Contributo di Lorenzo Fe *
Gli sviluppi recenti
hanno pienamente confermato le riserve che si accompagnavano alla
grande gioia con cui era stata accolta l'ondata rivoluzionaria del
2011 nel mondo arabo. Ma se c'è un punto su cui non ci sono dubbi, è
che la Primavera Araba ha infranto il divide et impera della
tesi dello “scontro di civiltà”. Ma questa falsificazione è
avvenuta su due piani.
Da un lato abbiamo il
riemergere di un universalismo dal basso, l'universalismo della
libertà, della democrazia e della giustizia sociale. Il clima
culturale post-modernista, con la sua spesso unilaterale esaltazione
dei vari particolarismi, lo dava per spacciato. E invece eccolo
tornare con forza dove meno ce lo si aspettava.
Dall'altro lato però,
c'è l'universalismo dall'alto, che, dai tempi della rivoluzione
francese e dell'imperialismo, coopta le aspirazioni di libertà e
uguaglianza per trasformarle in facciata ideologica di rapporti di
forza tutt'altro che libertari. In questo caso l'universalismo
dall'alto si è manifestato nell'intesa tra interessi delle élite
occidentali e islamismo sunnita. Dopo un decennio di retorica di
guerra al terrore e di equazione tra Islam e terrorismo, tale intesa
sembrava addirittura inconcepibile. Eppure una riflessione storica
leggermente più ampia fa sembrare tale alleanza tutt'altro che
eccezionale. Stati Uniti e Arabia Saudita (paese che talvolta viene
buffamente designato come “moderato” dai media mainstream) sono
sempre stati in ottimi rapporti. La contemporanea cultura
dell'estremismo di destra sunnita, nonché la stessa Al Qaeda, è
stata forgiata nel corso della guerra santa contro l'invasione
sovietica dell'Afghanistan, che vedeva servizi segreti americani e
jihadisti uniti nella lotta. La guerra al terrore degli anni zero
sembra quindi una parentesi all'interno di un più ampio quadro di
collaborazione tra élite. Si ha la tentazione di descrivere gli
eventi in questi termini: negli anni '90, quando le sinistre
sembravano addomesticate o ridotte all'impotenza, le due destre hanno
pensato che fosse arrivato il momento di un regolamento di conti
interno. Ma con la crisi del neoliberismo e di fronte alla ribellione
popolare, i rapporti sono stati ricuciti in men che non si dica. Per
cui ecco gli Stati Uniti scommettere sull'islamismo moderato come
unico modo di mantenere il regime di governance finanziaria nella
regione.
Gli attuali allineamenti
stanno esacerbando il conflitto settario tra sciiti e sunniti interno
al mondo islamico. Gli islamisti sunniti, retorica a parte, sono
vicini all'occidente, e gli sciiti, sotto la guida quanto mai
deprecabile dell'Iran di Ahmadinejad e quel che resta della Siria di
Assad, in virulenta opposizione. I leader di entrambe le fazioni
giocano sul fanatismo religioso per autolegittimarsi. L'accentuarsi
del contrasto ha colpito chi ha la sfortuna di trovarsi in prossimità
delle trincee di questa guerra ideologica, in Siria, in Libano, e in
Palestina. In Siria l'insurrezione popolare e democratica sta
assumendo sempre di più le inquietanti sembianze di una guerra
etnico-religiosa tra la maggioranza sunnita e il regime sciita. In
Libano, Hezbollah è lacerata dalla contraddizione tra la sua
retorica populista e il suo fedele sostegno ad Assad. In Palestina,
Hamas è altrettanto indebolita dallo scontro tra la sua identità
sunnita e l'aiuto che ha ricevuto da Siria e Iran, cosa che sembra
aver reso la Palestina un bersaglio ancora più facile per
Nethanyahu.
All'interno della destra
sunnita, il contrasto si gioca invece tra la corrente più moderata
dei Fratelli Musulmani, che fa capo all'Egitto e al Qatar, e quella
salafita, che guarda invece all'Arabia Saudita. Negli anni '60 Egitto
e Arabia Saudita erano i due grandi concorrenti per l'egemonia sul
mondo arabo. Entrambi i regimi erano violentemente autoritari, ma
l'Egitto rappresentava una visione anti-imperialista, laica e
progressista dal punto di vista della distribuzione del reddito.
L'Arabia Saudita invece era ed è una monarchia religiosa fedele agli
interessi americani e a una sostanziale indifferenza verso la
questione palestinese. Con la fine di Nasser e l'avvento di Sadat, e
poi di Mubarak, l'Egitto ha ceduto sull'anti imperialismo, mantenendo
una qualche vestigia di parziale e relativo secolarismo (e l'immagine
della laicità è stata ovviamente alquanto danneggiata dalla sua
associazione con le dittature nord africane). La sfida
all'autoritarismo portata avanti dalla rivoluzione egiziana era anche
una sfida alle monarchie del golfo, ma l'opportunista avvento al
potere dei Fratelli Musulmani rappresenta un avvicinamento all'Arabia
dal punto di vista dell'islamismo sunnita e filo-Americano. Certo, i
salafiti, generosamente finanziati dai petroldollari sauditi, non
sono entrati nei governi a guida islamista moderata comparsi in
Marocco, Libia, Tunisia ed Egitto quando la polvere della ribellione
si è posata nuovamente al suolo. Ma si dimostrano sempre obbedienti
alleati quando si tratta di reprimere le mobilitazioni della
sinistra.
Il caso dell'Egitto è
emblematico anche per quel che riguarda le politiche degli islamisti
al potere. I Fratelli Musulmani sono da tempo un'organizzazione
potente, soprattutto dal punto di vista economico. La leadership
comprende diversi milionari e i quadri provengono dalla piccola e
media borghesia. Questa organizzazione si è rapidamente trasformata
in una formidabile macchina elettorale, che ha permesso al presidente
Morsy di venire democraticamente eletto nonostante gli intrighi dei
militari e dei rimasugli del vecchio regime. Ma Morsy non si è
dimostrato particolarmente incline a utilizzare il potere così
acquisito in modo altrettanto democratico. La libertà d'espressione,
per quanto più ampia che sotto Mubarak, è sta limitata rispetto al
periodo della transizione. L'assemblea costituente è stata
unilateralmente egemonizzata dagli islamisti. Le elezioni per il
nuovo parlamento sono state nuovamente posticipate. Morsy, che ha
temporaneamente anche i poteri del parlamento, ha recentemente varato
misure per mettere sotto controllo islamista anche il potere
giudiziario e i vertici del sindacato di stato. E soprattutto ha
garantito all'FMI, in cambio di un nuovo prestito, che il popolo
egiziano ripagherà il “debito dittatoriale” contratto sotto
Sadat e Mubarak. Le politiche neoliberiste che hanno portato al
crollo di Mubarak stanno per ripresentarsi sotto spoglie barbute.
Forti coi deboli e deboli coi forti, verrebbe da commentare. Di qui
la settimana di scontri della gioventù rivoluzionaria contro
islamisti e polizia, nello strenuo tentativo di far contare la forza
della mobilitazione più di quella del denaro. La gioventù
rivoluzionaria è determinata a far sì che il sangue e la memoria
dei caduti non vengano ripuliti dall'opportunismo islamista.