di Augusto Illuminati
Un po’ di cinismo non fa mai male. E allora diciamolo: una guerra coloniale è una cosa infame, ma una guerra coloniale perdente è ancora peggio. Forse soltanto ora l’opinione pubblica italiana comincia a realizzare che il nostro impegno militare in Afghanistan è una guerra vera, non quanto ipocritamente si chiamava peacekeeping, costruzione di scuole e strade, distribuzione di caramelle e matite ai bambini, ecc. Il “buonismo” è finito sia in materia di immigrazione che di gestione militare.
Il rapporto di serietà fra le due pratiche è illustrato nel confronto fra la faccia soddisfatta di Maroni (soddisfatto non di aver bloccato la clandestinità, che sono tutte chiacchiere, ma per il fatto che adesso tiene per le palle Berlusconi) e il ghigno di La Russa in veste di miles gloriosus –il poveretto, con i pochi soldi che ha per gli armamenti, può soltanto gonfiare i muscoli e soffiare. Pochi soldi –ma sempre troppi e che potrebbero soddisfare altre esigenze primarie. Facite ‘a faccia feroce –d’accordo, ma intanto un po’ di talebani e molti più donne e bambini li massacriamo.
Le idee dei talebani non ci piacciono, ma loro sono a casa propria. E il controllo dell’Afghanistan non serve certo a liberare le donne dal burqa (che mi pare continua a dominare nelle immagini girate nelle zone governate dall’onesto Karzai), piuttosto a garantire la presenza degli Usa ai confini di Russia, Cina e subcontinente indiano e a proteggere le vie del petrolio e dell’oppio. Una grande gioco affascinante (ce l’ha già raccontato Kipling) e un classico del colonialismo. Vogliamo provare a sintetizzarlo, senza per carità risalire alle spedizioni indiane di Alessandro Magno (che almeno lasciò in eredità la scultura gandhara)? Nell’Ottocento l’Afghanistan, chiave terrestre per il Raj indiano, è contesto fra russi e inglesi, che non arrivano mai a controllarlo.
Dopo la sanguinosa indipendenza indo-pakistana del 1947 gli Usa subentrano all’Inghilterra, l’Urss protegge l’India mentre gli americani, con la ruota di scorta inglese, si fanno carico del Pakistan e dell’Iran (rovesciamento di Mossadeq nel 1953 e appoggio alla Scià). L’Afghanistan sta in mezzo fra Iran e Pakistan. È il suo destino geopolitico, come il petrolio è quello dell’area iranica e mesopotamica. Ovviamente l’Urss, espulsa dall’Iran, esercita una crescente influenza sull’Afghanistan mentre i cinesi flirtano con il Pakistan in funzione anti-indiana.
A partire dagli anni ’60, tramontato a Suez 1956 il colonialismo anglo-francese, gli Usa sono la potenza egemonica, che però combatte con una mano legata dietro la schiena a causa dei suoi impopolari (in ambito arabo) legami con un Israele sempre più incontrollabile. Da ciò derivano, alla fine del XX secolo, una serie di contraddizioni e passi falsi. L’appoggio allo Scià viene pagato a caro prezzo con il successo della rivoluzione khomeinista (1979), allora gli Usa scatenano l’Iraq contro l’Iran (1980-1988), con il bel risultato di consolidare il potere di Saddam Hussein senza riuscire ad abbattere quello degli ayatollah. Ciò li costringerà alla prima spedizione di Bush padre (1990) e alla seconda guerra del Golfo di Bush figlio, che è roba di ieri. Risultato della distruzione della tirannia laica baathista (a base sunnita) sarà il trionfo dell’integralismo sciita, alleato degli iraniani. Un vero successo!
Nello stesso decennio 1979-1989 –quando si dice il caso!– l’Urss tentò incautamente di passare dal controllo indiretto, tramite governi amici, a quello diretto, installando un quisling sovietico a Kabul supportato dall’(ex)Armata Rossa. La resistenza nazionalistica, ben presto egemonizzata dai talebani, non soltanto portò alla sconfitta e al ritiro delle truppe d’occupazione, ma accelerò la disintegrazione dell’Urss e la diffusione del fondamentalismo nelle repubbliche asiatiche sovietiche. Gli Usa appoggiarono efficacemente i talebani, rifornendoli di consiglieri sauditi e di armi, soprattutto utilizzando come supporto i servizi segreti pakistani (Isi) e i pashtun delle zone tribali di confine, semi-indipendenti da Islamabad.
Il risultato fu l’avvento al potere dei talebani, la diffusione del fondamentalismo nel Pakistan e nella sua struttura portante militare, la formazione di un’élite combattente internazionale che diverrà negli anni successivi la spina dorsale del terrorismo asiatico e africano, la costruzione come leader di un certo Bin Laden. All’inizio del 2001 l’unico alleato americano in Afghanistan, Massud, e le Twin Towers videro i fuochi d’artificio. Il problema, anche in questo caso, non è il montuoso e semi-desertico Afghanistan, ma il popoloso Pakistan, dotato di armi atomiche, non il mullah Omar ma l’Isi e i generali di Islamabad. All’inizio del terzo millennio il capolavoro americano fu di avere installato gli sciiti filo-iraniani al potere in Iraq e i sunniti integralisti, pappa e ciccia con al-Qaeda, in Afghanistan e in Pakistan.
L’attuale guerra è il tentativo quasi disperato di Obama di tirarsi fuori dal problema, chiudendo gli occhi su Iraq e Iran e concentrandosi sulla salvezza indiretta del Pakistan. Sempre tenendo conto del fatto che Cina e India possono accedere al petrolio del Caucaso e dell’Iraq-Iran solo con oleodotti che passino da quelle parti.
Ancora un po’ di cinismo. La geopolitica non si fa con i buoni sentimenti e la lotta di classe neppure. Il ceto dirigente italiano ha fatto in politica internazionale poche cose egregie, per esempio la politica di Enrico Mattei a favore di Mossadeq e del Fln algerino, per acquisire petrolio a buon mercato. In quel caso siamo intervenuti controcorrente, favorendo indirettamente rivoluzionari algerini e palestinesi, più direttamente sinistra democristiana e Pci. Perfino Scaroni, attuale presidente dell’Eni, ha convinto Berlusconi a stringere rapporti privilegiati con i fornitori di gas metano, Putin e Gheddafi. Anzi, l’invio di nuove forze armate italiane in Afghanistan e il loro passaggio in prima linea è il prezzo che Obama ha imposto a Berlusconi per i suoi giri di walzer. Ma appunto, Obama ha qualcosa da guadagnare se regge a Kabul, noi assolutamente niente. Come niente otteniamo da un aggravamento della questione iraniana, uno dei nostri principali partner commerciali. Il pre-G8 di Trieste è stato da questo punto di vista un fallimento completo, gestito in modo maldestro dal ministro-quaquaraquà Frattini.
Su tutta la questione la sinistra italiana, reticente già all’epoca di Bush, lo è tanto più adesso quando alla testa dell’impresa ci sta Obama. Quanto è comodo sparare a zero sul papi erotomane e sui leghisti razzisti, strizzare l’occhio a Gianni Letta e al Presidente Fini, impostare grandi manovre con il Vaticano e l’Udc. Sull’Afghanistan silenzio. Salvo a subire il patriottismo funerario all’arrivo delle prime bare. Ce la ricordiamo Nasiriya? Vogliamo ricominciare con i tricolori alluttati e gli schiamazzi da corteo: 10-100-1000 ecc.? Mica muoiono soltanto i “cattivi”, come i serbi sotto le bombe di D’Alema e Diliberto nel 1999.
Il combattimento sul territorio costa prezzi maggiori. Non sarebbe il caso di mettere più energicamente a tema nell’area antagonista il ritiro italiano dalla campagna afghana? Evitando di lasciare l’argomento alla denuncia vecchio stile di un anti-imperialismo sovranista, da Parigi a Perugia diciamo? Il raddoppio del Dal Molin vicentino, oltre tutto, è finalizzato proprio a quel vecchio e nuovo focolaio di crisi.
Chiaro che d’ora in poi la gestione simbolico-emergenziale della crisi, negata sotto l’aspetto economico e spostata tutta sul piano dell’ordine pubblico e del consenso coatto, verrà affidata sempre più a servizi “neutrali” da stato d’eccezione: protezione civile ed esercito.
Ci siamo assuefatti a Bertolaso con la tuta da Superman, ci abitueremo a ‘Gnaziu in mimetica? Apriamo un fronte serio di lotta contro la trasformazione della crisi in autoritarismo tecnocratico.