mercoledì 12 dicembre 2012

Stati Uniti - Michigan: Occupy the Capitol


La nuova legge sullo statuto dei lavoratori dello stato del Michigan è diventata un caso nazionale da quando anche la Casa Bianca e il presidente Obama hanno preso posizione in merito.
Il presidente Obama si è a lungo opposto ai nuovi statuti dei lavoratori e a tutte quelle leggi che vanno a colpire i diritti sindacali "ritengo che la nostra economia è più forte quando i lavoratori posso avere un buon salario e buone tutele, e sono contrario ai tentativi di privarli dei loro diritti. In Michigan il ruolo dei lavoratori nel rilancio del settore automobilistico degli Stati Uniti, è un esempio lampante di come i sindacati hanno contribuito a costruire una forte classe media e una forte economia americana."
Giovedi 6 dicembre, migliaia di manifestanti del sindacato e attivisti dei movimenti sociali hanno bloccato gli ingressi del Lansing Capitol nello stato del Michigan per protestare contro la decisione del parlamento dello stato di approvare un nuovo “statuto dei lavoratori”. La giornata si è conclusa bruscamente quando la polizia ha caricato i manifestanti, usando una gran quantità di spary urticanti provocando l'evacuazione e la chiusura del Campidoglio. Le proteste sono continuate in strada e almeno otto persone sono state arrestate.
Questo martedì, in migliaia si sono dati appuntamento a Lansing per protestare contro l' “1% - backed” la nuova legislazione sul "diritto al lavoro", la più estrema e antisindacale legge che lo stato del Michigan abbia mai visto. Infermieri, insegnanti, lavoratori dell'auto, i dipendenti del settore dei servizi, metalmeccanici, e molti altri lavoratori (compresi i disoccupati), nonché le loro famiglie, con attivisti, e rappresentanti delle comunità, hanno già aderito. In molti si sono organizzati e preparati per azioni di disobbedienza civile non violenta.
Molte e molto partecipate le assemblee delle varie categorie sindacali e delle comunità coinvolte nelle manifestazioni di questi giorni e tante le mobilitazioni a favore della protesta. Anche rappresentanti dei giocatori della Fnl, la lega nazionale di football americano, non hanno mancato di far sentire la loro voce a fianco dei manifestanti: "Protestiamo contro questo ritorno al passato, siamo contro la riforma nella sua forma attuale e siamo orgogliosi di stare a fianco dei lavoratori in Michigan e ovunque. Non pensiamo che gli elettori abbiano scelto questa riforma, e non crediamo che i lavoratori meritano questo trattamento.”
Da lunedì mattina un gran numero di agenti della Polizia di Stato del Michigan ha circondato il Campidoglio in previsione delle giornate protesta. Rigorosi i controlli e le limitazioni all’accesso a tutta la zona del Campidoglio, molte le prescrizioni ai manifestanti; senza dubbio la presenza della polizia è legata alle simili proteste messe in campo gli attivisti sindacali che occupano il Campidoglio, nel febbraio e marzo del 2011, contro una uguale riforma firmata dal governatore dello stato del Wisconsin Scott Walker l’anno scorso.Se approvata, il Michigan sarà il ventiquattresimo Stato dell’ Unione con leggi che vietano la presenza nelle aziende di rappresentanze sindacali minime come una condizione per l’assunzione.
Mentre in migliaia di attivisti e lavoratori dovrebbero assediare il Campidoglio, i rappresentanti democratici del Congresso si incontrano oggi con il governatore Rick Snyder , repubblicano, per discutere della nuova legislazione sui diritti dei lavoratori; lo scontro, a tutti i livelli, è solo cominciato.

Leggi gli articoli su: The Nation  -  OccupyWallStreet

Tunisia - L’Unione Generale dei Lavoratori Tunisini ha indetto uno sciopero generale nazionale il 13 dicembre per richiedere le dimissioni del Governo.


Proseguono ininterrotte le proteste nel Paese dopo l’attacco dei miliziani islamici alla sede del maggior sindacato tunisino.

L’Ugtt ha indetto lo sciopero generale nazionale in risposta all’aggressione subita alla sede sindacale di Tunisi del 4 Dicembre, compiuta da miliziani della “Lega per la Protezione della Rivoluzione”, l’emanazione più brutale di Ennhadha, il partito islamico al Governo.
In quell’occasione la sede sindacale è stata presa d’assalto da centinaia di miliziani armati di pietre e bastoni, e diversi dirigenti e simpatizzanti dell’organizzazione sono rimasti feriti. L’attacco, certamente premeditato come dimostrano gli appelli che circolavano in rete fino a poche ore prima, è stato compiuto in risposta alla grande mobilitazione di piazza organizzata dall’Ugtt a Siliana, una città situata nell’ovest della Tunisia inserita in una tra le regioni più povere e svantaggiate del Paese. La tre giorni di sciopero generale regionale indetta dall’Ugtt a Siliana ha portato alla destituzione del governatore locale, nipote del primo ministro Jebali. Si è trattato di una evidente vittoria politica per il sindacato.
Ma una risposta in termini politici era evidentemente impraticabile per il partito islamico al potere che ha invece optato per un vero e proprio assalto alla sede sindacale compiuto dalla “Lega per la protezione della Rivoluzione”, scatenando in questo modo un’escalation di tensione che ha portato nel corso della scorsa settimana, in molte città della Tunisia, a diverse manifestazioni di solidarietà nei confronti del sindacato. Hanno partecipato migliaia di persone, soprattutto studenti, che riconoscono nell’Ugtt il simbolo dell’opposizione a qualsiasi forma di regime.
L’Uggt infatti, nonostante abbia una storia costellata di contraddizioni e di atteggiamenti ambigui nei confronti del regime di Bourghiba prima e di Ben Ali dopo, rappresenta agli occhi dei tunisini, simbolicamente e razionalmente, l’unica forza sociale in grado di opporsi agli abusi dello Stato, e l’ultimo baluardo di difesa della democrazia, soprattutto ora che le speranze di un cambiamento reale, portate dalla Rivoluzione, si stanno affievolendo, principalmente a causa della dura repressione e dell’atteggiamento non curante nei confronti dei bisogni delle regioni marginalizzate che il governo sta portando avanti.
Il 6 dicembre sono stati indetti nelle regioni di Siliana, Gafsa, Sidi Bouzid e Kasserine quattro scioperi generali regionali, ma lo sciopero generale nazionale porta con sé una carica di emotività e di valore simbolico. Il primo venne indetto nel 1978 e si concluse con più di 400 morti, tanto che viene ricordato come “il giovedì nero”. Un secondo sciopero generale nazionale venne organizzato il 12 gennaio 2011 in pieno clima rivoluzionario, e ha contribuito alla caduta del regime di Ben Ali, avvenuta il 14 dello stesso mese.
Questa forte carica simbolica contribuisce ad innalzare la tensione sociale in vista dello sciopero del 13, che verrà preceduto da una manifestazione di artisti solidali con il sindacato prevista per la sera di oggi, e da un corteo del movimento Occupy Tunisia, domani nel centro di Tunisi.

lunedì 10 dicembre 2012

Quatar - Doha: porta di entrata per un futuro infernale.

di Francesco Martone e Alberto Zoratti

Alla fine ce l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato approvato a colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del rasoio (nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il “Doha Climate Gateway”. Una porta di entrata per il futuro con l'estensione del protocollo di Kyoto, il riconoscimento del risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici e l'impegno dei paesi industrializzati di stanziare per lo meno una somma pari alla media di quanto sborsato in aiuti climatici negli ultimi 3 anni. Una proposta di minima visto che troppi erano i gap da colmare. E' uno dei tanti paradossi di questa Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici che è conclusa sul filo del precipizio a Doha, città simbolo di opulenza, immenso cantiere a cielo aperto, sede un incontro che all'inizio si annunciava come un appuntamento di transizione. Così non è stato. Le ultime fasi del negoziato del livello “ministeriale” si sono protratte ben oltre i tempi previsti, tra mancanza di volontà politica di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, (Stati Uniti in particolare) e richieste insoddisfatte di un aumento dei fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida industrializzazione verso un'economia a basso contenuto di carbonio, – la Cina nello specifico, ma non solo. Ed un ultimo colpo basso della Polonia con dietro le spalle Russia ed Ucraina intenzionate a proteggere il loro diritto di vendere alte quote di permessi di emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe portato al fallimento totale della Conferenza. Così nella “land of plenty” del Qatar, l' occasione per l'Emiro Hamad bin Khalifa al Thani di proporsi al mondo come paladino dell'ambiente rischiava di sfumare per una questione di quattrini, e per manifesta incapacità dei suoi diplomatici. Se non fosse bastata la condanna all'ergastolo per Mohammed al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di "sovversione del sistema di governo" e "offesa all'emiro" per una sua poesia dedicata alla “Tunisia dei gelsomini”. Anche qui a Doha si riverberano gli effetti della “crisi” finanziaria in Europa, che a Durban aveva messo assieme paesi poveri ed insulari salvando il negoziato , e che poco dopo, vista l'incapacità di tener fede alle promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il suo potere di trattativa. La morsa del Fiscal Compact, e delle politiche di austerità sostenute dalla BuBa e dalla Cancelliera Angela Merkel stanno così avendo un effetto devastante anche sul profilo internazionale dell'Unione già compromesso dalla posizione oltranzista di Varsavia.
A Doha c'era da concludere il Piano di Azione di Bali su temi quali adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, finanziamenti, strumenti di attuazione, il prossimo regime di riduzione delle emissioni globali. Si è faticato fino all'ultimo secondo per poter passare la palla al gruppo di lavoro creato a Durban che dovrà trattare un accordo globale vincolante per tutti entro il 2015, per entrare in vigore nel 2020. Fumo negli occhi di Todd Stern, negoziatore di Washington. Un passo in avanti però c'è stato, si riconosce per la prima volta il diritto dei paesi insulari al risarcimento per le “perdite e danni”” per i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici. Fino all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero come reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi a Copenhagen per il 2010-2012, e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro il 2020.
A poco è servito che l'Inghilterra annunciasse lo stanziamento di 2,2 miliardi di dollari, seguito a ruota da altri paesi europei, (Germania, Francia, Olanda, Svezia, Svizzera e UE) per un totale di 6,85 miliardi di dollari per i prossimi due anni, un' aumento rispetto al biennio 2011-2012. Inoltre i paesi donatori chiedevano di verificare come quei soldi verranno spesi nei paesi in via di sviluppo, questi ultimi chiedono invece che si faccia un verifica degli impegni di spesa dei primi. L'onda lunga di questo gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel negoziato sulle foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle aspettative. Se ciò non bastasse. nonostante le decine di morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non sono riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15 gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali impegni di riduzione. O il cosiddetto “ambition deficit”, ossia il differenziale tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990. Temi che riemergeranno con virulenza nei prossimi anni.
La COP18 riesce nonostante tutto a rimettere faticosamente in carreggiata il Protocollo di Kyoto confermando il "Second commitment period" cioè il secondo periodo di impegni di taglio delle emissioni di gas climalteranti che i Paesi industrializzati avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo di basso profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1 gennaio 2013 inizierà Kyoto 2, ma vedrà li paesi parecipanti, quali Unione Europea, la Svizzera, l'Australia e la Norvegia rappresentano solo il 15% delle emissioni globali. La loro adesione a Kyoto, gli avrebbe permesso di consolidare il mercato del carbonio (come il sistema ETS europeo o quello australiano, che nei prossimi anni andranno a convergere) , uno dei meccanismi flessibili di Kyoto particolarmente voluto dai Paesi industrializzati, perchè permette una mitigazione a basso costo.Ed invece uno dietro l'altro i paesi aderenti hanno annunciato  inaspettatamente di voler rinunciare all'acquisto di crediti di emissione fino al 2020 quando terminerà Kyoto 2.   Il rimanente 85% delle emissioni, provenienti da Stati Uniti (con 17 tonnellate e passa procapite all'anno di CO2) e Cina (con poco più di 7 tonnellate procapite allo stesso livello dell'UE) verranno gestite all'interno del percorso negoziale nato a Durban un anno fa, verso un regime non vincolante ma di "pledge and review", impegni volontari da verificare collettivamente. Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà essere riempito di significato, di numeri e di percentuali.
La rigidità di Stati Uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del Canada, che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta ed al loro sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato che, secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni, sarebbe dovuto arrivare naturalmente ad adottare un regime vincolante. D'altra parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del G77 i suoi interessi di potenza mondiale ormai emersa, non accetta alcun vincolo multilaterale che metta in discussione il suo sviluppo impetuoso ancora fondato sullo sfruttamento del carbone e del nucleare. Kyoto è necessario, ma non è assolutamente sufficiente. Non lo era prima, tanto meno lo sarà oggi. Il picco di emissioni di C02, dice il Panel di scienziati dell'IPCC, dovrà essere raggiunto nel 2015 per poi decrescere. Questo poter sperare di far rimanere la concentrazione di C02 sotto i 450 ppm e l'aumento della temperatura media globale sotto i 2°C, che però può significare +4°C - +6°C in altre parti del mondo, basti pensare all'Africa subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona parte dei suoi raccolti agricoli (con buona pace della sovranità alimentare) e alla Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del tutto la sua calotta glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa che, ironia della sorte renderebbe assai meno costoso lo sfruttamento delle proprie risorse petrolifere.
La prossima Conferenza delle Parti che si terrà a Varsavia lascia poche speranze, vista l'ostinazione con la quale la Polonia ha cercato di affossare il protocollo di Kyoto e con esso tutto il negoziato. In molti stanno già guardando alla COP20 che si terrà a Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà un'altra guida ed altre ambizioni.
Pubblicato in Il manifesto 9 dicembre 2012
di Francesco Martone (SEL) e Alberto Zoratti (Fairwatch)

Desinformémonos del lunedì


Reportajes México
Marcela Salas Cassani y Juan Pablo Lozano
Gloria Muñoz Ramírez
Francisco López Bárcenas
Marcela Salas Cassani
Reportajes Internacional
Adazahira Chávez
Joana Moncau, Suzi Soares, Cleber Arruda. Con la colaboración de Jéssica Moreira
Traducción Waldo Lao
Fotos: EBC e Latuff
Jordi Pérez Colomé / Blog Obama World
Imagina en Resistencia
Adazahira Chávez
Fotoreportaje
Fotografías: Campaña “Ojo con tu ojo”
Texto: Tomás Gisbert, Nicola Tanno, Desinformémonos
Música: L’estaca Lluis Llach
Producción: Desinformémonos
Video
Centro de Derechos Humanos Tlachinollan
 Audio
Entrevistas: Marcela Salas Cassani y Sergio Castro Bibriesca
Realización: Sergio Castro Bibriesca

venerdì 7 dicembre 2012

Egitto - Un pò di calore in questo inverno islamista


Contributo di Lorenzo Fe *

Gli sviluppi recenti hanno pienamente confermato le riserve che si accompagnavano alla grande gioia con cui era stata accolta l'ondata rivoluzionaria del 2011 nel mondo arabo. Ma se c'è un punto su cui non ci sono dubbi, è che la Primavera Araba ha infranto il divide et impera della tesi dello “scontro di civiltà”. Ma questa falsificazione è avvenuta su due piani.
Da un lato abbiamo il riemergere di un universalismo dal basso, l'universalismo della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. Il clima culturale post-modernista, con la sua spesso unilaterale esaltazione dei vari particolarismi, lo dava per spacciato. E invece eccolo tornare con forza dove meno ce lo si aspettava.
Dall'altro lato però, c'è l'universalismo dall'alto, che, dai tempi della rivoluzione francese e dell'imperialismo, coopta le aspirazioni di libertà e uguaglianza per trasformarle in facciata ideologica di rapporti di forza tutt'altro che libertari. In questo caso l'universalismo dall'alto si è manifestato nell'intesa tra interessi delle élite occidentali e islamismo sunnita. Dopo un decennio di retorica di guerra al terrore e di equazione tra Islam e terrorismo, tale intesa sembrava addirittura inconcepibile. Eppure una riflessione storica leggermente più ampia fa sembrare tale alleanza tutt'altro che eccezionale. Stati Uniti e Arabia Saudita (paese che talvolta viene buffamente designato come “moderato” dai media mainstream) sono sempre stati in ottimi rapporti. La contemporanea cultura dell'estremismo di destra sunnita, nonché la stessa Al Qaeda, è stata forgiata nel corso della guerra santa contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan, che vedeva servizi segreti americani e jihadisti uniti nella lotta. La guerra al terrore degli anni zero sembra quindi una parentesi all'interno di un più ampio quadro di collaborazione tra élite. Si ha la tentazione di descrivere gli eventi in questi termini: negli anni '90, quando le sinistre sembravano addomesticate o ridotte all'impotenza, le due destre hanno pensato che fosse arrivato il momento di un regolamento di conti interno. Ma con la crisi del neoliberismo e di fronte alla ribellione popolare, i rapporti sono stati ricuciti in men che non si dica. Per cui ecco gli Stati Uniti scommettere sull'islamismo moderato come unico modo di mantenere il regime di governance finanziaria nella regione.
Gli attuali allineamenti stanno esacerbando il conflitto settario tra sciiti e sunniti interno al mondo islamico. Gli islamisti sunniti, retorica a parte, sono vicini all'occidente, e gli sciiti, sotto la guida quanto mai deprecabile dell'Iran di Ahmadinejad e quel che resta della Siria di Assad, in virulenta opposizione. I leader di entrambe le fazioni giocano sul fanatismo religioso per autolegittimarsi. L'accentuarsi del contrasto ha colpito chi ha la sfortuna di trovarsi in prossimità delle trincee di questa guerra ideologica, in Siria, in Libano, e in Palestina. In Siria l'insurrezione popolare e democratica sta assumendo sempre di più le inquietanti sembianze di una guerra etnico-religiosa tra la maggioranza sunnita e il regime sciita. In Libano, Hezbollah è lacerata dalla contraddizione tra la sua retorica populista e il suo fedele sostegno ad Assad. In Palestina, Hamas è altrettanto indebolita dallo scontro tra la sua identità sunnita e l'aiuto che ha ricevuto da Siria e Iran, cosa che sembra aver reso la Palestina un bersaglio ancora più facile per Nethanyahu.
All'interno della destra sunnita, il contrasto si gioca invece tra la corrente più moderata dei Fratelli Musulmani, che fa capo all'Egitto e al Qatar, e quella salafita, che guarda invece all'Arabia Saudita. Negli anni '60 Egitto e Arabia Saudita erano i due grandi concorrenti per l'egemonia sul mondo arabo. Entrambi i regimi erano violentemente autoritari, ma l'Egitto rappresentava una visione anti-imperialista, laica e progressista dal punto di vista della distribuzione del reddito. L'Arabia Saudita invece era ed è una monarchia religiosa fedele agli interessi americani e a una sostanziale indifferenza verso la questione palestinese. Con la fine di Nasser e l'avvento di Sadat, e poi di Mubarak, l'Egitto ha ceduto sull'anti imperialismo, mantenendo una qualche vestigia di parziale e relativo secolarismo (e l'immagine della laicità è stata ovviamente alquanto danneggiata dalla sua associazione con le dittature nord africane). La sfida all'autoritarismo portata avanti dalla rivoluzione egiziana era anche una sfida alle monarchie del golfo, ma l'opportunista avvento al potere dei Fratelli Musulmani rappresenta un avvicinamento all'Arabia dal punto di vista dell'islamismo sunnita e filo-Americano. Certo, i salafiti, generosamente finanziati dai petroldollari sauditi, non sono entrati nei governi a guida islamista moderata comparsi in Marocco, Libia, Tunisia ed Egitto quando la polvere della ribellione si è posata nuovamente al suolo. Ma si dimostrano sempre obbedienti alleati quando si tratta di reprimere le mobilitazioni della sinistra.
Il caso dell'Egitto è emblematico anche per quel che riguarda le politiche degli islamisti al potere. I Fratelli Musulmani sono da tempo un'organizzazione potente, soprattutto dal punto di vista economico. La leadership comprende diversi milionari e i quadri provengono dalla piccola e media borghesia. Questa organizzazione si è rapidamente trasformata in una formidabile macchina elettorale, che ha permesso al presidente Morsy di venire democraticamente eletto nonostante gli intrighi dei militari e dei rimasugli del vecchio regime. Ma Morsy non si è dimostrato particolarmente incline a utilizzare il potere così acquisito in modo altrettanto democratico. La libertà d'espressione, per quanto più ampia che sotto Mubarak, è sta limitata rispetto al periodo della transizione. L'assemblea costituente è stata unilateralmente egemonizzata dagli islamisti. Le elezioni per il nuovo parlamento sono state nuovamente posticipate. Morsy, che ha temporaneamente anche i poteri del parlamento, ha recentemente varato misure per mettere sotto controllo islamista anche il potere giudiziario e i vertici del sindacato di stato. E soprattutto ha garantito all'FMI, in cambio di un nuovo prestito, che il popolo egiziano ripagherà il “debito dittatoriale” contratto sotto Sadat e Mubarak. Le politiche neoliberiste che hanno portato al crollo di Mubarak stanno per ripresentarsi sotto spoglie barbute. Forti coi deboli e deboli coi forti, verrebbe da commentare. Di qui la settimana di scontri della gioventù rivoluzionaria contro islamisti e polizia, nello strenuo tentativo di far contare la forza della mobilitazione più di quella del denaro. La gioventù rivoluzionaria è determinata a far sì che il sangue e la memoria dei caduti non vengano ripuliti dall'opportunismo islamista.

* Lorenzo Fe è autore di In ogni strada. Voci di rivoluzione dal Cairo, cresciuto a Treviso e ora vive a Londra. Per Agenzia X ha pubblicato Londra zero zero e curato l’edizione italiana di All Crews.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!