismo col­piscono ormai anche molto vicino al quartier generale italiano presso l’aero­porto di Herat. Che lo scenario sia tut­t’altro che facile per i circa 60 mila uo­mini del contingente internazionale è del resto cosa ben nota. Dall’invasione nell’ottobre 2001 i morti tra i suoi ran­ghi sono stati oltre 1.500. I conteggi del sangue sono però cresciuti soprattutto negli ultimi 3 anni, in concomitanza con la decisione nel gennaio 2006 di al­largare il mandato di Isaf dalla sola Ka­bul all’intero Paese. Nel 2009 i caduti sono stati poco meno di 400. Ad agosto l’impennata delle vittime Usa ha tocca­to quota 55. Settembre è stata simile. E i primi giorni di ottobre hanno visto bi­lanci da capelli bianchi, ancora peggio­ri dei momenti più gravi nell’Iraq della guerra civile tra 2005 e 2007.

È in que­sto clima di incertezza e attesa preoccu­pata che crescono le tensioni interne. Fu evidente per esempio il 4 settem­bre, dopo che un gruppo talebano si era impadronito di due autocisterne Nato nella regione di Kunduz, nel Nord controllato dal contingente tedesco. L’azione avviene di notte, gli aerei sen­za pilota individuano poco dopo i mez­zi rubati a 7 chilometri dal quartier ge­nerale tedesco. Il suo comandante chie­de allora l’intervento degli F16 america­ni, che li bombardano causando diver­se vittime civili e una nuova, grave cri­si nei rapporti tra Isaf e opinione pub­blica locale. «Perché le pattuglie di ter­ra tedesche non sono intervenute?», chiede polemicamente lo stesso Hamid Karzai. Per gli americani la risposta è sconsolatamente ovvia: «I tedeschi non vogliono vittime tra i loro ranghi. Così stanno perdendo il controllo del Nord». Ma d’altra parte la spettacolari­tà dell’attacco di oltre 300 talebani con­tro due avamposti americani sulle mon­tagne del Nouristan ai primi di ottobre pone una grossa ipoteca sulle teorie della guerra ad oltranza.

Tensioni simili stanno covando an­che con i turchi. In questo caso sono coinvolti gli italiani. Il 30 settembre la Folgore, come da programma, ha la­sciato il fortino avanzato nella vallata di Musahi, eretto tre anni fa a una tren­tina di chilometri a sud di Kabul, per passarlo alle nuove forze di sicurezza afghane. Entro l’ultima settimana di ot­tobre, con l’avvicendamento della bri­gata «Sassari», le forze italiane verte­ranno tutte su Herat. Ma c’è un proble­ma. «Noi non siamo in grado di tenere la posizione. Abbiamo bisogno della presenza di Isaf. Ed è grave, perché da qui le milizie talebane attestate nel Lowgar possono raggiungere facilmen­te la zona di Kabul», ammette il colon­nello locale, Ahmadullah Oriankhel. Che fare? «Toccherebbe ai turchi pren­dere il nostro posto. Però non lo voglio­no fare, il loro mandato lo vieta», spie­ga il colonnello Aldo Zizzo, comandan­te locale della Folgore. Dal quartier ge­nerale turco rispondono secchi che le attività del contingente saranno con­centrate a campo Invicta, nella capita­le, per addestrare i militari afghani.

«Questa è una vera guerra alla guer­riglia. Se non uniamo le forze, se non coordiniamo le nostre operazioni, il no­stro compito sarà ancora più difficile», ci dice il generale della Folgore Marco Bertolini, numero tre nella gerarchia del comando di McChrystal. Ma i pro­blemi di coordinamento restano im­mensi. Al loro cuore sta quello dei cave­at, le regole di comportamento sul campo, che il governo di ogni Paese ha impartito al proprio contingente. Non è un mistero che McChrystal vorrebbe omogeneizzarle il più possibile. Il nuo­vo segretario generale della Nato, Fogh Rasmussen, è pienamente d’accordo con lui. «Rasmussen pensa addirittura che i caveat vadano cancellati per la so­pravvivenza della Nato», dichiarano per telefono i suoi portavoce a Bruxel­les.

Non tutti sono però d’accordo. «Im­possibile abolire i caveat. Sono parte in­tegrante della cultura di ogni singola nazione componente di Isaf. È banale dire che la filosofia che guida larga par­te delle forze di intervento europee è molto diversa da quella di americani o canadesi», aggiunge Bertolini. «La no­stra è una missione di pace. Su questo punto il mandato concesso dal Parla­mento di Berlino è chiarissimo. Siamo venuti per aiutare a costruire l’Afghani­stan, non per fare la guerra», rincara Uwe Nowitz, colonnello tedesco e por­tavoce a Kabul. Ma come evitare che i talebani e i lo­ro alleati non sfruttino le differenze al­l’interno di Isaf per dribblare le difficol­tà? La domanda sorge evidente dopo aver trascorso una settimana assieme ai Marines nella regione meridionale di Helmand. Qui la nuova strategia americana è già in atto da almeno un paio di mesi. I soldati sono sparsi in piccoli fortini avanzati affiancati ai vil­laggi assieme alla polizia afghana. Prati­camente tutte le operazioni sono con­dotte con gli aerei senza pilota, che re­stano in volo notte e giorno in pieno coordinamento con i comandi che sor­vegliano le zone tribali pakistane. E la conseguenza è che i gruppi talebani tendono a fuggire verso Sud, a Est, e so­prattutto nelle zone occidentali control­late dagli italiani lungo il confine con l’Iran, a Farah, Herat e nel Badghis. «Ora tocca agli italiani fare la loro. Stringere patti con i comandanti taleba­ni è perdente. I nemici si combattono e basta», sostiene il colonnello dei Mari­nes Tim Grattan nel fortino circondato da campi di oppio a Khan Neshin. «Dobbiamo impedire che i talebani ap­profittino delle nostre differenze inter­ne per rafforzarsi».

Lorenzo Cremonesi


BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!