di Angela Pascucci
Non si placa la tensione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, dove è stato imposto il coprifuoco dalle 21 alle 8 del mattino. Nonostante l’enorme dispiegamento militare cinese la città ha assistito ieri a una nuova esplosione di odio etnico. Gruppi di cinesi han armati di bastoni, machete, sbarre di ferro, armi fatte in casa, hanno percorso i quartieri della città in una rabbiosa caccia all’uiguro. La polizia è intervenuta lanciando lacrimogeni per fermare una battaglia fra gruppi rivali o per disperdere la folla che devastava l’area uigura dove si concentrano i bazar. Ma talvolta, come riporta l’agenzia Reuters, le truppe anti sommossa cinesi sono rimaste a guardare mentre la folla sfogava la rabbia lanciando sassi contro una moschea o spaccava le vetrine di negozi e ristoranti uiguri. L’agenzia Afp ha raccolto l’urlo di un uomo che, impugnando una sbarra di ferro, urlava «gli uiguri sono venuti nel nostro quartiere a spaccare le nostre cose, ora andiamo noi da loro a picchiarli!».Il risultato di questa nuova ondata di violenza è che la maggior parte della popolazione uigura è sparita dalle strade di Urumqi. Chiuse anche le scuole. A segnalare la preoccupazione della autorità per un incendio che non si spegne, lo stesso capo del Partito comunista della capitale, Li Zhi, è sceso nelle strade a bordo di un auto della polizia per lanciare da un altoparlante inviti a calmare gli animi e tornarsene tutti a casa. Ma, come riporta il New York Times, il suo discorso ha rischiato di infiammare ulteriormente gli animi uiguri, soprattutto quando gridava «Abbattete Rebiya», con riferimento a Rebiya Kadeer, la donna d’affari uigura residente negli Stati uniti presidente del Congresso mondiale uiguro, accusata da Pechino di essere la mente della rivolta. Poche ore prima che la spedizione punitiva degli han cinesi si manifestasse, un centinaio di donne uigure erano scese anch’esse nelle strade, in coincidenza con una «visita guidata» concessa dalla utorità ad alcuni giornalisti di media internazionali e cinesi. Sventolando le carte di identità di mariti e congiunti ne chiedevano la liberazione, affermando che erano stati arrestati senza ragione, gente comune rimasta vittima di retate indiscriminate.Le violenze etniche più gravi che si ricordino dall’inizio della Repubblica popolare cinese (di cui ricorre proprio quest’anno il 60esimo anniversario) presentano in effetti già ora, senza che si conoscano ancora gli effetti della nuova ondata di violenza avvenuta ieri, un bilancio impressionante, a cominciare dal numero enorme dei morti, 156, e quello dei feriti, oltre mille, dei quali ancora non si conosce neppure l’appartenenza etnica, elemento che forse getterebbe una qualche luce sull’avvio della dinamica di scontro, rimasta oscura . Gli arresti, secondo quanto riportato dall’agenzia ufficiale cinese Xinhua, sarebbero 1453, ma anche questa cifra si riferisce a lunedì scorso. Una gravissima denuncia viene dal segretario generale del Congresso mondiale degli uiguri, Dolkun Isa, che in un’intervista a Radio3 Mondo, in onda oggi alle 11,15, ha dichiarato che ieri mattina i militari cinesi avrebbero compiuto un massacro uccidendo 150 operai della fabbrica di trattori Shin Jung, a Urumqi, e che il bilancio della repressione contro gli uiguri è molto più pesante di quanto emerso dalla stampa internazionale. Secondo le fonti uigure le morti sarebbero oltre 800. Ma una verifica indipendente resta impossibile. E forse, come già avvenuto per la rivolta tibetana dell’aprile 2008, un vero bilancio delle vittime di questi giorni di sangue nel Xinjiang non si saprà mai. Ma quel che accade nella Regione autonoma dell’occidente cinese rivela uno scenario di tensioni che è ben lontano dalla visione «armoniosa» della società a cui la leadership cinese dichiara di aspirare, e che la repressione sempre più dura renderà ancora più lontana. Anche nel Xinjiang, come in Tibet, sono stati profusi ingenti investimenti: negli ultimi sei anni, la regione è cresciuta ad uno strepitoso tasso dell’11% per l’anno, persino superiore alla media nazionale. Ma anche qui, come in Tibet, la ricchezza prodotta si concentra solo in poche tasche, preferibilmente han, e la questione economica esaspera la spoliazione e il degrado culturale, chiudendo ciascuno nella propria etnia.Una situazione che ha un corrispettivo emblematico nel luogo da dove è partita la prima scintilla, la fabbrica di giocattoli del Guangdong dove una concentrazione di operai uiguri ha esasperato gli animi di operai han, evidentemente già aizzati dalla crisi che sta mordendo la fabbrica del mondo. La denuncia di stupro di due donne han lanciata contro gli uiguri, che ha provocato i primi gravi scontri il 26 giugno, si rivelerà probabilmente priva di fondamento; 15 persone, all’origine di quell’episodio, sono state arrestate ieri.
Non si placa la tensione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, dove è stato imposto il coprifuoco dalle 21 alle 8 del mattino. Nonostante l’enorme dispiegamento militare cinese la città ha assistito ieri a una nuova esplosione di odio etnico. Gruppi di cinesi han armati di bastoni, machete, sbarre di ferro, armi fatte in casa, hanno percorso i quartieri della città in una rabbiosa caccia all’uiguro. La polizia è intervenuta lanciando lacrimogeni per fermare una battaglia fra gruppi rivali o per disperdere la folla che devastava l’area uigura dove si concentrano i bazar. Ma talvolta, come riporta l’agenzia Reuters, le truppe anti sommossa cinesi sono rimaste a guardare mentre la folla sfogava la rabbia lanciando sassi contro una moschea o spaccava le vetrine di negozi e ristoranti uiguri. L’agenzia Afp ha raccolto l’urlo di un uomo che, impugnando una sbarra di ferro, urlava «gli uiguri sono venuti nel nostro quartiere a spaccare le nostre cose, ora andiamo noi da loro a picchiarli!».Il risultato di questa nuova ondata di violenza è che la maggior parte della popolazione uigura è sparita dalle strade di Urumqi. Chiuse anche le scuole. A segnalare la preoccupazione della autorità per un incendio che non si spegne, lo stesso capo del Partito comunista della capitale, Li Zhi, è sceso nelle strade a bordo di un auto della polizia per lanciare da un altoparlante inviti a calmare gli animi e tornarsene tutti a casa. Ma, come riporta il New York Times, il suo discorso ha rischiato di infiammare ulteriormente gli animi uiguri, soprattutto quando gridava «Abbattete Rebiya», con riferimento a Rebiya Kadeer, la donna d’affari uigura residente negli Stati uniti presidente del Congresso mondiale uiguro, accusata da Pechino di essere la mente della rivolta. Poche ore prima che la spedizione punitiva degli han cinesi si manifestasse, un centinaio di donne uigure erano scese anch’esse nelle strade, in coincidenza con una «visita guidata» concessa dalla utorità ad alcuni giornalisti di media internazionali e cinesi. Sventolando le carte di identità di mariti e congiunti ne chiedevano la liberazione, affermando che erano stati arrestati senza ragione, gente comune rimasta vittima di retate indiscriminate.Le violenze etniche più gravi che si ricordino dall’inizio della Repubblica popolare cinese (di cui ricorre proprio quest’anno il 60esimo anniversario) presentano in effetti già ora, senza che si conoscano ancora gli effetti della nuova ondata di violenza avvenuta ieri, un bilancio impressionante, a cominciare dal numero enorme dei morti, 156, e quello dei feriti, oltre mille, dei quali ancora non si conosce neppure l’appartenenza etnica, elemento che forse getterebbe una qualche luce sull’avvio della dinamica di scontro, rimasta oscura . Gli arresti, secondo quanto riportato dall’agenzia ufficiale cinese Xinhua, sarebbero 1453, ma anche questa cifra si riferisce a lunedì scorso. Una gravissima denuncia viene dal segretario generale del Congresso mondiale degli uiguri, Dolkun Isa, che in un’intervista a Radio3 Mondo, in onda oggi alle 11,15, ha dichiarato che ieri mattina i militari cinesi avrebbero compiuto un massacro uccidendo 150 operai della fabbrica di trattori Shin Jung, a Urumqi, e che il bilancio della repressione contro gli uiguri è molto più pesante di quanto emerso dalla stampa internazionale. Secondo le fonti uigure le morti sarebbero oltre 800. Ma una verifica indipendente resta impossibile. E forse, come già avvenuto per la rivolta tibetana dell’aprile 2008, un vero bilancio delle vittime di questi giorni di sangue nel Xinjiang non si saprà mai. Ma quel che accade nella Regione autonoma dell’occidente cinese rivela uno scenario di tensioni che è ben lontano dalla visione «armoniosa» della società a cui la leadership cinese dichiara di aspirare, e che la repressione sempre più dura renderà ancora più lontana. Anche nel Xinjiang, come in Tibet, sono stati profusi ingenti investimenti: negli ultimi sei anni, la regione è cresciuta ad uno strepitoso tasso dell’11% per l’anno, persino superiore alla media nazionale. Ma anche qui, come in Tibet, la ricchezza prodotta si concentra solo in poche tasche, preferibilmente han, e la questione economica esaspera la spoliazione e il degrado culturale, chiudendo ciascuno nella propria etnia.Una situazione che ha un corrispettivo emblematico nel luogo da dove è partita la prima scintilla, la fabbrica di giocattoli del Guangdong dove una concentrazione di operai uiguri ha esasperato gli animi di operai han, evidentemente già aizzati dalla crisi che sta mordendo la fabbrica del mondo. La denuncia di stupro di due donne han lanciata contro gli uiguri, che ha provocato i primi gravi scontri il 26 giugno, si rivelerà probabilmente priva di fondamento; 15 persone, all’origine di quell’episodio, sono state arrestate ieri.
Tratto da:
Il Manifesto
Il Manifesto