giovedì 17 settembre 2009

La resistenza honduregna matura politicamente

A ottanta giorni dal golpe

La convocazione di un’Assemblea Costituente risulta essere l’obiettivo fondamentale del movimento di resistenza.

Il colpo di stato in Honduras ha già superato gli ottanta giorni e poco a poco cominciano a sparire le notizie di questo paese nei titoli dei grandi mezzi di comunicazione. Il pericolo che venga accettato, utilizzando la forza dei fatti, il nuovo governo honduregno e le elezioni che si stanno preparando sotto un clima di repressione, dovrebbero preoccupare i democratici di tutto il mondo.

Il silenzio internazionale sulla resistenza honduregna e le timide e contraddittorie azioni di chi dovrebbe spingere per il ritorno alla costituzionalità, non ha fatto altro che rafforzare i settori di destra, non solo di questo paese.

La settimana scorsa è stato diffusa come una gran conquista la notizia della decisione del governo nordamericano di sospendere gli aiuti economici al governo ’de facto’, ma quasi non si è parlato del Fondo Monetario Internazionale (FMI) controllato dagli Stati Uniti, che ha concesso respiro finanziario alla dittatura.

Mentre i partiti politici, che hanno sostenuto il fallimento istituzionale, hanno già iniziato senza problemi la campagna elettorale per partecipare alle elezioni del prossimo novembre, con le quali, di fatto, legalizzeranno la dittatura e le sue conseguenze.

Senza dubbio, i golpisti non hanno preso in considerazione la reazione del popolo. Oltre alla pretesa iniziale di difesa dell’ordine istituzionale e del ritorno di Manuel Zelaya alla presidenza, il popolo ha cominciato ad organizzarsi per chiedere anche una Assemblea Costituente per ampliare i diritti cittadini e garantire la partecipazione popolare.

Il Frente Nacional de Resistencia al Golpe de Estado, che è riuscito a mantenere la mobilitazione quasi quotidiana fin dallo stesso giorno della sommossa militare, è diventato un insieme di organizzazioni e sindacati che costituiscono una struttura di un movimento politico con rappresentanze in tutto il paese.

Lo scorso fine settimana, il Fronte Nazionale ha realizzato un’assemblea con rappresentanti di quasi tutti i dipartimenti del paese che, oltre a stabilire un programma di mobilitazioni, ha avanzato una piattaforma di rivendicazioni che va ben oltre al ritorno di Zelaya, e cominciato a disegnare una struttura organizzativa.

A giudicare dalle indicazioni del movimento e la dichiarazione del Frente, la convocazione di un’Assemblea Costituente è il compito fondamentale del movimento.

Il coordinatore generale del Frente Nacional Contra el Golpe de Estado, Juan Barahona, ha espresso chiaramente questo concetto: “l’Assemblea Nazionale Costituente avanza con Zelaya o senza di lui, perché è un diritto e un desiderio del popolo honduregno per trasformare la nostra società”.

Alla fine questa è pure la ragione del colpo di stato. I militari hanno preso il presidente Zelaya e lo hanno espulso dal paese lo stesso giorno che doveva esserci una consultazione pubblica, per mezzo delle urne, per prevedere la possibilità di convocare un’assemblea costituente attraverso di un prossimo referendum.

E’ stata questa consultazione del popolo e il timore di dover convocare una assemblea costituente che concedesse più partecipazione al popolo che ha provocato il colpo di stato. Successivamente l’apparato di propaganda della destra ha indicato come motivi la supposta aspirazione di Zelaya a una rielezione e presunti abusi di potere o cattiva gestione dei fondi pubblici.

I golpisti hanno fatto male i calcoli, e l’azione organizzata per frenare il desiderio di partecipazione cittadina, lo ha risvegliato ancora di più. Adesso il popolo non si mobilita solamente per il ritorno di Zelaya, ma anche e quasi principalmente, per la convocazione dell’assemblea costituente. A gennaio prossimo decade il periodo del mandato di Manuel Zelaya, cosa che mette un limite temporale alla legittima richiesta del suo ritorno. Quello che non decade è la convocazione dell’assemblea costituente.

Inoltre adesso, il popolo ha acquisito esperienza organizzativa e comincia a darsi nuove forme di associazione, indipendente dai partiti politici esistenti e radicate nelle basi della società, che garantiscono la loro stabilità.
Chiunque vincerà le elezioni, se ci saranno, dovrà fare i conti con questa forza sociale in espansione se vorrà mantenere una minima governabilità.

Il racconto dell'aggressione ad Aldo Canestrari

Sono stato aggredito e picchiato a Diyarbakir, il 12 IX 2009, dai nemici della democrazia, della pace e del popolo kurdo.



Resoconto dei fatti e degli antefatti

Italiano, vivo sovente in Turchia dalla primavera 2002; sono stato molto sovente a Istanbul, strinegendo amicizie fraterne con molti Turchi, e circa un anno nella meravigliosa costa sud occidentale della Licia (Olympos, Cirali, Antalya), collaborando con qualche hotel e pensione, ed ammirando gli incanti di questa regione dove la natura splendida delle coste, dei monti, delle valli rocciose si incastona con i resti sparsi qua e la’(tombe, teatri...) di una civilta’ antica e suggestiva.Ma e’ soprattutto con il popolo kurdo, con il suo senso di identita’ cosi’ profondo e al tempo stesso cosi’ privo di orgoglio e cosi’ aperto al dialogo che ho intessuto la mia amicizia: ho abitato a Diyarbakir dal 2002 per circa due anni e mezzo, poi ci sono sovente tornato. In particolare quest’anno, mentre ero a Istanbul, ho saputo, da amici, del Social Forum della Mesopotamia (MSF)(http://international-amed-camp.org) programmato a Diyarbakir dal 25 al 30 settembre, ed ho immediatamente deciso di collaborare.
Verso fine giugno mi sono trasferito a Diyarbakir, ho cominciato a tradurre in italiano i programmi del MSF,ho preso in affitto un alloggio per me e per i miei due amici italiani di Istanbul (Miguel ed Elio),ma poco dopo, verso meta’ luglio,avendo per caso nuovamente incontrato un vecchissimo amico di Derik, Şahabettin, scultore e pittore, ho accolto il suo invito e mi sono trasferito per due mesi in questa deliziosa localita’ agropastorale a un’ora e mezzo da Diyarbakir, tra colline rocciose, uliveti, frutteti e ricordi storici delle epoche piu’ diverse e piu’ antiche.
A Derik la mia vita si e’ subito immersain un tessuto di relazioni di amicizia e familiarita’,e anche di interessi culturali: vi abitano diversi pittori,
scultori, scrittori, di cui ho curato i Siti Web,ed in particolare Eyyüp Güven, che ha scritto una informatissima “Storia di Derik” (che voglio tradurre in italiano),ed ha fondato una piccola associazione, Uma-Der,per combattere la tossicodipendenza, che cerca di risvegliare gli interessi culturali, sociali, sportivi etc. dei giovani.
Il mio interessamento al MSF ha contagiato Eyyüp,che ha deciso di parteciparvi, e mi ha proposto, il 12 IX, di andare insieme in auto a Diyarbakir dal mattino alla sera,per parlare di persona con gli organizzatori del MSF.
Ho accettato al volo. Siamo partiti da Derik il 12 IX verso le 12,30, con Ahmet, di Derik, autista e proprietario di un taxi,siamo andati a Kiziltepe, dove Eyyüp ha parlato a lungo con un suo conoscente, poi a Mardin, poi a Diyarbakir, dove siamo arrivati verso le 16.
Siamo andati al mio alloggio poi ad un ufficio (una mia pratica da sbrigare), poi al MSF (Sümer Park) Dove Eyyüp si e’ positivamente accordato per aprire uno Stand della sua associazione UMA-DER durante il MSF. Poi tre incontri, prima al Caffe’ Portakal, poi ad una locanda all’aperto; poi al Caffe’ Frida (tutti nell’area centrale di Sanat Sokak) con tre amici: il mio amico italiano Miguel, anche lui venuto per il MSF, Mehmet, giovane ed intraprendente traduttore,e Rüken, la collaboratrice di Diyarbakir di Uma-Der.
Era sera tardi, ci siamo salutati, ed Eyyüp, l’autista Ahmet ed io ci siamo avviati sulla strada del ritorno che da Diyarbakir riconduce a Derik. Saranno state le 22 circa. Dopo neanche mezz’ora siamo stati fermati da un’auto che stazionava in mezzo alla strada e fermava chi passava; ho pensato ad un abituale controllo di polizia, cosa tutt’altro che rara da queste parti.
Ero seduto al sedile anteriore, avavo posato di fronte a me, al suolo, lo zainetto in cui tenevo il mio computer portatile (piccolissimo ma potente: un Asus) e i molti soldi che Miguel mi aveva rimborsato per l’alloggio affittato collettivamente a Diyarbakir.
Ci hanno fatto scendere, io sono stato separato dagli altri due amici e fatto salire su un’altra auto, mentre la mia borsa veniva asportata, e sono stato portato un po’ oltre; poi sono stato trasferito una una specie di piccolo furgoncino.
Mi hanno chiesto la Carta d’Identita’ (“Kimlik”), ho risposto che non l’avevo, ma gli ho dato la fotocopia del mio passaporto.
L’uomo accanto a me mi ha bruscamente tenuto il capo inclinatocon la sua mano, e mi ha intimato di togliermi camicia e pantaloni, ma non ha atteso: in modo non meno brusco me li ha strappati via, lasciandomi nudo.
Poi mi ha messo sulla testa un lungo sacco biancastro di tela. Non vedevo piu’ nulla, non so quante pesone fossero presenti durante quanto e’ seguito: forse una, forse due, forse tre... Hanno cominciato a picchiarmi con estrema violenza, soprattutto sul volto, che e’ diventato una maschera di sangue, gonfio e tumefatto, e sul torace, lasciandomi quasi senza respiro.
Con cosa? Solo con i pugni? Con un bastone? Non so... Ho gridato: “Neden? Neden?”, cioe’: “Perche’? Perche’?”
Ma loro non hanno mai proferito nessun’altra parola.
Ero del tutto certo che mi avrebbero ucciso. Invece hanno aperto la porta e mi hanno abbandonato lungo una stradina di campagna.
Sono rimasto una decina di minuti a riprendere un po’ di fiato, poi si avvicinavano due cani, ho deciso di chiedere soccorso,in poche decine di metri ho raggiunto lo stradone principale e subito dopo un distributore di carburante, dove hanno chiamato ambulanza e polizia, entrambi arrivati in una decina di minuti.
Sono stato portato all’ospedale dell’Universita’ di Dicle, dove mi hanno fatto le prime cure, i raggi X etc.(e’ risultato che di rotto avevo solo un osso),poi al vicino posto di polizia di Şehitlik, dove sono stato trattenuto tutto il giorno seguente, il 13 IX,ed interrogato con estrema cura e dettaglio,e dove sono venuti, lo stesso giorno, Eyyüp, Ahmet, Miguel e Rüken; e inoltre due miei avvocati: conformemente alle mie richieste, i collaboratori di Muharrem Erbey, l’avvocato che assistette Dino Frisullo durante la sua prigionia dopo il Newroz del 1998; e che divenne suo amico fraterno, ed ora sta scrivendo un librosulla vicenda processuale e carceraria di Dino.
La polizia si e’ comportata con molto spirito di collaborazione e molta solerzia, promettendo che gli autori del misfatto sarebbero stati presi.

Non ho che da aggiungere una breve osservazione:

HANNO FALLITO !
Volevano creare spavento, disorientamento,volevano mettermi in fuga, ma i giorni successivi hanno testimoniato come invece quello che hanno fatto e’ servito solo a far crescere il clima di fraterna amicizia, solidarieta’, perseveranza, ed a rendere pubblici (caso mai ce ne fosse ancora bisogno!) i metodi adottati dai nemici della democrazia, della pace e del dialogo tra i popoli.
Io di qui non me ne vado di sicuro !

Diyarbakir, 16 settembre 2009

Aldo Canestrari

Attivista italiano sequestrato e picchiato a sangue in Turchia

Il 12 settembre, Aldo Canestrari, attivista italiano per i diritti umani, da anni impegnato a sostegno della libertà e per i diritti del popolo kurdo, è stato prelevato dalla macchina in cui si trovava insieme ad altri due kurdi, picchiato e lasciato esanime su una stradina di campagna da un gruppo di persone non identificate.

Lo stesso Canestrari (nella foto dopo l'aggressione) ha fatto sapere alla Rete italiana di solidarietà con il popolo kurdo, alcuni dettagli dell’aggressione: “mi hanno guardato i documenti, poi portato in una stradina di campagna e brutalmente e violentemente picchiato a sangue. Ero del tutto convinto che mi uccidessero”. L’attacco contro l’italiano amico del popolo kurdo è avvenuto deliberatamente e in maniera programmata, per intimidirlo ad andarsene. Aldo Canestrari si è rivolto all’Associazione per i diritti umani e alle autorità denunciando il fatto. Aldo Canestrari, insieme agli altri italiani ed italiane che da anni seguono da vicino il percorso avviato dal movimento democratico kurdo, non smetteranno di essere solidali con i/le militanti e gli/le attivisti/e kurdi/e, che numerosi/e ancora in questi giorni vengono arrestati e privati della libertà di espressione e dei diritti democratici, né tanto meno smetteranno di diffonderne le voci al di fuori della Turchia.

mercoledì 16 settembre 2009

Arundhati Roy, India democrazia ma non per tutti

A Torino l'autrice de "Dio delle piccole cose"



Intervistata da La Stampa afferma: "Il mio Paese è una Superpotenza superpovera che nasconde la distruzione dell'ambiente"

Sette anni fa venne condannata per «oltraggio». Aveva criticato, in un suo vibrante scritto che ora si può leggere in Quando arrivano le cavallette (Guanda) una sentenza dell’Alta corte di giustizia indiana favorevole alla costruzione di una grande diga sul fiume Narmada. «In fondo sono rimasta in carcere per un solo giorno, è stata una pena simbolica - racconta Arundhati Roy - Ma il problema non è quel che accade a me, persona nota. Il problema è che ogni giorno in India viene uccisa o sparisce della gente». Lei, infatti, è persona talmente nota che una volta, dopo l’attacco terrorista a Bombay, venne chiamata direttamente in causa da un anchorman, nel corso di un’intervista con un funzionario della polizia, che sparò il suo «speriamo ci stia guardando» con tono niente affatto amichevole. Ha scritto un romanzo di enorme successo, Il dio delle piccole cose, nel ’96.
A Londra vinse il Booker Prize, e fu tradotto in tutto il mondo. Da allora, non una riga di fiction. È diventata un’eroina no-global. E anche un personaggio ingombrante. Oggi (Teatro Carignano, alle 21) inaugura insieme con lo scrittore-regista inglese John Berger la stagione del Circolo dei Lettori, in una serata che guarda anche all’imminente edizione di Torino Spiritualità.

Parlerete del raccontare. Un’arte che sembra aver rinnegato.
«Non ho più messo mano a romanzi perché nutro un certa ostilità all’idea di carriera. Non mi voglio pensare come una scrittrice che deve ogni volta pubblicare un nuovo libro. Però ritengo che molti dei miei saggi rappresentino un modo specifico di raccontare storie difficili. Quello sulla diga, per esempio: è stata una grande sfida, che andava oltre il ruolo normalmente attribuito a uno scrittore. In India c’è una realtà così urgente, una necessità di mettersi per strada, nel cuore della politica e dei problemi basilari della popolazione, che è davvero difficile rifiutarsi».

Il suo cambio di marcia verso un aperto impegno è imposto dalla situazione? Lo ha sentito come un dovere?
«Non esageriamo. Non ho il senso del dovere».

Però ha quello dell’impegno.
«Le faccio un esempio. Nel nuovo libro c’è un saggio sull’attacco suicida al parlamento di New Delhi, il 13 dicembre 2001, che fece 14 vittime. Sapevo che era un’assoluta tragedia, e la sola cosa che ho pensato è stata: se non ne scrivo, sicuramente me ne pentirò. Funziona così. Per me è impossibile andare nel Kashmir e non scriverne. Ma ci vado soprattutto per capire la natura umana. Con quel che accade sarebbe impossibile non andare».

In Kashmir si consuma una lotta interminabile tra India e Pakistan, con infiltrazioni terroristiche, scontri religiosi, rivendicazioni indipendentiste.
«E se uno non prende posizione viene accusato di tradimento. Certo, la minaccia del Pakistan in quell’area è reale. Ma è altrettanto reale quella dell’India: è in atto una vera occupazione militare, con un bilancio atroce; ci sono stati almeno diecimila scomparsi, e decine di migliaia di torturati. E in India non il minimo accenno. Silenzio. Non se ne parla».

L’immagine che dà del suo Paese contrasta con quella che se ne ha generalmente: una grande democrazia, una grande crescita economica, una superpotenza meno inquietante di quella cinese.
«Superpower-Superpoor, superpotenza superpovera. L’India è una democrazia solo per qualcuno, diciamo per la classe media; e questo è il vero problema, che nasconde i contadini ridotti alla disperazione e al suicidio, la povertà, la distruzione dell’ambiente».Mali che lei denuncia apertamente. Se fosse cinese, invece...«Lo so, non potrei. Ma la contrapposizione non ci porta da nessuna parte. Ci sono aspetti positivi in entrambi i Paesi, accanto ad altri, troppi, molto negativi. Anche da noi c’è una legge sulla sicurezza che, di fatto, criminalizza ogni dissenso».

L’India è uno Stato repressivo?
«Peggio. Uno Stato repressivo con spezzoni di fascismo. E che sta diventando sempre più uno Stato di polizia. Non si riesce a dare cibo e acqua sufficienti alla popolazione, ma ora tutti verranno forniti di una carta d’identità elettronica. E quelli che non l’avranno cesseranno di esistere».

Nel suo libro lei critica sia il Partito induista sconfitto alle ultime elezioni, sia il Partito del Congresso tornato al potere. Quale alternativa propone?
«Guardi che il Partito del Congresso, data l’enorme frammentazione politica, ha vinto con il 10 per cento dei voti. In ogni caso, non credo alle alternative globali. Sono altrettanto violente. Credo però che ogni nuova diga abbia un’alternativa, che ci siano possibilità puntuali, situazione per situazione, contro il crescere della violenza e le soluzioni militari; che ci siano diritti di base nel cui ambito lavorare. È importante essere specifici».

Lei insiste sulla specificità. Proviamo a definire anche la spiritualità?
«Volentieri: capire che ognuno di noi è parte di una storia. Rispettare tutto ciò che ci circonda. Se rimuovi l’essere umano, non rimane niente».

Tratto da:
La Stampa 16 settembre 2009

martedì 15 settembre 2009

Argentina: indigeni reclamano l'inclusione nella legge sui mezzi di comunicazione audiovisuali


di Laura Sponti

Il controllo del territorio ideologico dell' opinione pubblica Argentina e' senza dubbio la discussione di fondo che sta alla base delle dure lotte che si stanno affrontando per modificare una legge dittatoriale della radiodiffusione che racchiude dentro di se potenti e pericolosi interessi.

Le grandi corporazioni non sono disposte a lasciare quel potere che per decenni hanno utilizzato per manipolare il contesto affinchè ne beneficiassero i loro interessi economici e politici. Questo stesso monopolio informativio e' quello che presenta la realtà dei popoli originari e la loro stessa esistenza come "problematica indigenta" o conflitto indigeno"affermando quindi che la sola esistenza dei popoli originari sia un problema. Oggi, le popolazioni preesistenti del paese stanno generando un processo storico perchè abbandonano l'idea di vedere i mezzi di comunicazione come strumenti di "altri" ma al contrario come strumenti per esercitare il loro diritto alla comunicazione con "identità" e accedere cosi alle nuove tecnologie. I media gestiti dai popoli originari non pretendono di lucrare sulla loro identità ne di ossequiare il governo di turno. L'obiettivo non e' solo informare sulla propria realta', ma sentono anche la responsabilitaà di promuovere e difondere la loro cultura,come un popolo vivo che ha una storia che deve essere raccontata

Quando i Media Indigeni staranno sullo stesso piano di uguaglianza nello spettro radioelettrico ,con i privati,lo stato e le organizzazioni comunitarie allora si potrà parlare di democrazia nel settore della comunicazione argentino,perche' ci saraà la vocedella terra che informerà.

Con l'esigenza dell' inclusione del "Diritto alla comunicazione con identità", di questa legge, e' evidente che i popoli originari attraverso i loro strumenti di comunicazione audiovisuale rompano il mantello di invisibilizzazione che li ha messi a tacere dalla stessa crazione dello stato argentino.

Durante le udienze che si terranno la prossima settimana e' prevista una presentazione di più di 25 popolazioni originarie che avverrà in ciascuna delle lingue parlate, fino ad oggi si calcola che siano 16 quelle ufficiali.

COMUNIDADES ABORIGENES DE SANTA FE –OCASTAFE;

CONSEJO DE CACIQUES DE LA NACIÓN MBYA-GUARANÍ;

ASAMBLEA PUEBLO GUARANÍ- APG;

FEDERACIÓN DEL PUEBLO PILAGA;

PUEBLO KOLLA DE LA PUNA DPTO. YAVI;

INTER-TOBA;

CONSEJO DE LA NACIÓN TONOKOTE LLUTQUI;

KEREIMBA IYAMBAE;

UNIÓN DE LOS PUEBLOS DE LA NACIÓN DIAGUITA – UPND;

CONFEDERACIÓN MAPUCE DE NEUQUÉN;

ONPIA;

COORDINADORA DEL PARLAMENTO MAPUCHE RIO NEGRO;

MESA DE ORGANIZACIÓN DE PUEBLOS ORIGINARIOS DE ALTE. BROWN;

ORG. MALAL PINCHEIRA DE MENDOZA;

COMUNIDAD HUARPE GUENTOTA;

ORGANIZACIÓN TERRITORIAL MAPUCHE-TEHUELCHE DE PUEBLOS ORIGINARIOS SANTA CRUZ;

ORGANIZACIÓN RANQUEL MAPUCHE DE LA PAMPA;

QULLAMARKA;

ORGANIZACIÓN 12DE OCTUBRE YOFIS WICHI;

CONSEJO DE CACIQUES WICHI DE LA RUTA 86;

COORDINADORA AUDIOVISUAL INDIGENA ARGENTINA;

CONSEJO MOQOIT DEL CHACO;

ORGANIZACIÓN INDIGENA NAPALPI


Tratto da:

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!