domenica 8 febbraio 2009

Dove l’Italia respinge i richiedenti asilo

dal campo di Patrasso, Alessandra Sciurba*

Patrasso, 7 febbraio 2009.
Arriviamo al campo la mattina e sembra che ci stiano aspettando. Hanno ancora moltissime cose da dirci, da farci vedere. Un uomo è senza una gamba e in una mano sono rimaste solo due dita e un pezzetto. A molti hanno strappato le unghie dei piedi. Succede in Afghanistan, a chi non vuole fare la guerra dei talebani, che oggi sono più forti che mai, oppure accade al confine tra l’Iran e la Turchia, dove alcune bande curde fermano i migranti in transito. Ad un ragazzo afghano di ventitre anni è nato un figlio proprio in Iran, otto mesi fa. “tutti pensano che ho più di trent’anni, mi dice. Perché nella vita sono stato schiacciato dalla violenza”. Tira fuori pezzetto per pezzetto quello che era il suo documento di espulsione dalla Grecia. mentre cerca di ricomporlo dice che anche lui si sente come quel pezzo di carta.
Alì ha dodici anni. Al confine tra Iran e Turchia hanno rapito suo fratello maggiore. Lui invece in Turchia ci è arrivato, e ha lavorato per mesi come piccolo schiavo nella casa dei contrabbandieri. Con altri due ragazzini ha tentato anche lui la strada che da Patrasso porta all’Italia. È stato respinto da Ancona quando la polizia lo ha trovato dentro il camion in cui si era nascosto. Alì piangeva ma non diceva niente perché al suo amico che urlava di essere minorenne e che in Grecia, al campo, non ci voleva tornare, avevano già dato un pugno sullo sterno. Alì è alto un metro e cinquanta, è un bambino.
Samir invece ha perso una falange della mano destra. Quel che resta del dito è rattoppato alla meno peggio. I grumi di sangue sono ancora freschi. Panos, un ragazzo greco dell’associazione Kinisi che sta aiutando la nostra delegazione, ci racconta di averlo accompagnato in questura, di avere cercato di fare denuncia, di averlo aiutato anche a rilasciare un’intervista in televisione. Ma non è servito a niente. Dicono che è troppo difficile identificare il poliziotto greco che al porto di Patrasso gli ha fatto saltare il dito a colpi di manganello. Samir, però, lo descrive nei minimi dettagli.
I cellulari degli afghani sono pieni di immagini di sangue. Fanno paura le foto della gente picchiata dalla polizia greca. I commandos, li chiamano loro, perché hanno le tute militari e i manganelli sempre spianati.
Tutta la giornata va via così. Ferite e moncherini. Storie di violenza mai punita che si assomiglia tutta, dall’Afghanistan all’Italia passando per Patrasso.
Anche i poliziotti italiani picchiano, a sentire le voci dei ragazzi del campo. E te lo dicono come fosse una cosa normale. Non sono pagati per questo?
Scopriamo molte cose, in queste giornate, le storie che ci raccontano compongono un puzzle sempre più nitido. La prima tappa della fuga è l’Iran, dove gli afghani hanno anche cercato di rimanere per molti anni. Da qualche mese, però, la polizia iraniana ha iniziato dei rastrellamenti per trovarli e rimpatriarli, e in massa sono dovuti fuggire. Moltissimi, rimandati indietro, sono andati incontro alla morte. La seconda tappa è la Turchia, quasi sempre Istanbul, dove i contrabbandieri nascondono i profughi per settimane dentro case sottoterra. Se la polizia turca trova gli afghani li rimanda direttamente in patria. La terza tappa è il nord della Turchia, sulla costa di fronte alla Grecia. Lì sta una striscia di mare dove la polizia turca e quella greca giocano a rimandarsi a vicenda le piccole barche che tentano di attraversarla. Non di rado, come succede nel Mediterraneo, qualcuno si tuffa tra le onde per sfuggire i controlli e muore annegato sotto gli occhi dei suoi compagni di viaggio.
Questo tragitto costa svariate migliaia di dollari. Chi non può pagare subisce ogni forma di violenza.
Solo dopo avere oltrepassato tutte queste frontiere, quindi, si arriva in Grecia, consapevoli che non è neppure quello un luogo dove potersi fermare e trovare un po’ di pace. A Mitilene, dove sbarcano la maggior parte dei profughi provenienti dalla Turchia c’è un centro di detenzione che tutti qui dipingono come un girone dell’inferno. Molte isole greche ne hanno uno e le descrizioni sono quasi identiche. In questi centri stanno centinaia di persone con un solo bagno rotto. Tutti raccontano di essere stati picchiati quotidianamente dalla polizia mentre erano in fila per un pezzo di pane o cercavano di distrarsi parlando tra loro. Anche il piccolo Alì è passato in uno di questi centri, ed è stato picchiato perché aveva caldo e ha cercato di aprire una finestra per respirare. Qualcuno ci è rimasto un mese, qualcuno dodici giorni. Tutti, alla fine, sono stati mandati per strada con l’espulsione in mano a ingrossare le fila dei migranti irregolari che non hanno altra scelta che restare tali. “Stessa faccia, stessa razza”, si usa dire qui in Grecia, non a caso, quando si parla dell’Italia.
Dopo il centro di detenzione si parte alla volta di Patrasso, senza un soldo in tasca e nulla da mangiare. Qualcuno si ferma ad Atene e prova a chiedere asilo in questura. Ottiene solo che scambino l’espulsione data a Mitilene o in un’altra isola con una fresca di giornata degli uffici della capitale. È successo anche ai bambini, anche agli uomini in carrozzella, anche a quelli senza gambe.
Partire per l’Italia non è una scelta. È l’unica speranza. Del resto queste persone rischiano la loro vita da quando sono nate. Nonostante sia sempre più difficile continuano a provarci. Hanno sentito parlare del centro per rifugiati del Comune di Venezia. Lo sognano. Un ragazzo che adesso è al campo c’è anche stato per qualche mese. Ad un certo punto però, la questura si è accorta che si trattava di un ‘caso Dublino’ e lo ha rimandato in Grecia. Parla italiano, ci da una mano a capire, ci chiede cosa possiamo fare per lui. Nel suo documento c’è scritto che l’Italia riconosce la sua necessità di chiedere asilo politico ma che la Grecia è il paese deputato a farlo. Quel documento qui è carta straccia. Anche altri ne hanno uno identico in mano e raccontano a chi non le ha mai viste le meraviglie dell’Italia che li ha sbattuti fuori.
L’Italia dovrebbe sospendere la convenzione di Dublino quando si tratta di rimandare richiedenti asilo in Grecia. Qui vengono picchiati, qui non esiste l’asilo. Da qui vengono rispediti direttamente nel paese da cui sono fuggiti per sopravvivere. Ma la maggior parte delle volte la Convenzione di Dublino non c’entra nulla. I profughi che arrivano alle frontiere dell’Adriatico vengono rimandati indietro senza nessuna base giuridica. E infatti non hanno in mano nulla, come se loro non avessero mai toccato il suolo di Venezia o di Ancona, come se non avessero mai incontrato la polizia delle frontiere dell’Adriatico.
Scopriamo che quando le navi tornano dall’Italia con il loro carico di profughi respinti a bordo, sanno benissimo che devono fermarsi prima a Igoumenitsa per scaricare i curdi, mentre gli afghani devono arrivare fino a Patrasso, dove la polizia greca avrà buona cura di loro. Scopriamo che i migranti fanno il viaggio a ritroso chiusi dentro un bagno della nave dove arrivano spesso con le mani legate dietro la schiena, e che se battono contro i muri per avere cibo e acqua a volte arriva qualcuno che li picchia con un bastone.
E quando tornano a Patrasso e vengono fatti sbarcare, a seconda dell’umore della polizia greca vengono picchiati e lasciati liberi, oppure sbattuti dentro un container di tre metri quadri al gate 6 del porto, per giorni. Verso sera, quando andiamo via , il campo è un po’ più vuoto. Tanti sono già andati a provare il gioco di nascondersi sotto i tir in attesa al porto. Rimangono comunque centinaia di persone mentre alcune piccole luci si accendono e si alternano ai fuochi accesi per scaldarsi o per cucinare.
Stamattina nel centro di Patrasso c’è stato un presidio dell’associazione Kinisi per chiedere asilo per i profughi e un luogo decente dove possano vivere. C’era poca gente. Non c’erano neppure gli afghani perché non hanno più la forza di credere che le cose qui, per loro, possano cambiare.

Report della delegazione della rete di associazioni veneziane Tuttiidirittiumanipertutti
*Razzismo Stop e Melting Pot Europa



BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!