giovedì 9 luglio 2009

L'odio etnico esplode nel Xinjiang


di Angela Pascucci

Non si placa la tensione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, dove è stato imposto il coprifuoco dalle 21 alle 8 del mattino. Nonostante l’enorme dispiegamento militare cinese la città ha assistito ieri a una nuova esplosione di odio etnico. Gruppi di cinesi han armati di bastoni, machete, sbarre di ferro, armi fatte in casa, hanno percorso i quartieri della città in una rabbiosa caccia all’uiguro. La polizia è intervenuta lanciando lacrimogeni per fermare una battaglia fra gruppi rivali o per disperdere la folla che devastava l’area uigura dove si concentrano i bazar. Ma talvolta, come riporta l’agenzia Reuters, le truppe anti sommossa cinesi sono rimaste a guardare mentre la folla sfogava la rabbia lanciando sassi contro una moschea o spaccava le vetrine di negozi e ristoranti uiguri. L’agenzia Afp ha raccolto l’urlo di un uomo che, impugnando una sbarra di ferro, urlava «gli uiguri sono venuti nel nostro quartiere a spaccare le nostre cose, ora andiamo noi da loro a picchiarli!».Il risultato di questa nuova ondata di violenza è che la maggior parte della popolazione uigura è sparita dalle strade di Urumqi. Chiuse anche le scuole. A segnalare la preoccupazione della autorità per un incendio che non si spegne, lo stesso capo del Partito comunista della capitale, Li Zhi, è sceso nelle strade a bordo di un auto della polizia per lanciare da un altoparlante inviti a calmare gli animi e tornarsene tutti a casa. Ma, come riporta il New York Times, il suo discorso ha rischiato di infiammare ulteriormente gli animi uiguri, soprattutto quando gridava «Abbattete Rebiya», con riferimento a Rebiya Kadeer, la donna d’affari uigura residente negli Stati uniti presidente del Congresso mondiale uiguro, accusata da Pechino di essere la mente della rivolta. Poche ore prima che la spedizione punitiva degli han cinesi si manifestasse, un centinaio di donne uigure erano scese anch’esse nelle strade, in coincidenza con una «visita guidata» concessa dalla utorità ad alcuni giornalisti di media internazionali e cinesi. Sventolando le carte di identità di mariti e congiunti ne chiedevano la liberazione, affermando che erano stati arrestati senza ragione, gente comune rimasta vittima di retate indiscriminate.Le violenze etniche più gravi che si ricordino dall’inizio della Repubblica popolare cinese (di cui ricorre proprio quest’anno il 60esimo anniversario) presentano in effetti già ora, senza che si conoscano ancora gli effetti della nuova ondata di violenza avvenuta ieri, un bilancio impressionante, a cominciare dal numero enorme dei morti, 156, e quello dei feriti, oltre mille, dei quali ancora non si conosce neppure l’appartenenza etnica, elemento che forse getterebbe una qualche luce sull’avvio della dinamica di scontro, rimasta oscura . Gli arresti, secondo quanto riportato dall’agenzia ufficiale cinese Xinhua, sarebbero 1453, ma anche questa cifra si riferisce a lunedì scorso. Una gravissima denuncia viene dal segretario generale del Congresso mondiale degli uiguri, Dolkun Isa, che in un’intervista a Radio3 Mondo, in onda oggi alle 11,15, ha dichiarato che ieri mattina i militari cinesi avrebbero compiuto un massacro uccidendo 150 operai della fabbrica di trattori Shin Jung, a Urumqi, e che il bilancio della repressione contro gli uiguri è molto più pesante di quanto emerso dalla stampa internazionale. Secondo le fonti uigure le morti sarebbero oltre 800. Ma una verifica indipendente resta impossibile. E forse, come già avvenuto per la rivolta tibetana dell’aprile 2008, un vero bilancio delle vittime di questi giorni di sangue nel Xinjiang non si saprà mai. Ma quel che accade nella Regione autonoma dell’occidente cinese rivela uno scenario di tensioni che è ben lontano dalla visione «armoniosa» della società a cui la leadership cinese dichiara di aspirare, e che la repressione sempre più dura renderà ancora più lontana. Anche nel Xinjiang, come in Tibet, sono stati profusi ingenti investimenti: negli ultimi sei anni, la regione è cresciuta ad uno strepitoso tasso dell’11% per l’anno, persino superiore alla media nazionale. Ma anche qui, come in Tibet, la ricchezza prodotta si concentra solo in poche tasche, preferibilmente han, e la questione economica esaspera la spoliazione e il degrado culturale, chiudendo ciascuno nella propria etnia.Una situazione che ha un corrispettivo emblematico nel luogo da dove è partita la prima scintilla, la fabbrica di giocattoli del Guangdong dove una concentrazione di operai uiguri ha esasperato gli animi di operai han, evidentemente già aizzati dalla crisi che sta mordendo la fabbrica del mondo. La denuncia di stupro di due donne han lanciata contro gli uiguri, che ha provocato i primi gravi scontri il 26 giugno, si rivelerà probabilmente priva di fondamento; 15 persone, all’origine di quell’episodio, sono state arrestate ieri.

Tratto da:
Il Manifesto

Cina: vecchi rancori tra etnie sfociano in violenza


La notte del 26 giugno a Shaoguan nella regione del Guangdong due operai Han hanno ucciso due colleghi Uiguri nei loro dormitori spinti da voci (successivamente smentite) che sostenevano due atti i violenza sessuale nei confronti di due ragazze Han.
L'episodio ha scatenato proteste in tutta la regione dello Xinjiang duramente represse dalla polizia, rendendola così protagonista di scontri violenti che hanno portato alla morte 156 persone e circa un migliaio di feriti e un numero indefinito di scomparsi.
Come sempre in questi casi è difficile ottenere informazioni dirette e certe a causa della militarizzazione totale e dei complessi rapporti sociali ed economici che regolano gli affari interni del Paese.
Articoli correlati:
Federico Rampini per Repubblica
Approfondimenti:
Cosa c'è dietro la fuga di Hu Jintao? di F.Rampini

mercoledì 8 luglio 2009

Verso la Giornata Senza Frontiere


Ancona - Giovedì 9 luglio

La mobilitazione diffusa NoG8 contro i respingimenti e i pacchetti sicurezza.
Per l'immediata liberazione dei 21 attivisti arrestati.

Domani, giovedì 9 luglio, il percorso di contestazione diffusa al vertice del G8 passerà per le Marche, passerà dal Porto di Ancona. Una giornata di mobilitazione lanciata dai movimenti sociali marchigiani dopo essere stati al fianco delle comunità vicentine e abruzzesi, nel segno del protagonismo dell'autonomia e dell'indipendenza affermate dalle comunità "che vogliono rovesciare la crisi in opportunità di decisione comune sulla trasformazione del presente.”Le Comunità Resistenti, l'Ambasciata dei Diritti e YaBasta! Marche hanno fatto appello a costruire una Giornata Senza Frontiere, contro i respingimenti e le violazioni quotidiane del diritto di asilo nel porto di Ancona. Porto crocevia delle rotte della speranza di quei rifugiati che, fuggendo dalla fame e dalla guerra, si imbarcano lasciando il campo profughi di Patrasso, tentando di evitare i controlli di sicurezza e tentando di sopravvivere a condizioni estreme di un viaggio che per Zaher, per Amir e per tanti altri è finito tragicamente. "Una Giornata Senza Frontiere per liberare il porto di Ancona dalle barriere e dalle gabbie dove si infrangono quei desideri di libertà e dignità che vengono dal mare."
L'appello è stato raccolto dalle realtà sociali perugine che porteranno "la voce di una città già fieramente interculturale, che non vuole essere governata dalla paura e dalle paranoie securitarie" e dalle reti di movimento emiliane "per reagire ai regimi di regolamentazione della mobilità delle persone teorizzati e praticati dai G8 e dai loro eserciti. Contro le morti per frontiera, la proliferazione delle forme di controllo, la militarizzazione dei mari e delle città".
Saranno presenti anche gli studenti marchigiani dell'Onda, "contro gli arresti preventivi che vanno a criminalizzare un intero movimento che collettivamente a Torino ha deciso di contestare un G8 illegittimo violando la zona rossa". Quella di giovedì 9 luglio sarà una giornata che risponderà collettivamente all'operazione di polizia e magistratura che vede colpiti, tra i 21 arrestati, anche Marco e Anton, attivisti del Csa Oltrefrontiera di Pesaro, realtà storica delle reti di movimento nelle Marche.Un'operazione che segna la misura del "restringimento dell'agibilità sociale delle garanzie democratiche in questo paese. Un teorema insostenibile e un inconsistente impianto accusatorio, dai quali risulta evidente come la composizione dei soggetti individuati come responsabili ricalchi la mappa delle realtà sociali e studentesche protagoniste dei percorsi di mobilitazione. Chi crede che provocazioni e intimidazioni possano fermare tutto questo commette un grossolano errore di valutazione."Il corteo partirà da Piazza Roma alle ore 19.00 per dirigersi verso il porto e concludere il suo itinerario di fronte alla sede dell'Autorità Portuale e agli uffici della Polizia di Frontiera. Migranti, studenti e precari, realtà dell'associazionismo per i diritti di cittadinanza, la solidarietà e la cooperazione, insieme in una manifestazione che vuole farsi spazio pubblico, e vuole praticare un obiettivo concreto: “aprire alla cittadinanza senza confini lo spazio negato del porto, perché ritorni ad essere un bene comune di tutta la città. Dire basta alla vergogna dei respingimenti, per abbattere l'infrastruttura securitaria del nuovo razzismo aprendo le porte d'oriente alla libertà e ai diritti."

Disastri neocoloniali - Il volto della guerra tra Islamabad e l’Afghanistan



di Augusto Illuminati
Un po’ di cinismo non fa mai male. E allora diciamolo: una guerra coloniale è una cosa infame, ma una guerra coloniale perdente è ancora peggio. Forse soltanto ora l’opinione pubblica italiana comincia a realizzare che il nostro impegno militare in Afghanistan è una guerra vera, non quanto ipocritamente si chiamava peacekeeping, costruzione di scuole e strade, distribuzione di caramelle e matite ai bambini, ecc. Il “buonismo” è finito sia in materia di immigrazione che di gestione militare.
Il rapporto di serietà fra le due pratiche è illustrato nel confronto fra la faccia soddisfatta di Maroni (soddisfatto non di aver bloccato la clandestinità, che sono tutte chiacchiere, ma per il fatto che adesso tiene per le palle Berlusconi) e il ghigno di La Russa in veste di miles gloriosus –il poveretto, con i pochi soldi che ha per gli armamenti, può soltanto gonfiare i muscoli e soffiare. Pochi soldi –ma sempre troppi e che potrebbero soddisfare altre esigenze primarie. Facite ‘a faccia feroce –d’accordo, ma intanto un po’ di talebani e molti più donne e bambini li massacriamo.
Le idee dei talebani non ci piacciono, ma loro sono a casa propria. E il controllo dell’Afghanistan non serve certo a liberare le donne dal burqa (che mi pare continua a dominare nelle immagini girate nelle zone governate dall’onesto Karzai), piuttosto a garantire la presenza degli Usa ai confini di Russia, Cina e subcontinente indiano e a proteggere le vie del petrolio e dell’oppio. Una grande gioco affascinante (ce l’ha già raccontato Kipling) e un classico del colonialismo. Vogliamo provare a sintetizzarlo, senza per carità risalire alle spedizioni indiane di Alessandro Magno (che almeno lasciò in eredità la scultura gandhara)? Nell’Ottocento l’Afghanistan, chiave terrestre per il Raj indiano, è contesto fra russi e inglesi, che non arrivano mai a controllarlo.
Dopo la sanguinosa indipendenza indo-pakistana del 1947 gli Usa subentrano all’Inghilterra, l’Urss protegge l’India mentre gli americani, con la ruota di scorta inglese, si fanno carico del Pakistan e dell’Iran (rovesciamento di Mossadeq nel 1953 e appoggio alla Scià). L’Afghanistan sta in mezzo fra Iran e Pakistan. È il suo destino geopolitico, come il petrolio è quello dell’area iranica e mesopotamica. Ovviamente l’Urss, espulsa dall’Iran, esercita una crescente influenza sull’Afghanistan mentre i cinesi flirtano con il Pakistan in funzione anti-indiana.
A partire dagli anni ’60, tramontato a Suez 1956 il colonialismo anglo-francese, gli Usa sono la potenza egemonica, che però combatte con una mano legata dietro la schiena a causa dei suoi impopolari (in ambito arabo) legami con un Israele sempre più incontrollabile. Da ciò derivano, alla fine del XX secolo, una serie di contraddizioni e passi falsi. L’appoggio allo Scià viene pagato a caro prezzo con il successo della rivoluzione khomeinista (1979), allora gli Usa scatenano l’Iraq contro l’Iran (1980-1988), con il bel risultato di consolidare il potere di Saddam Hussein senza riuscire ad abbattere quello degli ayatollah. Ciò li costringerà alla prima spedizione di Bush padre (1990) e alla seconda guerra del Golfo di Bush figlio, che è roba di ieri. Risultato della distruzione della tirannia laica baathista (a base sunnita) sarà il trionfo dell’integralismo sciita, alleato degli iraniani. Un vero successo!
Nello stesso decennio 1979-1989 –quando si dice il caso!– l’Urss tentò incautamente di passare dal controllo indiretto, tramite governi amici, a quello diretto, installando un quisling sovietico a Kabul supportato dall’(ex)Armata Rossa. La resistenza nazionalistica, ben presto egemonizzata dai talebani, non soltanto portò alla sconfitta e al ritiro delle truppe d’occupazione, ma accelerò la disintegrazione dell’Urss e la diffusione del fondamentalismo nelle repubbliche asiatiche sovietiche. Gli Usa appoggiarono efficacemente i talebani, rifornendoli di consiglieri sauditi e di armi, soprattutto utilizzando come supporto i servizi segreti pakistani (Isi) e i pashtun delle zone tribali di confine, semi-indipendenti da Islamabad.
Il risultato fu l’avvento al potere dei talebani, la diffusione del fondamentalismo nel Pakistan e nella sua struttura portante militare, la formazione di un’élite combattente internazionale che diverrà negli anni successivi la spina dorsale del terrorismo asiatico e africano, la costruzione come leader di un certo Bin Laden. All’inizio del 2001 l’unico alleato americano in Afghanistan, Massud, e le Twin Towers videro i fuochi d’artificio. Il problema, anche in questo caso, non è il montuoso e semi-desertico Afghanistan, ma il popoloso Pakistan, dotato di armi atomiche, non il mullah Omar ma l’Isi e i generali di Islamabad. All’inizio del terzo millennio il capolavoro americano fu di avere installato gli sciiti filo-iraniani al potere in Iraq e i sunniti integralisti, pappa e ciccia con al-Qaeda, in Afghanistan e in Pakistan.
L’attuale guerra è il tentativo quasi disperato di Obama di tirarsi fuori dal problema, chiudendo gli occhi su Iraq e Iran e concentrandosi sulla salvezza indiretta del Pakistan. Sempre tenendo conto del fatto che Cina e India possono accedere al petrolio del Caucaso e dell’Iraq-Iran solo con oleodotti che passino da quelle parti.
Ancora un po’ di cinismo. La geopolitica non si fa con i buoni sentimenti e la lotta di classe neppure. Il ceto dirigente italiano ha fatto in politica internazionale poche cose egregie, per esempio la politica di Enrico Mattei a favore di Mossadeq e del Fln algerino, per acquisire petrolio a buon mercato. In quel caso siamo intervenuti controcorrente, favorendo indirettamente rivoluzionari algerini e palestinesi, più direttamente sinistra democristiana e Pci. Perfino Scaroni, attuale presidente dell’Eni, ha convinto Berlusconi a stringere rapporti privilegiati con i fornitori di gas metano, Putin e Gheddafi. Anzi, l’invio di nuove forze armate italiane in Afghanistan e il loro passaggio in prima linea è il prezzo che Obama ha imposto a Berlusconi per i suoi giri di walzer. Ma appunto, Obama ha qualcosa da guadagnare se regge a Kabul, noi assolutamente niente. Come niente otteniamo da un aggravamento della questione iraniana, uno dei nostri principali partner commerciali. Il pre-G8 di Trieste è stato da questo punto di vista un fallimento completo, gestito in modo maldestro dal ministro-quaquaraquà Frattini.
Su tutta la questione la sinistra italiana, reticente già all’epoca di Bush, lo è tanto più adesso quando alla testa dell’impresa ci sta Obama. Quanto è comodo sparare a zero sul papi erotomane e sui leghisti razzisti, strizzare l’occhio a Gianni Letta e al Presidente Fini, impostare grandi manovre con il Vaticano e l’Udc. Sull’Afghanistan silenzio. Salvo a subire il patriottismo funerario all’arrivo delle prime bare. Ce la ricordiamo Nasiriya? Vogliamo ricominciare con i tricolori alluttati e gli schiamazzi da corteo: 10-100-1000 ecc.? Mica muoiono soltanto i “cattivi”, come i serbi sotto le bombe di D’Alema e Diliberto nel 1999.
Il combattimento sul territorio costa prezzi maggiori. Non sarebbe il caso di mettere più energicamente a tema nell’area antagonista il ritiro italiano dalla campagna afghana? Evitando di lasciare l’argomento alla denuncia vecchio stile di un anti-imperialismo sovranista, da Parigi a Perugia diciamo? Il raddoppio del Dal Molin vicentino, oltre tutto, è finalizzato proprio a quel vecchio e nuovo focolaio di crisi.
Chiaro che d’ora in poi la gestione simbolico-emergenziale della crisi, negata sotto l’aspetto economico e spostata tutta sul piano dell’ordine pubblico e del consenso coatto, verrà affidata sempre più a servizi “neutrali” da stato d’eccezione: protezione civile ed esercito.
Ci siamo assuefatti a Bertolaso con la tuta da Superman, ci abitueremo a ‘Gnaziu in mimetica? Apriamo un fronte serio di lotta contro la trasformazione della crisi in autoritarismo tecnocratico.

Continuano le mobilitazioni contro il G8 e per la liberazione degli arrestati nell'inchiesta Rewind


A L'Aquila iniziativa nella zona del G8



Dopo la straordinaria giornata di mobilitazione di ieri, con nuove occupazioni dei Rettorati in solidarietà con gli arrestati dell'Onda, l'occupazione della sede Rai di Torino e le azioni nella città di Roma con cariche, fermi e arresti, quella di oggi sarà una nuova giornata di mobilitazioni.
In tutta Italia sono previste azioni decentrate contro l'inaugurazione del vertice del G8 della crisi.
L'Aquila
In mattinata un centinaio di attivisti dei comitati territoriali insieme alle delegazioni degli attivisti di movimento, a Colle Roio davanti alla caserma Coppito, dove si svolge il vertice del G8, ha composto una gigantesca scritta: "Yes we camp".
Nel pomeriggio con gli striscioni Yes we camp gli aquilani hanno contestato la delegazione di Obama in arrivo.
Roma
Nel pomeriggio occupato uno studentato autogestito: nasce Point Break.
Un centinaio di attivisti dei Blocchi Precari Metropolitani hanno manifestato in via XX Settembre davanti al Ministero dell'economia. Con due grandi striscioni su cui era scritto "Il G8 è un terremoto, siamo tutti aquilani" e "G8, banca mondiale, fondo monetario internazionale chi devasta e saccheggia siete voi" sono riusciti a bloccare l'accesso a due banche, per evidenziare la responsabilità degli istituti di credito nella crisi economica. I manifestanti hanno poi violato il protocollo voluto da Alemanno per regolamentare le manifestazioni e in corteo hanno raggiunto Piazza Fiume bloccando il traffico.
Padova
Questa mattina durante il presidio di solidarietà a Max e Benji, arrestati lunedì scorso all'interno dell'operazione Rewind, la polizia ha alzato i manganelli sui manifestanti.
A Marghera, Vado Ligure, Brindisi e Porto Tolle, gli attivisti di Greenpeace hanno scalato le ciminiere e bloccato i nastri trasportatori.
A Milano manifestazione questo pomeriggio alle ore 18.00 da L.go Carrobbio mentre a Genova alle ore 16.00 appuntamento in piazza Deferrari.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!