di Francesco Martone e Alberto Zoratti
Alla fine ce
l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato approvato a
colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del rasoio
(nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il “Doha Climate Gateway”.
Una porta di entrata per il futuro con l'estensione del protocollo di
Kyoto, il riconoscimento del risarcimento per danni causati dai
cambiamenti climatici e l'impegno dei paesi industrializzati di
stanziare per lo meno una somma pari alla media di quanto sborsato in
aiuti climatici negli ultimi 3 anni. Una
proposta di minima visto che troppi erano i gap da colmare. E' uno dei
tanti paradossi di questa Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici
che è conclusa sul filo del precipizio a Doha, città simbolo di
opulenza, immenso cantiere a cielo aperto, sede un incontro che
all'inizio si annunciava come un appuntamento di transizione. Così non è
stato. Le ultime fasi del negoziato del livello “ministeriale” si sono
protratte ben oltre i tempi previsti, tra mancanza di volontà politica
di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, (Stati Uniti in
particolare) e richieste insoddisfatte di un aumento dei fondi per
sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida industrializzazione verso
un'economia a basso contenuto di carbonio, – la Cina nello specifico, ma
non solo. Ed un ultimo colpo basso della Polonia con dietro le spalle
Russia ed Ucraina intenzionate a proteggere il loro diritto di vendere
alte quote di permessi di emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe
portato al fallimento totale della Conferenza. Così nella “land of
plenty” del Qatar, l' occasione per l'Emiro Hamad bin Khalifa al Thani di
proporsi al mondo come paladino dell'ambiente rischiava di sfumare per
una questione di quattrini, e per manifesta incapacità dei suoi
diplomatici. Se non fosse bastata la condanna
all'ergastolo per Mohammed al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di
"sovversione del sistema di governo" e "offesa all'emiro" per una sua
poesia dedicata alla “Tunisia dei gelsomini”. Anche qui a Doha si
riverberano gli effetti della “crisi” finanziaria in Europa, che a
Durban aveva messo assieme paesi poveri ed insulari salvando il
negoziato , e che poco dopo, vista l'incapacità di tener fede alle
promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il suo potere di
trattativa. La morsa del Fiscal Compact, e delle politiche di austerità
sostenute dalla BuBa e dalla Cancelliera Angela Merkel stanno così
avendo un effetto devastante anche sul profilo internazionale
dell'Unione già compromesso dalla posizione oltranzista di Varsavia.
A
Doha c'era da concludere il Piano di Azione di Bali su temi quali
adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie,
finanziamenti, strumenti di attuazione, il prossimo regime di riduzione
delle emissioni globali. Si è faticato fino all'ultimo secondo per poter
passare la palla al gruppo di lavoro creato a Durban che dovrà trattare
un accordo globale vincolante per tutti entro il 2015, per entrare in
vigore nel 2020. Fumo negli occhi di Todd Stern, negoziatore di
Washington. Un passo in avanti però c'è stato, si riconosce per la prima
volta il diritto dei paesi insulari al risarcimento per le “perdite e
danni”” per i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici. Fino
all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero come
reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi a Copenhagen
per il 2010-2012,
e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro il 2020.
A poco è servito che
l'Inghilterra annunciasse lo stanziamento di 2,2 miliardi di dollari,
seguito a ruota da altri paesi europei, (Germania, Francia, Olanda,
Svezia, Svizzera e UE) per un totale di 6,85 miliardi di dollari per i
prossimi due anni, un' aumento rispetto al biennio 2011-2012.
Inoltre i paesi donatori chiedevano di verificare come quei soldi
verranno spesi nei paesi in via di sviluppo, questi ultimi chiedono
invece che si faccia un verifica degli impegni di spesa dei primi.
L'onda lunga di questo gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel
negoziato sulle foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle
aspettative. Se ciò non bastasse. nonostante le
decine di morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non
sono riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15
gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali impegni
di riduzione. O il cosiddetto “ambition deficit”, ossia il differenziale
tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali
rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui
livelli di emissione del 1990. Temi che riemergeranno con virulenza nei
prossimi anni.
La COP18 riesce nonostante
tutto a rimettere faticosamente in carreggiata il Protocollo di Kyoto
confermando il "Second commitment period" cioè il secondo periodo di
impegni di taglio delle emissioni di gas climalteranti che i Paesi
industrializzati avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo
di basso profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico
Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1 gennaio 2013
inizierà Kyoto 2, ma vedrà li paesi parecipanti, quali Unione Europea,
la Svizzera, l'Australia e la Norvegia rappresentano solo il 15% delle
emissioni globali. La loro adesione a Kyoto, gli avrebbe permesso di
consolidare il mercato del carbonio (come il sistema ETS europeo o
quello australiano, che nei prossimi anni andranno a convergere) , uno
dei meccanismi flessibili di Kyoto particolarmente voluto dai Paesi
industrializzati, perchè permette una mitigazione a basso costo.Ed
invece uno dietro l'altro i paesi aderenti hanno annunciato
inaspettatamente di voler rinunciare all'acquisto di crediti di
emissione fino al 2020 quando terminerà Kyoto 2. Il rimanente 85%
delle emissioni, provenienti da Stati Uniti (con 17 tonnellate e passa
procapite all'anno di CO2) e Cina (con poco più di 7 tonnellate
procapite allo stesso livello dell'UE) verranno gestite all'interno del
percorso negoziale nato a Durban un anno fa, verso un regime non
vincolante ma di "pledge and review", impegni volontari da verificare
collettivamente. Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà
essere riempito di significato, di numeri e di percentuali.
La rigidità
di Stati Uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del
Canada, che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi
economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta ed al loro
sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato che,
secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni, sarebbe
dovuto arrivare naturalmente ad adottare un regime vincolante. D'altra
parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del G77 i suoi interessi di
potenza mondiale ormai emersa, non accetta alcun vincolo multilaterale
che metta in discussione il suo sviluppo impetuoso ancora fondato sullo
sfruttamento del carbone e del nucleare. Kyoto è necessario, ma non è
assolutamente sufficiente. Non lo era prima, tanto meno lo sarà oggi.
Il picco di emissioni di C02, dice il Panel di scienziati dell'IPCC,
dovrà essere raggiunto nel 2015 per poi decrescere. Questo poter sperare
di far rimanere la concentrazione di C02 sotto i 450 ppm e l'aumento
della temperatura media globale sotto i 2°C, che però può significare
+4°C - +6°C in altre parti del mondo, basti pensare all'Africa
subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona parte dei suoi
raccolti agricoli (con buona pace della sovranità alimentare) e alla
Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del tutto la sua calotta
glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa che, ironia della sorte
renderebbe assai meno costoso lo sfruttamento delle proprie risorse
petrolifere.
La prossima Conferenza delle Parti che si terrà a Varsavia
lascia poche speranze, vista l'ostinazione con la quale la Polonia ha
cercato di affossare il protocollo di Kyoto e con esso tutto il
negoziato. In molti stanno già guardando alla COP20 che si terrà a
Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà un'altra guida ed altre
ambizioni.
Pubblicato in Il manifesto 9 dicembre 2012
di Francesco Martone (SEL) e Alberto Zoratti (Fairwatch)
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ALLERTA ROSSA E CHIUSURA CARACOLES
BOICOTTA TURCHIA
Viva EZLN
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.
La lucha sigue!