giovedì 6 dicembre 2012
Slovenia - Sull’orlo di una crisi di nervi
Alle elezioni si sono accompagnati proteste e scontri di piazza per la grave situazione economica in cui versa il paese: dal 2009 il Pil ha subito una contrazione maggiore dell’8%.
Bagliori di fiamme dalla Slovenia. Dopo l'euforia dell’ingresso nell’Eurozona, le pene della crisi economia dell’UE.
Cosa sta succedendo nella vicina Slovenia, di cui pochi parlano, nonostante si trovi a pochi passi dai nostri territori e da cui ci giungono i bagliori delle fiamme degli scontri di piazza?
Vediamo di delineare un quadro che ci possa dare una chiave di lettura in attesa di poter offrire un resoconto più completo.
Confermando gli exit poll, ma smentendo tutti i pronostici della vigilia, il leader del Partito socialdemocratico, Borut Pahor ha battuto il presidente uscente Danilo Turk ottenendo al ballottaggio il 67,4% dei voti, contro il 32,6%. La consultazione non sembra però aver coinvolto gran chè gli elettori sloveni, infatti soltanto il 40% o poco più degli aventi diritto si è recato alle urne. Si tratta dell’affluenza più bassa del paese dall’indipendenza ottenuta nel ’91.
Alle elezioni si sono accompagnati proteste e scontri di piazza per la grave situazione economica in cui versa il paese: dal 2009 il Pil ha subito una contrazione maggiore dell’8%.
L’economia della Slovenia ha inanellato la seconda recessione degli ultimi tre anni, fortemente influenzata dal pessimo andamento dell’eurozona, oltre che penalizzata da un settore bancario sull’orlo di una crisi di nervi. Qualche numero? Il prodotto interno lordo si è contratto nel terzo trimestre del 2012 (luglio-settembre) di 0,3 punti percentuali, mentre rispetto a un anno fa è calato del 2,3%. Allo stesso tempo, il comparto bancario ha un accesso limitato ai finanziamenti, eccezion fatta per i prestiti della Bce.
Le prospettive future non sono dunque incoraggianti. In particolare, il governo di Lubiana è destinato ad essere il sesto tra i membri dell’eurozona a richiedere un salvataggio finanziario, dopo Portogallo, Irlanda, Cipro, Spagna e Grecia. Già nel 2011 si erano intuite le prime difficoltà, in quel caso imputabili al settore delle costruzioni: in effetti, gli eccessivi acquisti di immobili di lusso non hanno poi reso con la stessa velocità, ragione per cui moltissime compagnie si sono indebitate.
Il nuovo presidente, Borut Pahor, ha detto di condividere la scelta del primo ministro conservatore, Janez Jansa, di seguire le indicazioni Europee, e del Fondo Monetario Internazionale, per arginare la crisi. Gli interventi richiesti sono le ormai note misure di austerità che dovrebbero limitare la spesa pubblica per risanare il bilancio e ridurre il debito in modo da poter tornare a ottenere credito a tassi ragionevoli.
Sono già 5 giorni che a Lubjana e Maribor si susseguono manifestazioni con cortei e scontri con la Polizia, sul tappeto, dunque, la crisi economica che attanaglia il Paese, dopo le euforie dell’ingresso a pieno titolo nell’eurozona, oggi vengono imposte severe politiche di austerità, tra cui il taglio del 40% delle già misere pensioni, goccia questa che ha fatto traboccare il vaso ed ha innescato le recenti ondate di proteste.
A questo va aggiunto una diffusa insofferenza per un sistema di corruttele che attraversa le Istituzioni, di cui il sindaco di Maribor, questo sarebbe il motivo per cui in questa città più che altrove le manifestazioni sono state maggiormente partecipate e gli scontri più duri.
Anche ieri sei veicoli della polizia sono stati danneggiati, alcune vetrate del municipio, a cui è stato tentato un assalto, sono state rotte, così come sono state danneggiate alcune fermate degli autobus nel centro della città e sono stati incendiati una dozzina di cassonetti. Il vice sindaco di Maribor, Milan Mikl, ha detto di temere “la completa anarchia”.
www.ilpost.it
Il Mondo
mercoledì 5 dicembre 2012
Egitto - Continua la protesta contro Morsi che è costretto a lasciare il palazzo presidenziale
Intanto anche in Tunisia si manifesta contro la repressione e le provocazioni
Mentre in Tunisia continuano le proteste dopo la pesante repressione a Siliana e la giornata di oggi ha visto un nuovo corteo a Tunisi in risposta all'assalto avvenuto da parte di esponenti di Ennadha della sede del sindacato UGT, anche oggi in Egitto ci sono state nuove manifestazioni.La protesta è arrivata fin sotto il palazzo presidenziale dove ci sono stati scontri con la polizia. I manifestanti hanno cercato di rompere il blocco davanti al palazzo e sono stati allontanati da un fitto lancio di lacrimogeni da parte dei poliziotti.
Alcune agenzie di stampa dicono che il Presidente Morsi ha lasciato la residenza nel quartiere di Heliopolis per andare a rifugiarsi nella residenza alla periferia della capitale. La stessa tv di stato egiziana ha detto che le forze di sicurezza si sono ritirate dal perimetro esterno del palazzo presidenziale, mentre Al Jazeera ha mostrato le immagini di un blindato della polizia seguito da un gruppo di poliziotti in tenuta antisommossa completamente circondato dai manifestanti.
Il bilancio della giornata è di numerosi manifestanti feriti ed intossicati dai gas lacrimogeni.
La manifestazione di oggi era stata annunciata come un "avvertimento finale" da parte dell'opposizione nei confronti di una costituzione, frutto della maggioranza islamista (nell'Assemblea costituente che l'ha approvata i laici ed i cristinai non hanno partecipato) e che mette a repentaglio le libertà democratiche oltre ai diritti delle donne e delle minoranze. E' questa costituzione che Morsi vorrebbe portare a referendum il 15 dicembre.
martedì 4 dicembre 2012
Messico - I movimenti sociali contro l'insediamento di Pena Nieto
Il primo dicembre,
giornata di insediamento come Presidente di Enrique Pena Nieto a Città
del Messico e in altre città del paese si è fatta sentire la protesta
contro un presidente che tanti ritengono illegittimo. A Città del
Messico le cariche sono state molto dure contro i manifestanti.
di Giovanna Gasaparello dal Messico.
Più di cento arresti e decine di feriti: con questo drammatico bilancio
inizia il governo di Enrique Peña Nieto e del Partido Revolucionario
Institucional. Le immagini degli scontri di piazza, dove all’ira
dei manifestanti l’enorme spiegamento di polizia in assetto
antisommossa ha risposto con una violenza estrema (lancio di
lacrimogeni al gas CS e pallottole di gomma, uso di idranti, etc),
rimanda alle manifestazioni nostrane di Genova 2001, o Roma 2011.
D’altro canto, ciò che è successo ieri per le strade del centro
di Città del Messico ma anche all’esterno della Fiera
Internazionale del Libro di Guadalajara (dove sono stati 20 i feriti
tra i manifestanti) era chiaramente prevedibile: da una settimana le
vicinanze del Parlamento, dove si è svolta la prima parte della
cerimonia ufficiale, erano state blindate e rese inaccessibili anche
agli abitanti: altissime transenne metalliche e uno spiegamento
permanente di polizia aveva trasformato l’intero quartiere in una
vera e propria zona
rossa.
Nonostante le reiterate proteste dei manifestanti e dei partiti di
opposizione, l’assedio è stato mantenuto per tutta la settimana
fino al giorno cruciale. La gestione sanguinaria dell’ordine
pubblico non rappresenta un cattivo inizio, ma piuttosto una pessima
continuazione nell’esercizio del governo da parte di Enrique Peña
Nieto: non dimentichiamo che era lui al governo dello Stato del
Messico, e dunque l’autorità direttamente responsabile, quando nel
2006 la manifestazione del Frente de Los Pueblos en Defensa de la
Tierra e degli abitanti di San Salvador Atenco fu duramente repressa,
causando due giorni di scontri nella cittadina, due giovani
manifestanti uccisi e decine di arrestati che passarono diversi anni
in carcere prima di venire liberati con un verdetto di Cassazione.
Dopo l’arresto, decine di donne arrestate furono violentate nei
furgoni cellulari e nelle caserme di polizia. Al rispetto, l’allora
governatore ed attuale presidente del Messico, non ha mai
riconosciuto le efferate violazioni ai diritti umani commesse dalla
polizia; e, a testa alta, inizia un nuovo governo che certo non
promette proprio niente di buono.
Ricordiamo
che le elezioni dello scorso luglio erano state macchiate da
evidentissimi brogli: corruzione, voti comperati, etc. Il nuovo
presidente ha dunque preso il potere con fortissime accuse di
illegittimità e tra lo scontento di grandi fasce della popolazione:
la sinistra parlamentare (in particolare quella riunita attorno
all’ex-candidato Andrès Manuel Lopez Obrador ed al suo Movimiento
de Regeneracion Nacional), i moltissimi sostenitori del Movimento Yo
Soy 132 (nato nelle università ma poi ampliatosi a molte altre
realtà, prima delle elezioni ha svolto un’importante funzione nel
denunciare il ruolo dei mass-media e nella manipolazione politica
dell’opinione pubblica e nel rimettere sul piano del dibattito la
questione della democrazia), ma anche i sindacati dei maestri, i
collettivi studenteschi, e molte altre diverse realtà organizzative
che erano per le strade di Città del Messico il 1 dicembre, giunti
da diverse parti del paese. Non solo nella capitale, ma in moltissime
città del Messico la gente ha risposto all’appello lanciato
principalmente da Yo Soy 132 e Morena, scendendo in piazza perlopiù
in modo pacifico.
Per ulteriori approfondimenti
Quatar - Cop 18 Doha: conferenza mondiale sull'effetto serra e dintorni
2012 è la fine del mondo .... è un business lo sappiamo bene, ancor di più se vogliamo osservare quello che sta succedendo a Doha
Se i luoghi vogliono dire qualcosa sullo stato del dibattito intorno al cambio climatico, siamo messi molto male: siamo passati dalla Cop a Copenhagen con la "speranza della green economy" obamiana, messa in cantina dalla crisi, a Doha in Quatar, uno degli stati petrolieri e quindi maggiormente interessati alle scelte sui combustibili fossili, passando per Cancun, luogo della devastazione turistica di un intero territorio e per Durban, città della crescita senza barriere ambientali dell'ultimo dei Brics, in Sudafrica.
Doha simbolo del sistema che si vuol tenere, anche dopo che la tempesta perfetta Sandy ha devastato la costa nord orientale degli USA, richiamando alla memoria i migliori film catastrofisti e dopo quanto di terribilmente materiale incombe su tutti noi dietro i cambiamenti climatici: in questi giorni lo abbiamo visto da vicino, anche in Italia. La tromba d'aria sull'ILVA a Taranto, la bomba d'acqua sulla Toscana, i nubifragi continui in Liguria, il continuo pericolo esondazione in mezzo Veneto sono continui campanelli d'allarme che questo sistema economico non vuole sentire e che vorrebbe tacitare con tecnicismi quali le emissioni pro capite anzichè per Stato ... ma noi, i cittadini del mondo, non possiamo più accettare passivi il gioco delle tre carte sulla nostra pelle: è ora di porre rimedio al più presto.
Per capire cosa sta succedendo a Doha vi proponiamo un articolo collage tratto da numerosi siti.
I lavori della diciottesima Conferenza delle parti sui mutamenti climatici qui a Doha proseguono e venerdì, giorno previsto per la chiusura, non è molto lontano, ma certo i punti fermi non sono molti. Si è deciso che la Polonia sarà la sede della prossima COP19, nel novembre del 2013, cosa che ha suscitato non poche perplessità visto che parliamo di un Governo, quello di Varsavia che da oltre un anno sta bloccando le negoziazioni fermando sul nascere qualsiasi tentativo di passo avanti da parte dell'Unione Europea.
E se Sua Eccellenza Abdullah bin Hamad Al-Attiyah, Presidente di questa Conferenza, rappresentando il Qatar che è il paese con le più alte emissioni procapite al mondo, continua ad esprimere la propria contrarietà ad un piano di mitigazione delle emissioni basato su un modello procapite, si discute molto sul modello da adottare nel nuovo accordo globale previsto dalla Durban Platform (ADP), quella uscita dalla COP17 dello scorso anno a partire dal 2020. Per il principio delle comuni ma differenziate responsabilità, il sistema procapite garantirebbe maggiore equità tuttavia avvantaggerebbe Paesi come la Cina, oggi con le maggiori emissioni di gas serra al mondo ma, allo stesso tempo, con percentuali di emissioni procapite molto più basse di Stati Uniti o Unione Europea.
La 18ma conferenza mondiale sui cambiamenti climatici che si sta tenendo a Doha, vede svilupparsi il dibattito tra le oltre 190 nazioni coinvolte nei negoziati. Ma cosa si evince dai primi dibattiti?
Anzitutto i paesi del blocco Basic (Brasile e Cina in primis) ribadiscono che la responsabilità del successo o fallimento dei negoziati è in mano ai paesi ricchi, e l'UE, la Svizzera e l'Australia si dichiarano pronte a firmare la seconda parte del protocollo di Kyoto.
La conferenza di Doha prosegue e vede alcune prime prese di posizione: i paesi del blocco Basic (Brasile, Sud Africa, India, Cina), ribadiscono subito che la responsabilità dei negoziati è in mano ai paesi ricchi, come per mettere in chiaro che al riguardo non servono giri di parole. Altro momento di rilievo è stata la comunicazione ufficiale da parte dell'UE, della Svizzera e dell'Australia di voler firmare la seconda fase del protocollo di Kyoto, comunicazione che conferma le volontà già rese note negli scorsi mesi. Per il momento, nessun accodamento di rilievo riguardo a Kyoto 2.
E mentre l'UNEP [agenzia ONU sul clima ed inquinamento] lancia un nuovo appello alle nazioni affinché prendano decisioni forti e subito, poichéSenza interventi rapidi anti-CO2, gli impegni attuali di riduzione delle emissioni di gas serra dei governi porteranno ad un riscaldamento del Pianeta fra i 3 e i 5 gradi centigradi entro questo secoloil Canada mantiene la sua posizione contraria ai negoziati in palese difesa del proprio interesse nel petrolio. Il ministro dell'ambiente italiano Corrado Clini, dal canto suo, ha commentato come segue l'urgenza di arginare i mutamenti climatici: "È un problema che non riguarda solo i paesi in via di sviluppo. Il fatto è che si avranno crescenti danni ai territori, soprattutto nelle città più ricche e lo dimostrano il caso di New York, ma anche di Genova, della Toscana e di Roma."
Belle parole, che tuttavia non devono restare tali ma diventare fatti, come sottolinea polemicamente (e a ragione) Greenpeace, che ricorda come da questa conferenza devono uscire fatti non parole.
È ora che i governi, compreso quello italiano che promuove il carbone e le trivellazioni in mare, si diano da fare per rappresentare concretamente gli interessi delle popolazioni, sempre più vittime del cambiamento climatico, e non quelli delle imprese fossili, dai petrolieri a chi costruisce centrali a carbone, che di tutto questo sono responsabili.
Come ci ricordava ieri il pezzo di Chiara Zanotelli, una delle ragazze trentine che, nel giugno scorso, avevano partecipato a Rio +20 in Brasile, si è aperta lo scorso lunedì a Doha la 18esima Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici(Cop18) che chiude una fase storica dei negoziati sul clima, quella in cui ci si era illusi che per superare la crisi climatica fosse sufficiente l'impegno legalmente vincolante nella riduzione delle emissioni dei soli paesi industrializzati. Non è stato così. Per risolvere l'innalzamento della temperatura globale, la riduzione delle emissioni di CO2 e il finanziamento di un fondo mondiale per il clima si riparte dal Qatar, un gigante mondiale del petrolio che detiene il record mondiale di emissioni di CO2 pro capite e il record mondiale di consumo di acqua con 1.200 litri per abitante al giorno. Anche per questo la Cop18 di Doha punta anche simbolicamente sul risparmio di energia e di materia, infatti, sarà la prima conferenza dell'Onu dove i partecipanti saranno dotati di copie digitali dei documenti, per ridurre l'inquinamento del traffico i delegati si sposteranno con un centinaio di autobus a gas e gli organizzatori hanno dichiarato che l'intero evento sarà carbon neutral, con le emissioni prodotte che saranno compensate da investimenti in progetti di riduzione o assorbimento della CO2. Un'autentica sfida per il più grande meeting mai ospitato dal Qatar con oltre 17mila persone da 194 Paesi che fino al 7 dicembre tenteranno di mettere in agenda un nuovo accordo globale sul clima vincolante per tutti i Paesi "nel pieno rispetto dell'equità, secondo il principio di responsabilità comuni, ma differenziate tra paesi ricchi e poveri". Queste almeno le premesse già concordate a Durban lo scorso anno, e che dovranno essere sottoscritte entro il 2015 e divenire operative entro il 2020, non oltre.
Ma siamo veramente all'ultima chiamata sul clima?
Se non bastassero i devastanti fenomeni meteorologici come la tempesta Sandy o in questi giorni il ciclone Medusa (nel Belpaese aiutati dal mal governo del territorio) i dubbi sembrano pochi. Secondo l'United Nations environment programme (Unep) che ha presentato alla Cop 18 il rapportoPolicy Implications of Warming Permafrost il permafrost che copre circa un quarto dell'emisfero nord (comprese anche aree delle Alpi), potrebbe contenere fino a 1.700 gigatonnellate di CO2, cioè il doppio della quantità presente attualmente nell'atmosfera e "Se lo scioglimento dei ghiacci prosegue al ritmo previsto dalle modellizzazioni del clima, la liberazione dei gas serra stoccati nei ghiacci del permafrost amplificherà il riscaldamento climatico in maniera significativa". Per l'ultimo rapporto Trends in global CO2 emissions(.pdf) pubblicato a luglio dal Joint Research Centre della Commissione Europea, malgrado gli sforzi di riduzione promessi da molti paesi industrializzati e la fase di bassa crescita frutto della crisi economica, le emissioni di CO2 sono cresciute su scala globale anche nel 2011, facendo segnare un deciso +2,7%.
Valutazioni poco rassicuranti arrivano anche dalla World Meteorological Organization che nell'ultimo bollettino avverte come tra il 1990 e il 2011 si sia verificato un incremento del 30% dell'influenza della CO2 antropica nell'atmosfera. A mettere definitivamente in guardia sugli effetti negativi di un clima fuori controllo è anche il nuovo rapporto Turn Down the Heat commissionato dalla Banca Mondiale al Potsdam Institute for Climate Impact Research. La raccomandazione di questi report è sempre e soltanto una sola:concertare un'azione ambiziosa, repentina e condivisa da tutte le parti in gioco per mantenere la Terra sotto il celebre tipping point dei 2°C di aumento della temperatura mondiale, visto che gli impegni di riduzione attuali ci stanno portando verso una via di non ritorno, con un surriscaldamento stimato tra i 3.5°C e i 6°C. Il Pianeta, insomma, è sulla buona strada per raggiungere un aumento della temperatura di 4° C entro il 2100, condannando le nuove generazioni ad un futuro di tempeste e ondate di calore estreme, scorte alimentari in calo, perdita di ecosistemi e biodiversità, e un aumento del livello del mare incompatibile con la vita.
Insomma per chi non se ne fosse accorto quello che stiamo vivendo "Non è un cambio di stagione" (come ci ricordava Martín Caparrós con una critica costruttiva all'emergenza climatica pubblicata nel 2011) e per questo "È fondamentale approvare già a Doha il rinnovo degli impegni previsti dal Protocollo di Kyoto, in scadenza alla fine di quest'anno"ha dichiarato lunedì scorso Mauro Albrizio, responsabile delle Politiche Europee di Legambiente. Sino ad ora, tra i paesi industrializzati, hanno garantito la sottoscrizione i 27 membri dell'Unione europea, la Svizzera e la Norvegia, più o meno il 15% delle emissioni globali. Mentre Australia e Nuova Zelanda devono ancora assumere una decisione finale, Paesi come USA, Canada, Giappone e Russia si sono già detti contrari. Purtroppo "Nonostante le perpelssità il Kyoto 2 è uno strumento indispensabile a garantire la transizione verso il nuovo accordo globale" ha concluso Albrizio.
Per Legambiente ed altre ong internazionali presenti a Dhoa una soluzione di buon senso esiste: "ma restano ancora da sciogliere alcuni nodi giuridici per risolvere la questione spinosa del surplus di emissioni di CO2 dei Paesi industrializzati - ha spiegato Wael Hmaidan, direttore di Climate action network -. Se si continua a consentire la possibilità di vendere sul mercato delle emissioni di CO2 le quote in eccesso, si rischia di rendere virtuali gli impegni di riduzione dei paesi acquirenti".
Altra decisione fondamentale per il buon esito di Doha riguarda gli aiuti ai Paesi poveri. "Per sostenere i loro impegni di riduzione e di adattamento ai cambiamenti climatici in corso nel periodo di transizione 2013-2015 occorre un sostegno finanziario annuo di almeno 10-15 miliardi di dollari" ha spiegato Samantha Smith, responsabile Global climate and energy work del Wwf. "Serve, infine - ha concluso Albrizio - l'eliminazione entro il 2020 dei sussidi ai combustibili fossili. Si tratta di circa 800 miliardi di dollari l'anno che potrebbero essere invece destinati a sostenere azioni a favore delle energie rinnovabili. Oltre 110 Paesi si sono già espressi a favore di una decisione ormai non più rinviabile".
Staremo a vedere, ma una cosa è certa: Doha in questi ultimi 5 giorni di lavoro deve inviare segnali importanti sul fatto che il mondo possa ancora riuscire a mantenere il riscaldamento entro limiti tollerabili, oppure chiarire se siamo diretti verso un grave caos climatico che relegherà l'ambiente a "far notizia" solo in concomitanza di catastrofi sempre meno naturali e sempre più diverse da un normale cambio di stagione.
Articolo collage tratto da:
www.greenreport.it
www.ecologiae.com
www.unimondo.org
lunedì 3 dicembre 2012
Messico - Il Presidente Pena Nieto si insedia tra scontri e proteste
Durissima la repressione contro i manifestanti che fin dalla mattina hanno circondato i palazzi del governo
1 dicembre giornata di insediamento del priista Pena Nieto alla Presidenza della Repubblica. Contro un'elezione considerata da molti illegittima ieri sono scesi in piazza fin dall'alba numerosi manifestanti che hanno cercato di circondare i palazzi governativi. La repressione è stata violentissima con feriti ed arresti e addirittura si è parlato di un morto (in nottata si è saputo che era un ferito che è in gravi condizioni all'ospedale). Ci sono stati scontri in tutto il centro.La protesta era stata lanciata dal movimento #YoSoy132, nato durante le elezioni per denunciare la mancanza di democrazia reale nel paese, dalle realtà studentesche e da comitati, reti, sindacati e organizzazioni sociali.
Da Desinformemonos la cronaca della giornata
Violenta repressione all'arrivo alla presidenza del paese di Pena Nieto
Almeno dieci feriti gravi e sette intossicati, 92 arrestati tra cui undici minori, e un numero indefinito di desaparecidos è il bilancio della violenta giornata di repressione che è cominciata la mattina di sabato e che è continuata fino alle 4 del pomeriggio, durante le proteste convocate dal movimento #YoSoy132 per l'entrata in carica alla presidenza di Enrique Peña Nieto.
Per più di dieci ore gli studenti, gli
attivisti, i militanti di varie organizzazioni civili e i sindacati e
cittadini mentre manifestavano ripudiando la presa di potere di Peña
Nieto, sono stati accerchiati, colpiti con armi da fuoco, picchiati,
asfissiati dai gas ed anche arrestati arbitrariamente da elementi della
polizia federale e statale, nella zona del Palacio legislativo di San
Lázaro – dove è iniziata la protesta– fino alla sede del Senato, ed
ancora nella zona del Zócalo, il Monumento alla Rivoluzione e il
Palacio de Bellas Artes.
Gli scontri
sono iniziati fin dalle sette della mattina nei dintorni di San Lázaro.
Alle 4:30 della mattina uno spezzone di giovani di #YoSoy132 e della
Acampada
Revolución si erano diretti verso il palazzo legislativo per fare una
catena umana intorno al Congreso. Qui si sono incontrati con spezzoni
della
Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación (CNTE) ed altre
organizzazioni a cui poi si sono aggiunti anche i militanti del Frente
de
Pueblos en Defensa de la Tierra (FPDT). Circa alle sette della mattina i
manifestanti hanno iniziato a togliere alcune delle reti che
circondavano la zona. Immediatamente la polizia federale e i granatieri
del Distrito
Federal hanno iniziato a sparare una grande quantità di gas lacrimogeni e
pallottole di gomma. Da dentro il recinto hanno anche cominciato a
sparare acqua contro i manifestanti.
I
manifestanti hanno risposto con quello che avevano a disposizione e le
strade della zona si sono trasformate in un campo di battaglia. Qui ci
sono stati i feriti più gravi della giornata: Francisco Quinquedal
Leal, di 67 anni, professore di teatro e simpatizzante dell'Otra
Campaña,
colpito da una granata alla testa e il giovane Rubén Fuentes ferito da
arma da fuoco ad una gamba.
Con
sassi, bottiglie e molotov i manifestanti hanno risposto all'assalto
furioso della polizia. Gli scontri a San Lázaro sono durati fino alle 11
della mattina quando i manifestanti hanno deciso di riitirarsi e
continuare la protesta verso lo Zócalo
di Città del Messico, in cui si trova il Palacio Nacional, luogo dal
quale Enrique Peña Nieto doveva inviare un messaggio alla nazione.
Le
strade del centro storico sono state letteralmente blindate da migliaia
di poliziotti - federali, cittadini ed anche dei corpi della Bancaria
Industrial e del Tránsito- per impedire l'accesso allo Zocalo, perfino a
dei commercianti che portavano dei cartelli a favore del presidente. Un
gruppo di professori della CNTE è stato "circondato" dai granatieri
locali. Intanto c'erano scontri fin nella zona del Senato, a Reforma e
París.
Un cordone di granatieri,
insieme a pattuglie e uomini della sicurezza pubblica del Distretto
Federale impediva il passaggio in avenida Juárez, di fronte al Palacio
de Bellas Artes, dove verso l'una ci sono stati scontri tra forze
dell'ordine e manifestanti. Intanto un altro gruppo che protestava
veniva represso in avenida Reforma, vicino al Monumento a la Revolución.
Per due ore durante questa azione repressiva i negozi e locali di tutta
la zona sono stati chiusi.
In un giro fatto dai giornalisti di Desinformémonos
per tutto il centro si sono potuti vedere blocchi fatti dai poliziotti che circondavano l'intera area.
Attorno
alle quattro i gruppi di manifestanti erano in gran parte dispersi
dagli scontri avvenuti in diversi punti del centro storico. Circa un
migliaio di persone si sono ritrovate intorno alla Acampada
Revolución, al Monumento a la Revolución, e da là di sono diretti alla
Agencia 50 della Procuraduría General de Justicia del Distrito
Federal, in cui si trovavano 92 delle persone fermate senza che
peraltro, come raccontato dai militanti del movimento #YoSoy132, fosse possibile per gli avvocati vederli e
parlare con loro.
RASSEGNA STAMPA
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ALLERTA ROSSA E CHIUSURA CARACOLES
BOICOTTA TURCHIA
Viva EZLN
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.
La lucha sigue!