giovedì 12 febbraio 2009

Carovana "Donne in movimento"


Mamà Corral Evento sportivo, culturale e politico – 7 e 8 Marzo 2009 Oventik Chiapas

“Porque si no lo hacemos, las que ya estamos en este mundo, que es un mundo donde todavía las mujeres no tenemos rostro, nombre ni voz para los capitalistas y neoliberales. Por eso, es la hora de ejercer y hacer valer nuestros derechos. Pero, para poder hacer todo esto, sólo se necesita tener voluntad, decisión, fuerza y rebeldía. Y no necesitamos pedirle permiso a nadie.”
Tratto dall’intervento della Comandante Hortensia Quinto vento: Una digna y femenina rabia – all’interno dei Sette Venti nel calendario e geografie dal basso – Primo festival Mondiale della Rabbia Degna Mexico – gennaio 2009

L'ASSOCIAZIONE YA BASTA! CON LA "CAROVANA DONNE IN MOVIMENTO" partecipa ed invita tutte le donne ad andare insieme a:
Mamà Corral Evento sportivo, culturale e politico il 7 e 8 marzo 2009 – Oventik Chiapas Messico
Le zapatiste invitano tutte le donne dal mondo ad essere in Chiapas Messico nel Caracol di Oventik intorno alla data del 8 marzo.
Costruiamo insieme una delegazione per partecipare e portare i temi, i contenuti, le discussioni, la rabbia che anche in Italia hanno riempito di creatività ed azione il protagonismo delle donne nelle nostre strade e città per affermare la libertà contro le politiche securitarie, l’autodeterminazione contro ogni gabbia, la gioia dei corpi contro il grigiore ……
La carovana partirà ai primi di marzo e sarà possibile visitare la realtà zapatista oltre a partecipare all’incontro Mamà Corral
Coordinamento carovana:
RomaYa Basta! Moltitudia 320 080 42 99

INFO PER PARTECIPARE PRESSO TUTTE LE SEDI ASSOCIAZIONE YA BASTA
PS … anche dall’Italia inventiamo la nostra partecipazione nelle attività internazionali proposte dalle zapatiste. La caratterizzazione bio-politica dell’evento ci stimola e ci suggerisce l’idea di costruire, nei giorni precedenti l’incontro, in territorio zapatista (in luogo ancora da definire), un laboratorio politico-sportivo-culturale-artistico della delegazione, finalizzato alla preparazione delle nostre attività nell’evento.
vedi anche:
- Ricordo del Subcomandante Marcos di Mama Corral
- Giornata dedicata alle donne dentro il primo Festival Mondiale della rabbia degna

mercoledì 11 febbraio 2009

Contadini, giornalisti e pacifisti internazionali bersagliati dal fuoco dei cecchini israeliani.


La gente di Gaza non ha il diritto neanche di raccogliere il prezzemolo *
Oggi i soldati israealiani hanno sparato contro giornalisti italiani, membri del gruppo pacifista International Solidarity Movement (Ism) e contadini palestinesi. La sparatoria e' avvenuta nella zona agricola a ridosso del villaggio di El Farai'n, a nord di Khan Younis, nel mezzo della Striscia di Gaza, a duecento metri dal confine israeliano. Il perché i cecchini di Tsahal abbiano preso di mira un gruppo di civili disarmati si potrebbe spiegare pensando a un'azione intimidatoria. Ma non e' cosi'. Da sempre gli agricoltori e gli allevatori palestinesi che lavorano nei campi al confine sono oggetto del fuoco dei soldati israeliani. Nei giorni scorsi, nella zona dove ci trovavamo, un contadino e' stato ucciso. Per questo, le colture giacciono incolte nei campi e la popolazione e' di fatto privata della loro principale fonte di sostentamento. Questa mattina abbiamo accompagnato i membri dell'Ism, un movimento composto da cittadini di numerose nazionalità, tra cui anche l'italiano Vittorio Arrigoni, nei campi di prezzemolo di El Farai'n. La giornata prevedeva un'azione cosiddetta 'di interposizione non violenta', una pratica consueta per i movimenti pacifisti che operano nei Territori Occupati: ci si frappone tra l'esercito e i civili palestinesi per consentire alla popolazione di svolgere le loro attivita', altrimenti limitate dal tiro al bersaglio, alle volte fatale, da parte dei soldati israeliani.I contadini hanno lavorato indisturbati per circa due ore, mentre una dozzina di pacifisti dell'Ism, alcuni muniti di megafono e casacche catarifrangenti, osservavano eventuali presenze di soldati al di là del reticolato che segna il confine. Intorno a mezzogiorno, due jeep e un veicolo blindato si sono avvicinati alla rete. Alcuni soldati sono scesi e hanno preso posizione nelle postazioni di tiro. Uno, o più probabilmente due di loro, sono saliti sul tetto di uno dei mezzi e hanno cominciato a fare fuoco. I proiettili hanno colpito terra ad alcuni metri da noi, mentre i contadini, che senza la presenza di 'internazionali' avrebbero sicuramente corso rischi enormi per la loro vita, si buttavano a terra. Paradossalmente, il luogo piu' sicuro dove rifugiarsi erano proprio i profondi solchi sul terreno lasciati dai tank e dai bulldozer israeliani, che tutto intorno hanno tagliato i campi e devastato decine di abitazioni. La zona è stata infatti il punto di penetrazione dei mezzi israeliani che hanno diviso in due la Striscia durante l'operazione 'Piombo Fuso'. Tutto intorno agli appezzamenti le abitazioni contadini portano i segni dell'offensiva. Case frantumate, o perforate da missili, o crivellate dall'artiglieria.La gragnuola di colpi é durata a lungo. I cecchini continuavano a sparare nella nostra direzione, mentre dal megafono gli attivisti li esortavano, senza successo, a cessare il fuoco: "Nessuno e' armato. Siamo tutti civili. Non sparate". A intervalli di qualche minuto, raffiche di decine di proiettili hanno sibilato accanto a noi. Dalle zolle del terreno si levavano nuvole di polvere a meno di due-tre metri. La presenza di pacifisti e giornalisti, tra i quali anche due documentaristi di Rai Tre, Manolo Luppichini e Jacopo Mariani, e' servita da deterrente per evitare che i contadini venissero feriti o uccisi. Tuttavia, durante una di queste iniziative, negli anni scorsi un attivista britannico e' morto dopo essere rimasto in coma per sei mesi a seguito del tiro di un cecchino mentre stava accompagnando dei bambini a Rafah. Rachel Corrie, un'altra pacifista britannica é rimasta schiacciata nel 2003 da un bulldozer israeliano. Il vice-console Francesco Santilli, informato dall'Ansa, ci ha contattati poco dopo l'incidente. Gli abbiamo riferito nei dettagli la dinamica dei fatti, sollecitando un intervento, sotto forma di protesta ufficiale, presso le autorità israeliane.
da PeaceReporter

martedì 10 febbraio 2009

Elezioni in Israele - Svolta all’estrema destra


di Christian Elia, PeaceReporter

Prima considerazione, a poche ore dalla chisusura dei seggi: l’ago della bilancia è la destra xenofoba di Avigdor Lieberman
La democrazia ha un suo pilastro irrinunciabile nel processo elettorale. Solo che, a volte, non bastano le urne a dirimere i nodi gordiani che attraversano società complesse, come quella israeliana.
Squilibrio a destra. Così accade che nelle prime ore dopo la chiusura dei seggi elettorali si sentano i due principali avversari, il partito centrista Kadima guidato da Tzipi Livni e il partito di destra Likud guidato da Benyamin Netanyahu, dichiarino entrambi di essere in grado di formare una coalizione di governo. Questo perché, elemento che dovrebbe far riflettere la società israeliana, entrambi puntano al ‘patto con il diavolo’ rappresentato dal partito Israel Beitenu e dal suo leader Avigdor Lieberman. Un personaggio, per intendersi, che ha scacciato i giornalisti arabi dalla sua ultima conferenza stampa. Un uomo che ha basato il suo consenso popolare sull’elettorato di origine russa ma che poco dopo si è proposto a livello nazionale. Il suo successo, se verrà confermato lo storico sorpasso al partito Laburista di Euhd Barack, è inversamente proporzionale alle speranze deluse degli accordi di Oslo del 1994. Molti israeliani, come molti palestinesi, anno dopo anno hanno visto sfumare la loro aspirazione di pace. Ne ha beneficiato un uomo come Lieberman, che non ha mai fatto mistero di ritenere la forza come unico linguaggio possibile con gli arabi.
Questo è il Medio Oriente, dove tutto è possibile. Lontani mille miglia dal patto nazionale che portò alla presidenziali francesi all’isolamento del nazionalista Le Pen, giunto a sorpresa al ballottaggio presidenziale nel 2007. Kadima e Likud, mentre ancora è in corso il conteggio delle schede, già tirano per la giacca Lieberman e i suoi potenziali 19 seggi su 120 che ne compendia la Knesset, il parlamento israeliano. Se gli exit poll verranno confermati domani, infatti, l’attuale ministro degli Esteri Livni, prima donna candidata premier in Israele dai tempi di Golda Meir, ha recuperato su Netanyahu, ottenendo più voti,, ma non abbastanza né per governare da sola né per ridar vita alla coalizione con il partito Laburista che governa il Paese dalla fallimentare guerra in Libano del 2006. Potrebbe farlo Netanyahu, se si allea con Lieberman. Ma potrebbe farlo anche la Livni, se si allea con Lieberman. Il leader xenofobo diventa, dunque, decisivo. Per questo, appena chiusi i seggi, il ministro del tesoro Roni Bar On, esponente di prima fila del partito Kadima, ha già rivolto al leader di Israel Beitenu l’invito a entrare in un’alleanza di governo col suo partito e a evitare così "il suicidio politico restando all’opposizione assieme al Likud di Benyamin Netanyahu". Allo stesso tempo, secondo il quotidiano di destra Yedioth Ahronoth, il Likud cercherà di formare assieme ai partiti di destra un blocco per impedire alla Livni di formare un governo.
Futuro nebuloso. Una democrazia, l’unica del Medio Oriente, come ricordano sempre i cittadini israeliani, che appare appesa a un personaggio come Lieberman, il quale non riconosce neanche i diritti di quel milione e passa di arabi israeliani. E i palestinesi? I primi commenti tradiscono una forte sfiducia "Indipendentemente dalla coalizione formata da qualsiasi primo ministro, il prossimo governo israeliano non potrà dare quello che serve per la pace. Se il nuovo governo continuerà a far espandere gli insediamenti, a piazzare i posti di blocco e a ostacolare una soluzione a due Stati, non ci sarà per noi nessuna scelta se non rinunciare a considerarlo un partner nel processo di pace". Questo l’amaro commento di Saeb Erekat, storico negoziatore palestinese, vicino ad Abu Mazen e al Fatah. Ancora più duro il commento di Fawzi Barhum, portavoce di Hamas: "Hanno vinto gli estremisti. Per noi Likud, Kadima o Israel Beitenu non fanno differenza. Tutti hanno sostenuto l’operazione militare a Gaza".

domenica 8 febbraio 2009

Dove l’Italia respinge i richiedenti asilo

dal campo di Patrasso, Alessandra Sciurba*

Patrasso, 7 febbraio 2009.
Arriviamo al campo la mattina e sembra che ci stiano aspettando. Hanno ancora moltissime cose da dirci, da farci vedere. Un uomo è senza una gamba e in una mano sono rimaste solo due dita e un pezzetto. A molti hanno strappato le unghie dei piedi. Succede in Afghanistan, a chi non vuole fare la guerra dei talebani, che oggi sono più forti che mai, oppure accade al confine tra l’Iran e la Turchia, dove alcune bande curde fermano i migranti in transito. Ad un ragazzo afghano di ventitre anni è nato un figlio proprio in Iran, otto mesi fa. “tutti pensano che ho più di trent’anni, mi dice. Perché nella vita sono stato schiacciato dalla violenza”. Tira fuori pezzetto per pezzetto quello che era il suo documento di espulsione dalla Grecia. mentre cerca di ricomporlo dice che anche lui si sente come quel pezzo di carta.
Alì ha dodici anni. Al confine tra Iran e Turchia hanno rapito suo fratello maggiore. Lui invece in Turchia ci è arrivato, e ha lavorato per mesi come piccolo schiavo nella casa dei contrabbandieri. Con altri due ragazzini ha tentato anche lui la strada che da Patrasso porta all’Italia. È stato respinto da Ancona quando la polizia lo ha trovato dentro il camion in cui si era nascosto. Alì piangeva ma non diceva niente perché al suo amico che urlava di essere minorenne e che in Grecia, al campo, non ci voleva tornare, avevano già dato un pugno sullo sterno. Alì è alto un metro e cinquanta, è un bambino.
Samir invece ha perso una falange della mano destra. Quel che resta del dito è rattoppato alla meno peggio. I grumi di sangue sono ancora freschi. Panos, un ragazzo greco dell’associazione Kinisi che sta aiutando la nostra delegazione, ci racconta di averlo accompagnato in questura, di avere cercato di fare denuncia, di averlo aiutato anche a rilasciare un’intervista in televisione. Ma non è servito a niente. Dicono che è troppo difficile identificare il poliziotto greco che al porto di Patrasso gli ha fatto saltare il dito a colpi di manganello. Samir, però, lo descrive nei minimi dettagli.
I cellulari degli afghani sono pieni di immagini di sangue. Fanno paura le foto della gente picchiata dalla polizia greca. I commandos, li chiamano loro, perché hanno le tute militari e i manganelli sempre spianati.
Tutta la giornata va via così. Ferite e moncherini. Storie di violenza mai punita che si assomiglia tutta, dall’Afghanistan all’Italia passando per Patrasso.
Anche i poliziotti italiani picchiano, a sentire le voci dei ragazzi del campo. E te lo dicono come fosse una cosa normale. Non sono pagati per questo?
Scopriamo molte cose, in queste giornate, le storie che ci raccontano compongono un puzzle sempre più nitido. La prima tappa della fuga è l’Iran, dove gli afghani hanno anche cercato di rimanere per molti anni. Da qualche mese, però, la polizia iraniana ha iniziato dei rastrellamenti per trovarli e rimpatriarli, e in massa sono dovuti fuggire. Moltissimi, rimandati indietro, sono andati incontro alla morte. La seconda tappa è la Turchia, quasi sempre Istanbul, dove i contrabbandieri nascondono i profughi per settimane dentro case sottoterra. Se la polizia turca trova gli afghani li rimanda direttamente in patria. La terza tappa è il nord della Turchia, sulla costa di fronte alla Grecia. Lì sta una striscia di mare dove la polizia turca e quella greca giocano a rimandarsi a vicenda le piccole barche che tentano di attraversarla. Non di rado, come succede nel Mediterraneo, qualcuno si tuffa tra le onde per sfuggire i controlli e muore annegato sotto gli occhi dei suoi compagni di viaggio.
Questo tragitto costa svariate migliaia di dollari. Chi non può pagare subisce ogni forma di violenza.
Solo dopo avere oltrepassato tutte queste frontiere, quindi, si arriva in Grecia, consapevoli che non è neppure quello un luogo dove potersi fermare e trovare un po’ di pace. A Mitilene, dove sbarcano la maggior parte dei profughi provenienti dalla Turchia c’è un centro di detenzione che tutti qui dipingono come un girone dell’inferno. Molte isole greche ne hanno uno e le descrizioni sono quasi identiche. In questi centri stanno centinaia di persone con un solo bagno rotto. Tutti raccontano di essere stati picchiati quotidianamente dalla polizia mentre erano in fila per un pezzo di pane o cercavano di distrarsi parlando tra loro. Anche il piccolo Alì è passato in uno di questi centri, ed è stato picchiato perché aveva caldo e ha cercato di aprire una finestra per respirare. Qualcuno ci è rimasto un mese, qualcuno dodici giorni. Tutti, alla fine, sono stati mandati per strada con l’espulsione in mano a ingrossare le fila dei migranti irregolari che non hanno altra scelta che restare tali. “Stessa faccia, stessa razza”, si usa dire qui in Grecia, non a caso, quando si parla dell’Italia.
Dopo il centro di detenzione si parte alla volta di Patrasso, senza un soldo in tasca e nulla da mangiare. Qualcuno si ferma ad Atene e prova a chiedere asilo in questura. Ottiene solo che scambino l’espulsione data a Mitilene o in un’altra isola con una fresca di giornata degli uffici della capitale. È successo anche ai bambini, anche agli uomini in carrozzella, anche a quelli senza gambe.
Partire per l’Italia non è una scelta. È l’unica speranza. Del resto queste persone rischiano la loro vita da quando sono nate. Nonostante sia sempre più difficile continuano a provarci. Hanno sentito parlare del centro per rifugiati del Comune di Venezia. Lo sognano. Un ragazzo che adesso è al campo c’è anche stato per qualche mese. Ad un certo punto però, la questura si è accorta che si trattava di un ‘caso Dublino’ e lo ha rimandato in Grecia. Parla italiano, ci da una mano a capire, ci chiede cosa possiamo fare per lui. Nel suo documento c’è scritto che l’Italia riconosce la sua necessità di chiedere asilo politico ma che la Grecia è il paese deputato a farlo. Quel documento qui è carta straccia. Anche altri ne hanno uno identico in mano e raccontano a chi non le ha mai viste le meraviglie dell’Italia che li ha sbattuti fuori.
L’Italia dovrebbe sospendere la convenzione di Dublino quando si tratta di rimandare richiedenti asilo in Grecia. Qui vengono picchiati, qui non esiste l’asilo. Da qui vengono rispediti direttamente nel paese da cui sono fuggiti per sopravvivere. Ma la maggior parte delle volte la Convenzione di Dublino non c’entra nulla. I profughi che arrivano alle frontiere dell’Adriatico vengono rimandati indietro senza nessuna base giuridica. E infatti non hanno in mano nulla, come se loro non avessero mai toccato il suolo di Venezia o di Ancona, come se non avessero mai incontrato la polizia delle frontiere dell’Adriatico.
Scopriamo che quando le navi tornano dall’Italia con il loro carico di profughi respinti a bordo, sanno benissimo che devono fermarsi prima a Igoumenitsa per scaricare i curdi, mentre gli afghani devono arrivare fino a Patrasso, dove la polizia greca avrà buona cura di loro. Scopriamo che i migranti fanno il viaggio a ritroso chiusi dentro un bagno della nave dove arrivano spesso con le mani legate dietro la schiena, e che se battono contro i muri per avere cibo e acqua a volte arriva qualcuno che li picchia con un bastone.
E quando tornano a Patrasso e vengono fatti sbarcare, a seconda dell’umore della polizia greca vengono picchiati e lasciati liberi, oppure sbattuti dentro un container di tre metri quadri al gate 6 del porto, per giorni. Verso sera, quando andiamo via , il campo è un po’ più vuoto. Tanti sono già andati a provare il gioco di nascondersi sotto i tir in attesa al porto. Rimangono comunque centinaia di persone mentre alcune piccole luci si accendono e si alternano ai fuochi accesi per scaldarsi o per cucinare.
Stamattina nel centro di Patrasso c’è stato un presidio dell’associazione Kinisi per chiedere asilo per i profughi e un luogo decente dove possano vivere. C’era poca gente. Non c’erano neppure gli afghani perché non hanno più la forza di credere che le cose qui, per loro, possano cambiare.

Report della delegazione della rete di associazioni veneziane Tuttiidirittiumanipertutti
*Razzismo Stop e Melting Pot Europa



sabato 7 febbraio 2009

Turchia - Paese di partenza, di arrivo e di transito per migliaia di migranti.


La frontiera turca
La Turchia è divenuta paese di partenza, di arrivo e di transito per migliaia di migranti. Le condizioni di rifugiati e richiedenti asilo, i centri di detenzione, il lavoro delle associazioni. La pratica delle deportazioni forzate e il lavoro della società civile.
Sono migliaia i migranti che cercano di raggiungere l’Europa attraversando la Turchia. Negli anni novanta l’atteggiamento delle autorità era di maggiore flessibilità, ma ora l’Unione Europea ha blindato le frontiere, e molti immigrati sono costretti a fermarsi in Turchia. Se non riescono a ottenere lo status di rifugiato, le possibilità di mettersi in regola sono poche e chi non ce la fa viene rinchiuso nei centri di detenzione.
I dati relativi al numero di migranti che vivono in Turchia non sono per nulla univoci. C’è chi parla di 1.500.000 persone e chi invece solo di 500.000. Non è facile censire gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno, che sono in maggioranza, soprattutto tra coloro che arrivano nel paese attraversando la frontiera meridionale con l’idea di raggiungere la Grecia via terra o imbarcarsi per arrivare in Europa via mare.
La frontiera tra Grecia e Turchia, sia terrestre che marittima, a partire dagli anni duemila è diventata sempre più invalicabile visto che l’Unione Europea ha richiesto alla Turchia un controllo più stretto delle frontiere come precondizione per proseguire il processo di adesione iniziato nel 2001.
La frontiera greco-turca non è solo difficile da valicare, ma è diventata anche molto pericolosa. Sono frequenti le violazioni dei diritti umani da parte della guardia costiera come avvenuto ad esempio la scorsa estate, quando un ragazzo afgano di diciassette anni, fermato con altre tre persone nei pressi dell’Isola di Lesbo, vicino alla costa turca, è stato ricondotto in mare aperto e abbandonato a bordo della sua imbarcazione di fortuna. Soccorso quattro ore dopo dai guardacoste turchi è stato consegnato alla polizia di Ayvacik, che lo ha arrestato. Trasferito in un’altra prigione a Istanbul gli è stato proposto di firmare una dichiarazione secondo la quale avrebbe accettato di tornare volontariamente in Afghanistan.
Gli immigrati regolari, invece, vengono soprattutto dall’ex-URSS. Sono per la maggior parte donne che lavorano come collaboratrici domestiche nelle grandi città o come operaie nell’industria tessile. Una parte di loro entra nel circuito della prostituzione.
Il numero dei rifugiati è più facile da censire grazie ai dati dell’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Secondo l’UNHCR i richiedenti asilo residenti in Turchia sono circa 25.000, per la maggior parte iraniani e afgani. La Turchia ha ratificato la convenzione di Ginevra del 1951, ma con una riserva di tipo geografico. Il governo turco si occupa infatti della selezione delle domande per ottenere lo status di rifugiato solo se presentate da cittadini europei. Degli altri si occupa l’UNHCR, che può concedere solo un asilo temporaneo in attesa che i rifugiati raggiungano il Canada, gli Stati Uniti o l’Australia, paesi che hanno sottoscritto un accordo particolare con l’Agenzia per i Rifugiati.
Secondo Clèmence Durand, dell’Helsinki Citizens Assembly - Turchia (HCA), associazione con sede ad Istanbul che si occupa di assistenza legale ai rifugiati, la maggior parte dei potenziali richiedenti asilo pensa alla Turchia solo come paese di transito e, quindi, non registra il proprio indirizzo di residenza temporanea al posto di polizia più vicino al luogo di entrata, come prevederebbe la legge turca. In questo modo l’immigrato diventa “irregolare”, e in qualsiasi momento può essere arrestato e rinchiuso in uno delle decine di centri di detenzione per immigrati sparsi per il paese.
Secondo l’HCA, che ha redatto il primo rapporto su questi centri basandosi su testimonianze di ex-detenuti, le condizioni di reclusione degli immigrati sono molto dure e vengono commesse le più svariate violazioni dei diritti dei rifugiati, che vanno dalla difficoltà a ottenere acqua potabile e una generale situazione di sovraffollamento, a casi di vera e propria violenza fisica da parte della polizia che è arrivata a praticare persino la felaqa, forma di tortura che consiste nel percuotere con un bastone le piante dei piedi del detenuto. Alle organizzazioni per la difesa dei diritti umani inoltre non è permesso entrare nei centri per monitorare la situazione.
Sono molto frequenti le rivolte per protestare contro il duro regime di detenzione e i lunghi periodi di permanenza dentro al centro. A volte, infatti, i richiedenti asilo vengono illegalmente trattenuti per mesi in attesa che l’UNHCR prenda in considerazione la loro richiesta d’asilo.
Le associazioni per la difesa dei diritti degli immigrati in Turchia hanno denunciato anche altri tipi di violazione dei diritti umani a danno degli immigrati, come la pratica delle deportazioni forzate alla frontiera, deportazioni che avvengono senza che gli immigrati abbiano la possibilità di fare domanda di asilo o godere di assistenza medica. Queste deportazioni possono anche causare la morte, come avvenuto il 23 aprile quando, come denunciato dall’UNHCR, quindici uomini di nazionalità siriana e iraniana sono stati costretti dalla polizia turca ad attraversare a nuoto un fiume in piena vicino al confine tra Turchia e Iraq. Quattro di loro tra cui un rifugiato iraniano sono annegati e i loro corpi non sono più stati trovati.
L’HCA non è l’unica organizzazione in Turchia che si occupa di immigrati e richiedenti asilo. A Istanbul sono attivi anche programmi assistenziali organizzati di associazioni cattoliche come la Caritas, il protestante Istanbul Inter-Parish Migrants Program (IIMP), la musulmana Mazlumder o la laica Human Resource Development Foundation (HRDF). Al di là delle differenti appartenenze, queste organizzazioni lavorano assieme coordinandosi mensilmente per fornire assistenza agli immigrati.
Nonostante il fenomeno sia in aumento, l’opinione pubblica turca fa ancora molta fatica a comprendere come il paese stia cambiando divenendo allo stesso tempo luogo di partenza e di arrivo per gli immigrati. Negli ultimi anni, però, le associazioni per i diritti degli immigrati e per la difesa dei diritti umani hanno cominciando a promuovere campagne di sensibilizzazione rivolte alla popolazione, a fare assistenza legale e a monitorare il rispetto dei diritti dei richiedenti asilo. Anche il mondo accademico ha iniziato un lavoro di ricerca sul tema immigrazione, e da qualche mese a Istanbul viene pubblicato un periodico scritto dai rifugiati, Mültecilerin Sesi, La Voce del Rifugiato. Qualcosa, lentamente, sta cambiando. Europa permettendo.


Alberto Tetta - Osservatorio Balcani

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!