martedì 3 gennaio 2017

Messico - Il Gatto-Perro e l'Apocalisse. SubComandante Galeano

Fantascienza.

Ricordatevi questo: fantascienza. Vedrete che, nei vostri prossimi incubi, vi aiuterà a non spaventarvi molto, o almeno a non angustiarvi inutilmente.

Probabilmente ricorderete qualche film di fantascienza. Magari qualcuna, qualcuno di voi, è stato indirizzato dalla fantascienza verso il cammino della scienza scientifica.

Io no, magari perché il mio film di fantascienza preferito è “La nave dei mostri”, con l’indimenticabile Eulalio González, “el Piporro”, la cui colonna sonora è stata ingiustamente esclusa dai premi Oscar, dai Golden Globe, o dal rinomato e locale “Pozol de Barro”. Magari ne avete sentito parlare, è un cult, secondo una di queste riviste specializzate, che nessuno legge, nemmeno quelli che le pubblicano. Se ricordate il film e/o lo vedrete, di sicuro capirete perché finì perso nelle montagne del Sudest Messicano, e non disperso nell’asfissiante rete burocratica che, almeno in Messico, affoga la ricerca scientifica.

E celebrerete anche che sia stato questo il mio film di fantascienza di riferimento, e non “2001, Odissea nello spazio” di Kubrik, o “Alien, l’ottavo passeggero” di Ridley Scott (con la tenente Rippley che rompe lo stereotipo del maschio sopravvissuto di Charlton Heston nel “Il pianeta delle scimmie”), o “Blade Runer”, anch’esso di Ridley Scott, dove la domanda “Gli androidi sognano pecore elettroniche?”, è il punto nodale.

Quindi è il “Piporro” e il suo “Estrella del Desello”, e il robot Tor innamorato di un jukebox, che dovete ringraziare per il fatto che io non stia dalla vostra parte in questo incontro.

Alla fine, filie cinefile a parte, ipotizziamo un film più o meno del genere: un’apocalisse in corso o nel passato; l’umanità intera in pericolo; prima un audace ed intrepido maschio come protagonista; dopo, da parte del femminismo innocuo, una donna, anch’essa audace ed intrepida; un gruppo di scienziati sono convocati a un’istallazione super segreta (chiaro, inevitabilmente situata nell’Unione Americana) un militare di alto grado spiega loro: devono realizzare un piano che salvi l’umanità; si realizza, però risulta che hanno bisogno di un individuo o una individua che, tra parentesi, annulli il lavoro collettivo e, all’ultimo secondo, tagli, con una pinza che compare inesplicabilmente, il cavo verde o azzurro o bianco o nero o rosso con una decisione casuale, e zás, l’umanità è salva; il gruppo di scienziati applaudono e fanno un baccano d’inferno; il ragazzo o la ragazza incontrano il vero amore; il rispettabile pubblico esce dalla sala, mentre gli imbucati controllano le poltrone per vedere se qualcuno ha dimenticato qualcosa, ancora da finire, qualche scatola di popcorn, con questo delizioso e ineguagliabile sapore di benzoato di sodio.

La catastrofe ha varie origini: un meteorite ha cambiato rotta con la stessa costanza di un politico che fa dichiarazioni sul gasolinazo; o un tornado di squali; o un pianeta sviato dal suo percorso; o un sole irritato e che ha lanciato fuori dalla sua orbita una di queste lingue ignee; o una malattia proveniente dallo spazio o da una nave extraterrestre; o un’arma biologica fuori controllo che, convertita in gas inodore, trasmuta chi entra in contatto con essa e lo trasforma in politico professionale o in qualcos’altro non altrettanto terribile.

Questo, o l’apocalissi è già un fatto e un gruppo di sopravvissuti deambula senza speranza, introiettando la barbarie esterne nel suo comportamento individuale e collettivo, mentre l’umanità agonizza.

Il finale può variare, però la costante è il gruppo di scienziati, sia come responsabili della catastrofe, sia come speranza di salvezza, chiaro, se un ragazzo o ragazza bella appare al momento opportuno.

O lo svolgimento può fungere da interrogativo, o da modello “dark frustato” (José Alfredo Jiménez ci aveva già avvisato del fatto che “la vita non vale niente”).

Bene, prendiamo come esempio qualsiasi racconto, film o serie televisiva a tema apocalittico o catastrofico. Diciamo una con un tema alla moda: zombie.

Un esempio concreto, la serie televisiva “The Walking Dead”. Per chi non la conosce l’argomento è semplice: per qualche causa indefinita, le persone che muoiono si “trasformano” in zombie; il protagonista deambula, si scontra con un gruppo, stabiliscono un’organizzazione gerarchica in continua crisi, e cercano di sopravvivere. Il successo della serie potrebbe attribuirsi al fatto che mostra persone che in situazioni normali sono mediocri o paria, e si trasformano in eroine ed eroi disposti a tutto. Alcunei di loro:

Michonne, una casalinga annichilita dal marito e dai fratelli, trasformata in una temibile guerriera con katana (interpretata dall’attrice e drammaturga Danai Jekesal Gurira e, non è per farvi invidia, é l’unica della quale do il vero nome perché nel baule lasciato dal SupMarcos ho trovato una sua foto nei panni di Michonne, dedicata al defunto di suo pugno e autografata, ¡arrrrroz con leche!).

Daril, un paria manipolato, trasformato in un “tracker” balestriere temibile. Fino ad ora, il simbolo della renitenza, la resistenza e la ribellione.

Glenn, un fattorino che consegna pizza diventato esploratore famoso. Il milleusi e mille vite della serie, fino a che Rickman ritornò al comic.

Maggie, una giovane alla quale l’apocalisse zombie salva dalla via monotona della fattoria e la trasforma in leader anche se incinta.

Carol, una moglie maltrattata, trasfigurata nella versione femminile di Rambo, però intelligente.

Carl, un adolescente che, dietro una benda, nasconde la personalità di un serial killer, come ben dedusse Negan.

Eugene, il nerd che simbolizza la scienza e passa, da mitomane, ad utile per il collettivo.

Padre Gabriel, il religioso calcolatore e opportunista che si converte e diventa utile.

Tara y Aaron, la lesbica e il gay che assicurano che la trama sia politicamente corretta.

Rosita, il mio sogno umido preferito, la latina che mischia passione, abilità e coraggio.

Morgan, il sopravvissuto in stile monaco shaolín.

Sasha, la donna che muta dal ruolo classico romantico a quello della sopravvissuta realista.

E, nella parte alta della gerarchia, il malconcio simbolo dell’ordine, Rick, un ex agente che difficilmente può occultare le inclinazioni fasciste di qualsiasi poliziotto.

Non so a quale stagione siano arrivati. Dalla quinta smisi di vederla perché il películero che mi inviava le edizioni alternative fu colpito dalla giustizia, e chi sa dov’è (la qual cosa è un dispiacere, perché mi aveva promesso fino alla 10a stagione, anche se nemmeno Kirkman sa se ci sarà una decima stagione). Però, grazie a quello che sono riuscito a vedere, posso rendermi conto del motivo del suo successo.

Volendo, non è difficile seguire la trama, basta ricercare gli spoliers che si pubblicano su twitter nei rispettivi hashtags.

Alcune lune fa, chiesi ad una compagna che cosa sarebbe successo se Rick, o qualsiasi altro del gruppo, avesse saputo anticipatamente che sarebbe successo quello che successe. Scelgo il poliziotto perché sembra che sia l’unico che ha garantita la sopravvivenza, al meno nell’omonimo comic.

Rick si sarebbe preparato? Avrebbe costruito un bunker e accumulato al suo interno alimenti, medicine, combustibile, armi, munizioni, l’opera completa di George Romero?

O magari avrebbe cercato di fermare il disastro?

La compagna zapatista, alla fine, mi rispose con la stessa domanda: cosa pensavo che avrebbe fatto Rick Grimes?

Non dubitai nel risponderle: niente. Anche sapendo quello che sarebbe successo, né Rick né qualsiasi altro dei personaggi avrebbero fatto niente.

E questo per una semplice ragione: nonostante tutti gli indizi, avrebbero continuato a pensare, fino all’ultimo minuto, che non sarebbe successo niente di male, che non era così grave, che qualcuno in un dato momento avrebbe avuto la soluzione, che l’ordine si sarebbe ristabilito, che ci sarebbe stato a chi obbedire e a chi comandare, che, in ogni caso, la disgrazia avrebbe interessato altri, in altri posti, lontani per geografie o lontani per posizione sociale.

Penserebbero fino alla vigilia che la disgrazia è qualcosa destinato, non ad essi, esse, essie, ma a chi sopravvive in basso… e a sinistra.

Zombie a parte, nella maggioranza di queste narrazioni apocalittiche, ci sono uno o vari momenti nei quali qualcuno, invariabilmente il o la protagonista, quando tutti sono circondati da un’orda di zombie, o il meteorite è a poca distanza dalle loro teste, o una situazione limite simile, con serietà e compostezza dice: “Tutto andrà bene”.

E risulta che, in questo incontro, a me è toccato l’ingrato compito del guastafeste. Cosicché devo dirvi quello che stiamo vedendo: No, non è un film di fantascienza, bensì la realtà; e no, non tutto andrà bene, solo alcune poche cose andranno bene se prima non ci prepariamo.

Secondo le nostre analisi (e finora non abbiamo visto nessuno né niente che lo confuti, anzi, lo confermate), siamo già nel mezzo di una crisi che, in termini colloquiali significa, imperio della violenza criminale, catastrofi naturali, carestia e disoccupazione sfrenata, scarsità di servizi basilari, collasso energetico, migrazioni, fame, malattie, distruzione, morte, disperazione, angustia, terrore, disperazione.

In sintesi: disumanizzazione.

È in corso un crimine. Il più grande, brutale e crudele nella breve storia dell’umanità.

Il criminale è un sistema disposto a tutto: il capitalismo.

In termini apocalittici: è una lotta tra l’umanità ed il sistema, tra la vita e la morte.

La seconda opzione, quella della morte, non ve la raccomando.

Meglio che non moriate. Non vi conviene. Credetemi, io ne so qualcosa a riguardo perché sono morto varie volte.

È molto noioso. Visto che gli ingressi al paradiso ed all’inferno soffrono di una pesante burocrazia (anche se non tanto quanto quelle delle università e centri di ricerca), l’attesa è peggiore che in un aeroporto o in una stazione di autobus in dicembre.

L’inferno idem, devi organizzare incontri di arte, scienze esatte e naturali, di scienze sociali, di popoli originari, e cose ugualmente terribili. Ti obbligano a lavarti e pettinarti. Ti iniettano e ti forzano a mangiare zuppa di zucca tutto il tempo. Devi ascoltare Peña Nieto e Donald Trump in una conferenza stampa infinita.

Il paradiso, da parte sua, è uguale, solo che qui devi sorbirti il coro monotono di alcuni angeli scoloriti, e tutti la tirano per le lunghe se vuoi parlare con dio per lamentarti della musica.

Riassumendo: dite no alla morte e sì alla vita.

Però non ingannatevi.

Bisognerà lottare tutti i giorni, a tutte le ore e in ogni luogo.

In questa lotta, prima o poi, vi renderete conto del fatto che solo collettivamente avrete la possibilità di trionfare.

Ed anche così, vedrete che avrete bisogno anche delle arti, e che avrete bisogno anche di noi, e di altri, altre, altroe come noi.

Organizzatevi.

Come zapatisti che siamo non solo vi chiediamo che non abbandoniate il vostro lavoro scientifico, vi domandiamo di continuare in esso, di approfondirlo.

Continuate ad esplorare questo e altri mondi, non fermatevi, non disperate, non arrendetevi, non vendetevi, non claudicate.

Però vi chiediamo anche di cercare le arti. Anche se sembra il contrario, esse “chiariranno” il vostro fare scientifico in ciò che avete in comune: l’umanità.

Godete della danza in qualsiasi delle sue forme. Magari all’inizio non potrete evitare di classificare i movimenti secondo leggi fisiche, ma poi sentirete, punto.

Andate oltre la geometria, la teoria del colore e la neurologia, e godete della pittura e della scultura.

Resistete alla tentazione di trovare una logica scientifica a tale poesia, tale racconto e lasciate che le parole vi rivelino galassie che vivono solo nell’arte.

Arrendetevi di fronte alla mancanza di rigore scientifico nelle storie che nel teatro e nel cinema si affacciano sull’umano imperfetto, volubile e imprevedibile.

E così con tutte le arti.

Adesso immaginatevi che non è la vostra quotidianità, bensì queste arti quelle che sono in pericolo di estinzione.

Immaginate persone, non statistiche, uomini, donne, bambini, anziani, con un viso, una storia, una cultura, minacciata di annichilimento.

Vedetevi in questi specchi.

Comprendete che non si tratta di lottare per loro o al loro posto, bensì con esse.

Vedete voi stesse, voi stessi, come vi vediamo noi, zapatist@s.

La scienza non è il vostro limite, il vostro peso morto, il vostro inutile incarico, l’attività che dovete esercitare nella clandestinità o nascondendosi nei postriboli delle accademie e degli istituti.

Comprendete ora quello che noi abbiamo già compreso: che, come scienziate e scienziati, voi lottate por l’umanità, e cioè, per la vita.

-*-

Ieri ci spiegava il Subcomandante Moisés, che i popoli originari sono già, e lo sono da decenni, nostri maestri, nostri tutori. Che l’interesse per le scienze è nuovo per lo zapatismo. Che è stato stimolato dalle nuove generazioni, per le giovani e i giovani zapatisti che vogliono sapere di più e meglio come funziona e com'è fatto il mondo. Che dai popoli organizzati è arrivata la nuovissima spinta che ci ha portato a stare di fronte a voi.

Quello che forse non conoscete, è quello che vi racconterò di seguito:

Anche nel disporci per affrontare la morte, abbiamo fin dall’inizio avuto la preoccupazione per la vita.

Quelli che hanno qualche anno in più, o maggior interesse nonostante l’età, possono conoscere quello che è stato il sollevamento: la presa dei 7 capoluoghi municipali, i bombardamenti, gli scontri con le forze militari, la disperazione del governo nel vedere che non potevano sconfiggerci, l’insurrezione civile che lo ha obbligato a fermarsi, quello che è seguito in questi quasi 23 anni.

Quello che forse non conoscete, è quello che sto per raccontare:

Ci siamo preparati a uccidere e morire, questo lo ha già ricordato il Subcomandante Insurgente Moisés. Allora avevamo due opzioni di fronte: il paese si incendiava o si annichiliva. Immaginate la nostra sorpresa quando non è successa né l’una né l’altra cosa, però, questa è un’altra storia per la quale magari ci sarà occasione di parlare.

Due opzioni, però avevano entrambe come comune denominatore la morte e la distruzione. Anche se non ci credete, la prima cosa che abbiamo fatto è stata prepararci a vivere.

E non mi riferisco a quelli che hanno combattuto, a quelli la cui conoscenza di resistenza e materiali ci sono serviti per prendere vestiti e coperte durante i combattimenti e i bombardamenti, o alle competenze che hanno permesso a le insurgenti di salute di salvare la vita di decine di zapatist@.

Parlo delle basi di appoggio zapatiste, quelle a cui, come ha spiegato l’altra sera il Subcomandante Insurgente Moisés, dobbiamo il cammino, il passo, la via e la destinazione come zaptisti@, così come dobbiamo loro l’interesse per le arti, le scienze, e lo sforzo per coinvolgerci insieme a lavoratori delle campagne e delle città, l’avamposto di lotta, di resistenza e ribellione che si chiama “Sexta”.

Pochi anni prima di quel primo gennaio apparentemente già lontano, nelle comunità zapatiste si sono formati i cosiddetti “battaglioni di riserva”.

La missione che venne affidata loro era la più importante del gigantesco operativo che portò al combattimento migliaia di combattent@: sopravvivere.

Nei mesi gli è stata data istruzione. Migliaia di bambini, bambine, donne, uomini e anziani si addestrarono per proteggersi dai proiettili e dalle bombe, per riunirsi e ripiegare in ordine in caso in cui l’esercito attaccasse o bombardasse i villaggi, per collocare scorte di cibo, acqua e medicine che gli permisero sopravvivere sulle montagne durante tanto tempo.

“Non morire” era l’unico ordine che dovevano rispettare.

Quello che avevamo noi, che uscimmo a combattere, era: “Non arrendersi, non vendersi, non rinunciare”.

Quando tornammo sulle montagne e ci ricongiungemmo con le nostre popolazioni, unimmo i due ordini e li convertimmo in uno solo: “lottare per costruire la nostra libertà”.

E ci mettemmo d’accordo per farlo con tutte, con tutti, con tuttie.

E ricordiamo che, se non era possibile farlo in questo mondo, allora avremmo avuto un altro mondo, uno più grande, migliore, un mondo dove ci sia spazio per tutti i mondi possibili, quello che c’è e che ancora non avevamo immaginato ma che già esiste nelle arti e nelle scienze.

Molte Grazie.

Da CIDECI-Università della Terra

SupGaleano.

Messico, dicembre 2016.

Dal quaderno di Appunti del Gatto-Cane

“La Carenza”

Stavo nella mia baracca, rivedendo e analizzando alcuni video delle giocate di Maradona e di Messi.

“Come se fosse una premonizione, arrivò rotolando un pallone fino a dentro. Dietro di esso arrivò “Difesa Zapatista”, entrando senza avvisare né chiedere il permesso. Dietro della bambina, entrò il già menzionato gatto-cane.

“Difesa Zapatista” prese il pallone e si avvicinò a guardare da sopra la mia schiena. Io ero troppo occupato cercando di evitare che il gatto-cane si mangiasse il mouse del computer, così non mi resi conto che la bambina stava guardando con interesse i video.

“Hey Sup”, mi disse, “tu pensi che siano super bravi Maradona e Messi?”

Io non risposi. Per esperienza so che le domande di Difesa Zapatista o sono retoriche, o non le interessa sapere cosa le rispondo.

Lei continuò:

“Però non lo stai vedendo dal lato giusto”, disse, “per quanto riguarda l’arte e la scienza, i due hanno una grande carenza”.

Si, disse così: “carenza”. Io allora la interruppi e le domandai. “E tu da dove l’hai tirata fuori questa parola o dove l’hai imparata?”.

Mi rispose indignata: “me l’ha detta il Pedrito, il maledetto. Mi ha detto che non potrei giocare a calcio perché le bambine hanno una carenza di tecnica”.

“Io mi infuriai e gli diedi uno schiaffo, perché non sapevo che cosa significa questa parola e chi lo sapeva se era una parolaccia. Chiaro, quel gran maledetto di Pedrito mi accusò con la promotrice dell’educazione e mi chiamarono. Io le spiegai alla maestra come chi parla della situazione nazionale e internazionale, di questa stronza della Idra e tutto il resto. E siccome la promotrice comprese che dobbiamo appoggiarci in quanto donne, non mi sgridarono, però mi misero a cercare che cosa significa la parola “carenza”. E io allora ho pensato che era meglio questo castigo che se mi avessero mandato a mangiare zuppa di zucca”.

Annuii comprensivo, mentre cercavo di rimuovere il mouse dalla bocca del gatto-cane.

“infine sono andata a cercare sull’internet della Giunta di Buon Governo cos’è la ” carenza” e ho visto che è una canzone di musicisti di lotta, che è bella allegra e che tutti si mettono a ballare e saltare come dove ci sono le formiche arriere. Sono quindi andata con la promotrice dell’educazione e le ho detto che “carenza” è una canzone che dice: “Al mattino mi alzo, non ho voglia di andare a studiare”. La promotrice si è messa a ridere e ha detto “sarà a lavorare”. Le ho quindi detto che le canzoni sono secondo i gusti di ognuno e in base ai problemi che hanno. Vale a dire che le ho dato la spiegazione politica, ma credo che lei non l’abbia capita, perché si limitava a ridere. E poi mi hanno mandato indietro, non importa la canzone, devo sapere cosa vuol dire la parola. Allora andiamo, torno e devo aspettare che chi fa la guardia alla Giunta mandi una denuncia, e sono quindi potuta entrare e vedere che la “carenza” significa che ti manca qualcosa. E sono tornata a fare un altro giro con la promotrice e gliel’ho detto, allora lei mi ha risposto che mi sono resa conto che non è maleducazione e si congratulò con me, ma visto che c’era il Pedrito ficcanaso, gli ho dato un’altro schiaffo, perché mi diceva che mi manca la tecnica. E poi la promotrice ha detto che avrebbe detto alle mie mamme che sto facendo così, quindi sono venuta a nascondermi qui, perché so che nessuno viene a trovarti.”

Ho ficcato la puya con eroismo e sono riuscito a togliergli il mouse al gatto-cane.

“Difesa Zapatista” ha continuato con la sua perorazione:

“Ma non ti preoccupare Sup, prima di entrare ho sbirciato per vedere se non stavi guardando foto di donne nude che, errrr, una volta, Sup, è da non credere, come puoi pretendere che non ti accusi con il collettivo “Come donne che siamo”? Ma ovviamente ti dico che fare così non serve a niente, perché questo significa che soffri una carenza di madri, vale a dire che, come dice il SupMoy quando si arrabbia, sei senza madre.”
Chiarisco qui che non è vero quel che dice “Difesa Zapatista”, è che stavo facendo un corso di anatomia per corrispondenza.

In ogni caso, prima che la bambina continuasse a espormi, le ho chiesto perché aveva detto che Maradona e Messi avevano una grande carenza.

Lei era già quasi sulla soglia della porta, quando mi ha risposto:

“Perché gli manca qualcosa, la cosa più importante: essere donne”.
-*-



“Un Viaggio Interstellare”

Tra il mucchio di carte e disegni che ha lasciato il defunto SupMarcos, ho trovato questo che vi leggo qui di seguito. Sono una sorta di bozza o appunti per un copione, o qualcosa del genere, di un presunto film di fantascienza. Si chiama:

“Verso dove è rivolto lo Sguardo?”

Pianeta Terra. Un anno lontano nel futuro, diciamo 2024. Tra le nuove mete turistiche, ora si può viaggiare nello spazio e fare il giro del mondo in un satellite costruito “ad hoc” per questo scopo. La navicella spaziale è una replica in scala del satellite lunare, con un grande finestrino che dà sulla Terra durante tutto il viaggio. Sul lato opposto, cioè sulla parte posteriore, c’è una specie di lucernario, della dimensione di una finestra di casa, che dà sempre sul resto della galassia. I turisti, di tutti i colori e nazionalità, si accalcano sulla finestra rivolta verso il pianeta d’origine. Fanno selfies e trasmettono in streaming a parenti e amici le immagini del mondo, “blu come un’arancia”. Ma non tutti i viaggiatori sono da quel lato. Almeno quattro persone stanno di fronte al finestrino opposto. Si sono dimenticati le loro rispettive macchine fotografiche e guardano estasiati il collage screziato di corpi celesti: la linea serpentina di luce polverosa della Via Lattea, il brillante lampo di stelle che potrebbero non esistere più, la danza frenetica degli astri e dei pianeti.

Una delle persone è un artista; non è immobile, nel suo cervello immagina note e ritmi, linee e colori, movimenti, sequenze, parole, rappresentazioni inerti o mobili; le sue mani e le sue dita si muovono involontariamente, le sue labbra balbettano parole e suoni incomprensibili, chiude e apre gli occhi continuamente. Le arti guardano quello che guardano e guardano ciò che può essere guardato.

Un’altra persona è uno scienziato; nulla del suo corpo si muove, guarda in modo fisso, non le luci e i colori vicini, ma i più lontani; nel suo cervello immagina galassie impensate, mondi inerti e pieni di vita, stelle nascenti, buchi neri insaziabili, navicelle spaziali interplanetarie senza bandiere. Le scienze guardano quello che guardano e guardano ciò che può essere guardato.

La terza persona è indigena, di piccola statura, di carnagione scura e caratteristiche ancestrali, guarda e tocca il finestrino. La sua mente e il suo corpo pesano sul materiale solido e trasparente. Nel suo cervello immagina la strada e il passo, la velocità e il ritmo; immagina una destinazione in continua evoluzione. I popoli originari guardano quello che guardano e guardano la vita che può essere creata per essere guardata.

La quarta persona è zapatista, di complessità e carnagione cambianti, guarda attraverso e tocca delicatamente con la mano il cristallo, tira fuori il suo quaderno di appunti e inizia a scrivere freneticamente. Nel suo cervello comincia a fare conti, liste di compiti, di lavori da intraprendere, traccia piani, sogna. Lo zapatismo guarda quel che guarda e guarda il mondo che sarà necessario costruire per far sì che le arti, le scienze e i popoli originari possano realizzare i loro orizzonti.

Alla fine del viaggio, mentre gli altri viaggiatori stanno comprando gli ultimi souvenirs nei negozi “duty free”, l’artista corre al suo studio, o quel che sia, in modo che il suo sguardo sia percepito da altri, altre, altrie; lo scienziato convoca immediatamente le altre e gli altri scienziati, perché ci sono teorie e formule da proporre, dimostrare, applicare; l’indigeno si riunisce con i suoi pari e racconta loro quel che ha visto, in modo che, collettivamente, lo sguardo definisca il cammino, il passo, la compagnia, il ritmo, la velocità e la destinazione.

La persona zapatista va alla propria comunità, nell’assemblea del villaggio e spiega nei dettagli tutto quello che c’è da fare per far sì che l’artista, lo scienziato e l’indigena possano viaggiare. La prima cosa che fa l’assemblea è criticare la storia o racconto o copione o qualsiasi cosa sia, perché mancano i lavoratori del campo e della città. Viene quindi proposto che una commissione scriva una lettera al defunto SupMarcos per far sì che metta nel racconto il quinto elemento, cioè il gatto-cane, che si è già mangiato il cavo internet e due USB dei Tercios Compas, e continua ad inseguire il mouse del computer, quindi meglio che ve lo portiate via; e che venga messo, come sesto elemento, anche la Sexta, perché senza la Sexta è la storia è incompleta. Una volta approvato tutto ciò, l’assemblea propone, discute, aggiunge e rimuove, pianifica le tempistiche, distribuisce i lavori, vota l’accordo generale e nomina le commissioni per ogni attività.

Prima che l’assemblea sia considerata conclusa e che tutti vadano a fare quel che gli spetta, una bambina chiede la parola.

Senza passare davanti, in piedi quasi in fondo alla casa comunale, la bambina si sforza di alzare la voce e dice: “propongo che nella lista di cose da portare, mettano una palla e una porzione di pozol”.

Il resto dell’assemblea scoppia a ridere. Il SupMoy, che sta al tavolo che coordina la riunione, incita al rispetto. Raggiunto il silenzio, il SupMoy chiede alla bambina come si chiama. La bambina risponde: “Il mio nome è Difesa Zapatista” e fa una faccia da “no pasarán, nemmeno se fossero extraterrestri”. Il SupMoy chiede quindi a Difesa Zapatista perché propone questo.

La ragazza si arrampica sulla panca di legno e afferma:

“La palla è perché, se non possono giocare, allora vadano liberamente dove vogliono andare. E la porzione di pozol è per fargli prendere “juerza” e che non svengano per la strada. E anche per far sì che laggiù, lontano, dove ci sono gli altri mondi, non si dimentichino da dove sono venuti.“

La proposta della ragazza è approvata per acclamazione.

Il SupMoy sta per dare per conclusa la riunione, quando “Difesa Zapatista” alza la manina per chiedere nuovamente la parola. Le viene concessa.

La bambina parla mentre, con un braccio, regge un pallone da calcio e, con l’altro, abbraccia un animaletto che sembra essere un cane… o un gatto, o un gatto-cane:

“Voglio solo dirvi che non abbiamo finito la squadra, ma non preoccupatevi, perché saremo di più, a breve aumenteremo, saremo di più.”

In fede.

Guau-miau.



Traduzione a cura del’Associazione Ya Basta! Milano e di 20zln

Messico - Conclusa la Seconda tappa del V Congresso Nazionale Indigeno

Splende un sole luminoso che da alla giornata una luce intensa e limpida nel Caracol di Oventik.

Nell'auditorium pieno all'inverosimile vengono letti i risultati della Consulta, che ha coinvolto 525 comunità di 43 popoli in 25 stati:  430 comunità hanno approvato la proposta lanciata durante la prima parte del V Congresso Nazionale Indigeno. 80 comunità stanno ancora continuando la consulta, che in alcune zone non è stata possibile per la situazione di violenza in cui si trovano.

Alla luce dell’approvazione nella Consulta, vengono letti gli accordi raggiunti nella seconda sessione del V Congresso CNI, svoltasi in questi giorni al Cideci, che vengono ratificati tra gli applausi.

Creare un Consiglio Indigeno di Governo con rappresentanti, uomini e donne, di tutti i popoli, tribù e nazioni originari che fanno parte del CNI.

Questo Consiglio sarà collettivo e si reggerà su sette principi: obbedire e non comandare, rappresentare e non sostituire, abbassarsi e non salire, servire e non servirsi, convincere e non vincere, costruire e non distruggere, proporre e non imporre.
Che la voce di questo Consiglio sia una donna indigena appartenente al CNI
Che questa donna sia proposta come candidata indipendente alle elezioni presidenziali nel 2018
Per creare il Consiglio Indigeno di Governo ci sarà un’Assemblea Costituente nel maggio 2017.
Allargare l’azione oltre le comunità e popoli del CNI, costruire una comunicazione indipendente, darsi momenti di organizzazione territoriale, creare una cassa comune in poche parole... organizzarsi. Questo il percorso che inizia nel paese. Cercare di sradicare ciò che divide e rafforzare i percorsi autonomi, costruire cammino comune con altri. E’ l’ora che “tremi nel suo centro la terra”.
 
Dopo le esponenti del CNI la parola passa ai famigliari di Ayotzinapa. Perché la ferita della sparizione dei 43 studenti è ancora aperta e la richiesta di verità è un impegno di tutti.

A chiudere l’assemblea arrivano le parole del SubComandante Moises a nome dell’Ezln: “avete il nostro appoggio con tutta la nostra forza...." "forse è l’ultima opportunità che questi suoli non spariscano tra tanta morte”.

Dopo l’assemblea viene offerto un pranzo a tutti coloro che sono presenti a questo atto che apre una nuova speranza per il Messico. Dal palco inizia la musica e la serata si chiude con la parata di centinaia di miliziani.

Mentre scende la notte, si riparte tutt@ verso San Cristobal, dove da oggi è ricominciato al Cideci l’ultima parte dell’Incontro che terminerà il 4 gennaio.
Ascolta tutti gli audio in Radio Zapatista


domenica 1 gennaio 2017

Messico - 29 e 30 Dicembre “L@s Zapatistas y las ConCiencias por la Humanidad”.


Sono serratissimi i tempi nelle giornate dell’Incontro “L@s Zapatistas y las ConCiencias por la Humanidad”. 

Due sessioni plenarie al giorno e poi le sessioni di approfondimento.

Dall’astronomia all’astrofisica, alla biologia, all’ecologia, alla matematica, all’informatica, gli scienziati relazionano e rispondono le domande incisive e puntuali delle 200 basi d’appoggio che sono al Cideci.

Un filo comune corre tra le tante relazioni e man mano che si va avanti la complicità reciproca cresce. E’ un dare da parte degli "scienziati", nel senso di trovare le parole per condividere le proprie conoscenze ma anche il confronto con gli zapatisti impone una riflessione sul proprio ruolo. 

La neutralità di per sé non esiste, può esistere invece la ricerca, la scienza come continua scoperta da rendere accessibile e da trasformare in pratica per il bene comune.
Una scienza che si nutre di complessità ed interazione di saperi, come si evidenzia nelle riflessioni sull’ecologia. 


Una scienza che è fatta di discontinuità, rotture e continuità ed accumulo.

Ma se le scienze di cui si discute nell’incontro sono il percorso comune da allargare e rafforzare, le scienze sono anche la base su cui il potere costruisce meccanismi di espropriazione, sfruttamento e saccheggio a cui i popoli indigeni si stanno opponendo in tutto il Messico e non solo.

Alla conclusione della giornata del 30 dicembre il Subcomandante Insurgente Moisés presenta due membri del Congreso Nacional Indígena, che nell'affrontare il tema dei "Popoli Originari e le scienze per la Vita" fanno un racconto preciso degli "specchi" che riflettono le resistenze i Messico. 


29 "specchi", 29 resistenze emblematiche contro le scienze poste al servizio degli interessi imprenditoriali, alleati con i governi centrali e locali e con il crimine organizzata.
29 luoghi che racchiudono le logiche di devastazione dell’intero paese e dei territori dove i popoli indigeni difendono la vita contro la morte.



Al Cideci sono arrivati infatti i delegati da ogni parte del Messico per continuare la discussione del V Congreso Nacional Indígena insieme agli zapatisti.
Il primo gennaio la sessione finale sarà a porte aperte nel Caracol di Oventic e lì sarà possibile conoscere il risultato della consulta, lanciata nei mesi scorsi, per costituire un Concejo Indígena de Gobierno al cui interno una donna indigena potrebbe essere la candidata indipendente per le presidenziali del 2018. 




GIORNATA DEL 29 Dicembre
Gli interventi nella plenaria di Adolfo Olea Franco, Fayez Mubarqui Guevara, Eva Jablonka, Melina Gómez Bock, Lev Jardón Borbolla, Octavio Valadez Blanco e le relazioni nelle "Pláticas de divulgación" di John Vandermeer, Carlos Román Zúñiga, Iván Domenzain del Castillo Cerecer, Alejandro Vásquez Arzola, Claudio Martínez , Grodecz Alfredo Ramírez Ovando li pioi trovare in Radio Zapatista. 





A chiudere la giornata il SupGaleano con il suo intervento “El Gato-Perro y el Apocalipsis”, che parte da un’ampia dissertazione sulla fantascienza, varie serie televisive tra cui Walking Death e gli stereotipi della salvazione dalle varie catastrofi che incombono sulla terra, di cui gli scienziati o sono causa o sono la soluzione. 

Nessuno fa niente perché pensa che la disgrazia in arrivo sia destinata ad un altro, ognuno aspetta che qualcosa o qualcuno risolva il tutto.
Ma se nella finzione i protagonisti ad un certo punto, al culmine della tensione dicono inevitabilmente "tutto va bene, tutto andrà a finire bene" oggi nella realtà non tutto sta andando bene. Viviamo in un tempo di crisi strutturale, di disumanizzazione. E’ in corso un crimine e il criminale, il sistema, è disposto a tutto. 


E’ una lotta tra la vita e la morte. E la morte non è raccomandabile per nessuno.
Per questo dobbiamo dire sì alla vita, no alla morte.
Solo in maniera collettiva c’è la possibilità di vincere. L’intervento si chiude con l’invito agli scienziati a organizzarsi, a continuare le proprie pratiche scientifiche, ad interagire con le arti. 


"Lasciate che le parole vi facciano scoprire nuove galassie", capirete che è insieme alle arti che si tratta di lottare.
"Lottare per costruire la libertà" chiude l’Alchimista, prima di passare ad una parte di racconto dedicato al Gato Perro nel suo viaggio spaziale.
Ascolta l’audio in Radio Zapatista.





GIORNATA DEL 30 Dicembre
Gli interventi in plenaria di Jesús Vergara Huerta, Gibran Mubarqui Guevara, Jérôme Leboeuf, John Vandermeer e Ivette Perfecto e le relazioni nelle "Pláticas de divulgación" di Ivette Perfecto, Yuri Nahmad Molinari, Alejo Stark, Lilia Piélago García, Juan Manuel Malda Barrera e Remy Froissart sono disponibili in Radio Zapatista

Messico - Le Arti e le Scienze nella storia del (neo) Zapatismo

Le Arti e le Scienze nella storia del (neo) Zapatismo

28 dicembre 2016

Ieri sera, vi parlavo del pasticcio interplanetario che aveva scatenato la domanda “Perché questo fiore è di questo colore, perché ha questa forma, perché ha quest’odore?"

Ok, ho esagerato con questo “interplanetario”. Dovevo dire: il pasticcio che nel microcosmo dello zapatismo provocò la domanda fatta dalla giovane Rosita al Sub Comandante Insurgente Moisés.

Anche se credo che sia evidente, non guasta chiarire che la risposta che il SubMoy dette alla ragazzina zapatista fu la stessa che, forse, non so, è probabile, è una supposizione, ha dato combustibile all’avanzamento della scienza dai suoi esordi: “Non so”.

Ora penso che, sicuramente, la giovane sapeva che questa era la risposta, però sperava che il SubMoy capisse che, dentro al fiore, c’era una domanda più grande.

Il Sub Moy, adesso lo sappiamo perché siamo qui, in questo incontro, sapeva che la risposta “Non so”, non solo non era sufficiente, bensì sarebbe stata inutile se non portava ad altre domande.

Ora lui vi racconterà quello che è, come si suol dire, il contesto della domanda… e della sua risposta.

A me adesso tocca raccontarvi brevemente qualcosa della preistoria di questa domanda e di questa risposta.

Le arti e le scienze, prima dell’inizio del sollevamento, all'interno dell’ezetaelene, avevano un universo molto ridotto e una storia breve: entrambe, scienza ed arti, avevano una motivazione, una direzione, una ragione imposta: la guerra.

Prima negli accampamenti dei guerriglieri, poi nei comandi e dopo ancora nelle comunità, le arti si limitavano alla musica, la poesia e qualcosa di disegno e pittura, tutte esclusivamente con messaggi rivoluzionari. Chiaro, non era strano che si facessero passare canzoni d’amore e disamore, corridos, rancheras e finanche qualche ballata di Juan Gabriel, però questo era nella clandestinità dentro la clandestinità.

Il cinema o la cinematografia, aveva come sala esclusiva o “vip”, la nostra immaginazione. Uno degli insurgentes ci raccontava sempre lo stesso film, però trovava il modo di modificarlo in ogni occasione, o di mischiarlo con altri. Fu così che vedemmo l’originale e vari “remake” di “Enter the Dragon”, con Bruce Lee nell’unico ruolo, perché il compa passava ore spiegandoci i movimenti e i colpi. Questo continuò fino a che, con un piccolo generatore ed un pesante ed ingombrate proiettore da 16 millimetri, vedemmo un film vietnamita che credo si chiamasse “Punto di incontro” o qualcosa del genere, e che, ovviamente, era solamente in lingua originale, cosicché con l’immaginazione gli mettevamo dei dialoghi in spagnolo e creavamo un altro film dal film originale. Non sono sicuro, però credo che questo si chiami “intervento artistico”.

Richiamo l’attenzione su di questo, perché credo che fu la prima volta che confluirono le scienze e le arti in un accampamento zapatista. E per le scienze non mi riferisco al generatore portatile ed al proiettore, bensì ai popcorn, che qualcuno ebbe benevolmente ad includere nell’invio dell’apparato e della pellicola.

Ovviamente, ci abbuffammo di popcorn al grido “mangiare oggi o morire domani”, e il giorno successivo quasi si avvera la consegna: dall’alba, con una diarrea collettiva, l’intero battaglione insurgente lasciò i paraggi come se uno stuolo di cinghiali avesse stazionato lì. Poi ci consolammo, pensando che era una dimostrazione di guerra batteriologica. Morale: fate attenzione alle consegne.

Il contatto con i villaggi ampliò questo limitato orizzonte: nelle celebrazioni, i compas stabilivano orari per il “programma culturale”, dicevano, è “per la festa”. Così, in un orario che si andò accorciando con gli anni, si declamavano poesie, si leggevano pensieri e si cantavano canzoni, tutti di lotta. Gradualmente, “la festa” andò ampliando la sua durata e qualità. In questo orario si ballava e cantava quello che era di moda in quell’epoca. Le musiche diciamo “commerciali”, a sua volta, iniziarono ad essere rimpiazzate dalla produzione locale. Prima, cambiando le parole alle canzone; successivamente componendo anche la musica.

Cambiarono i balli: dalle file, al ballo di coppia. Originalmente, nei balli dei villaggi, si facevano due file: una di donne e, di fronte, una di uomini. Questo aveva la sua ragion d’essere: con le file ben disposte delle donne, le mammine potevano controllare le loro figlie, e vedere se scappavano o se si mantenevano nell'oscillazione continua de “La del moño colorado”. Successivamente, poco a poco e dopo assemblee accalorate, si permise il ballo di coppia, anche se con il medesimo ritmo. Però la linea pesava, così era comune vedere una coppia ballare con lei che guardava da una parte e lui dal lato opposto. Il teatro o “seña” era molto sporadico. I disegni e le pitture dei periodici murali di montagna, si trasferirono alle comunità, però si mantennero i temi.

-*-

Se vi sembra che l’attività artistica era scarsa, quella scientifica era praticamente nulla (perché il libro di Isaac Asimov, che il defunto portava nello zaino non conta come scienza). Per il contatto con la natura, usavamo le conoscenze delle comunità, cioè, ci limitavamo a conoscere fatti, senza sapere la spiegazione o, spiegandoli in accordo coi racconti e leggende che circolavano nelle comunità.

Per esempio, il tempo della pioggia ed i tempi della semina. C’erano dati empirici che indicavano che stava per piovere o no, e statisticamente funzionava. Negli accampamenti di montagna, per esempio, quando le zanzare aumentavano in numero e aggressività, voleva dire che stava per piovere. Chiaro, avevamo anche barometri e altimetri, però le zanzare erano più carine. Quindi, se ci avessero chiesto qual era la relazione tra le zanzare e la pioggia, avremmo risposto “non so”, tuttavia non saremmo andati oltre, e sapevano che quello che ci competeva era mettere le coperture di plastica o accertarsi di arrivare al villaggio o all'accampamento, e non fare ricerche scientifiche.

La cosa più scientifica che si faceva era calcolare l’energia e la traiettoria del proiettile, la resistenza dei materiali (perché bisognava sapere dove proteggersi dagli spari del nemico), allineare mirini telescopici, fabbricare artefatti esplosivi, e la “navigazione terrestre” con l’uso di mappe, altimetri e il clinometro, per il quale era necessario studiare le basi della trigonometria, algebra e calcolo. Stavamo per imparare ad usare il sestante, per poterci orientare di notte, però non arrivammo a tanto. E non era necessario, perché i compas dei villaggi conoscevano così bene il terreno, che non avevano bisogno di nessuna macchina per orientarsi. E potevano “predire” fenomeni naturali a partire da altri, o da usi e costumi.

Allora il mondo era abitato da personaggi magici, come il Sombreron e Xpaquinté che percorrevano strade, sentieri, si perdevano, e sedevano con noi, negli accampamenti insurgentes delle montagne del sudest messicano.

In medicina si applicavano due metodi fondamentali. Visto che non conoscevamo l’esistenza della cura con il quarzo, il biomagnetismo o cose simili con equivalente rigore scientifico, allora ricorrevamo alla suggestione imposta o all’autosuggestione. Visto che non poche volte non avevamo medicine, ma sì avevamo la febbre, ci dicevamo e ripetevamo: “Non ho la febbre, è tutto nella mia testa”. A voi farà ridere probabilmente, però il fu SupMarcos raccontava che affrontò vari casi di salmonellosi con questo metodo, “E funzionava?”, gli chiedevamo in queste occasioni. Lui rispondeva con la sua solita modestia: “Bé, guardatemi, sono vivo e più bello che mai”. Bene, fu prima che gli dessimo morte.

Quando invece avevamo medicine, usavamo il metodo scientifico del “prova e sbaglia”. Cioè, qualcuno si ammalava, gli davamo la medicina, se non guariva, un’altra diversa, e così, fino a che lo conseguivamo o il male, sicuramente annoiato dal metodo, cedeva.

Un altro metodo scientifico di cura era il chiamato “schioppettata”. Se qualcuno aveva sintomi di una infezione, gli davamo antibiotici ad ampio spettro. Quasi sempre guariva e, chiaro, rimaneva chimicamente puro, al meno per sopravvivere fino alla prossima infezione.

Anni dopo, racconta il defunto, i trattamenti medici che prescriveva si basavano in semplice statistica: in montagna, tali e tali sintomi si curavano con tali medicinali, nel x % dei casi; se in una truppa di X numero di combattenti, tanti si ammalavano con tali sintomi, c’è la x % di probabilità di che si tratti della stessa malattia.

-*-

Un aneddoto di montagna, raccontato anni fa sempre dal defunto SupMarcos, può servire per confrontarlo con quello che ora vi mostriamo: raccontava il defunto che, in una esplorazione nel profondo della Selva Lacandona, una sezione insurgente di fanteria rimase lontana dall’accampamento base, vedendosi obbligata a pernottare senza altro riparo che le volte degli alberi e le foglie delle piante; fecero un focolare per vedere se potevano arrostire una vipera nuyaca che era l’unica preda che avevano potuto cacciare. Il SupMarcos allora non era “sup”, bensì tenente insurgente di fanteria e stava al comando di questa unità militare.

Com’era abitudine in quell’epoca, quando la notte alla fine scendeva dagli alberi e si sedeva con los insurgentes, con le ombre scendevano anche a sedersi con il fuoco ogni tipo di storia, racconti e leggende che, tra l’altro, soddisfacevano la missione di mitigare la fame ed asciugare i vestiti che il sudore e la pioggia avevano impregnato. L’allora tenente di fanteria, rimase appartato e si limitò ad ascoltare quello di cui discuteva la truppa.

Ad uno dei nuovi era successo che, camminando si allontanò dal sentiero, il contatto con le foglie della pianta chiamata La´aj, od ortica, gli aveva provocato l’orticaria ad una mano e si era gonfiata. Tra il dolorante e il lamentoso, la recluta chiese ad un altro combattente perché o cosa aveva questa pianta che faceva così tanto danno. Il veterano, sentendosi obbligato ad educare al nuovo, gli rispose: “Guarda compa, te lo dico chiaramente, questo solo dio e le foglie lo sanno”.

Forse, per tutto questo che vi racconto, il defunto SupMarcos, quando era il portavoce zapatista, abbondava e ridondava di leggende e aneddoti spesso riferiti a spiegazioni della realtà legate alla cultura ancestrale. I racconti del vecchio Antonio, per esempio.

Se il defunto era una finestra per affacciarsi allo zapatismo di allora ed ora lo è il Subcomandante Insurgente Moisés, non solo è cambiata la finestra, ma anche quello che si vede ed ascolta attraverso questa finestra. Lo zapatismo odierno nelle comunità, è quantitativamente e qualitativamente diverso, già non diciamo da 30 anni fa, ma sopratutto da quello degli ultimi 10-12 anni, che dev’essere il periodo nel quale è nata la bambina che si autodefinisce “Difesa zapatista”.

Con questo voglio dirvi che, se i bambini di 25-30 anni fa nacquero durante i preparativi del levantamiento e quelli di 15-20 anni fa nascono nella resistenza e la ribellione; quelli degli ultimi 10-15 anni nascono in un processo di autonomia già consolidato, con nuove caratteristiche, alcune delle quali, tra le quali c’è la necessità della Scienza, vi saranno presentate dal Subcomandante Insurgente Moisés, al quale cedo la parola…

Buona sera fratelli e sorelle, compagni e compagne.

La scienza di cui stiamo parlando qui, noi, gli zapatisti, vorremmo fosse una scienza per la vita. Come vi ha detto il SupGaleano, non c’è nient’altro da dire, non vi spiegherò di più, la scienza noi l’abbiamo studiata quando eravamo in montagna, durante l’addestramento. Visto che siamo riusciti ad applicare la scienza, vale a dire la guerra, l’uccidere e il morire, i nostri compagni e le nostre compagne dei villaggi, basi d’appoggio, ci hanno spiegato un altro modo di fare la guerra senza perdere i principi di quello che vogliamo. Quindi, da allora, il meglio è stato che, noi combattenti e combattente, abbiamo riconosciuto che c’era qualcosa nei nostri compagni e nelle nostre compagne, cioè i villaggi. Abbiamo quindi cominciato a imparare, abbiamo cominciato a capire che un esercito, qualunque esercito – tanto l’esercito del ricco che quello del povero che lotta – è escludente, perché non tutti gli uomini, le donne e i bambini combattono. E quel che ci hanno proposto i nostri compagni e le nostre compagne è di combattere insieme per ottenere quel che vogliamo, e ci hanno detto che le armi con le quali bisogna lottare sono la resistenza e la ribellione. La questione è che non vogliamo il mal governo, il cattivo sistema, si tratta di rifiutare ogni forma di inganno e, quindi, noi, combattenti, insorgenti, insorgente, abbiamo imparato in che modo farlo, come bisogna farlo. Quindi, noi, abbiamo capito come sia necessario lottare insieme, così come finora le comunità hanno vissuto, in comune, collettivamente. Il sistema, il mal governo, tenta di dividerci, ma non ci è ancora riuscito, le comunità si capiscono. Ad esempio, in alcune comunità ci sono vari partiti politici, o varie religioni, ma sono in una comunità. Se, in questa comunità, un pezzo di terreno è invaso da un’altra comunità, la comunità invasa si unisce immediatamente, vale a dire che si dimenticano di quel che sono, del fatto che sono divisi da vari partiti politici o da diverse religioni. È così che funziona, è così che non viene cancellato cosa significhi essere comuni, essere comunità. Da allora abbiamo cominciato a capire quel che dicevano, quel che ci hanno detto le nostre compagne e i nostri compagni, basi d’appoggio, è che dobbiamo lottare insieme. È stato dunque molto meglio di quel che avevano pensato loro, perché il combattente non è l’unico a lottare, ma tutti e tutte e, quindi, noi combattenti abbiamo cominciato a lavorare insieme a loro. Quel che è successo è stato allora che in questa lotta, in questa organizzazione, si è costruito il modo di ottenere quel che si cerca. Voglio dire che quel che hanno visto i compagni e le compagne è che bisogna mettere in pratica, nel proprio piccolo, quel che si vuole, quel che si cerca, con la propria autonomia. Con il governo autonomo dei nostri compagni e delle nostre compagne è cominciato qualcosa che non conoscevamo durante il periodo della clandestinità, della nostra preparazione. Abbiamo dunque capito che è questo il modo di pensare e di operare il cambiamento. A dire la verità, durante i 23 anni di autogoverno delle nostre comunità, non ci sono stati tanti morti da arma da fuoco, o feriti o torturati, o rapimenti rispetto a prima del ’94. In questi 23 anni, quel che ci hanno mostrato i compagni e le compagne è che c’è un’altro modo di fare guerra al sistema, senza morire né uccidere, ma per questo ci vuole organizzazione, ci vuole un accordo, ci vuole lavoro e bisogna lottare e mettere in pratica. Ora sappiamo che, con queste armi di lotta che sono la resistenza e la ribellione, il sistema non ha potuto fare nulla contro i nostri compagni e le nostre compagne. Hanno fatto di tutto per farci abbandonare, ma il sistema non ci è riuscito, perché le compagne e i compagni l’hanno vissuto per 23 anni. Per quel che loro hanno costruito, come diceva il SupGaleano, noi stessi siamo rimasti sorpresi. Non sognavamo tutto questo, non lo vedevamo. I compagni e le compagne ci sono arrivati tramite il proprio pensiero, vedendo le proprie necessità, pensando quel che è necessario fare, dopo aver ottenuto qualcosa, per migliorare, seguendo i passi per fare il bene dei nostri popoli. Quindi adesso, le stesse compagne, gli stessi compagni,verificano tra di loro, e le mamme e i papà, chiaramente, li incitano, perché non l’avevano visto. Ad esempio, ci sono compagne che sono già, non so come si dice, di quelle che aiutano i dottori, come i meccanici che, ecco qui la tua pinza, ecco il tuo martello, ecco la tua mazza, o come si chiami. Ma le compagne, ormai sono loro che aiutano il medico passandogli quel che ha bisogno durante la chirurgia che sta facendo. Sanno ormai maneggiare gli apparati per l’ultrasuono, i medici hanno detto loro che possono dire, vale a dire diagnosticare, che sanno ormai leggere cosa mostra la piastra o la foto che produce l’ultrasuono. Così, le compagne e i compagni sanno ormai maneggiare molti altri tipi di apparati, per il Papanicolau e varie altre cose per la salute, dell’area della salute, del laboratorio. Non pensavamo tutto ciò. Ora pensiamo e diciamo: in 23 anni di pallottole avremmo potuto costruire tutto questo? E la nostra risposta è che non saremmo qui, adesso, a parlare con voi, fratelli, sorelle, compagni, compagne, scienziati, scienziate. Se fossero stati 23 anni di pallottole, non ci saremmo conosciuti. Ma, grazie al vostro modo di vedere, grazie ai nostri compagni e alle nostre compagne, siamo qui a parlare con voi. Il progresso dei nostri compagni e delle nostre compagne è stato tale che, chiaramente, ha dovuto separarsi dai metodi dello sfruttatore, del capitalismo o del mal governo per creare il proprio modo di pensare la libertà, che abbiamo conquistato e cominciato a costruire a modo nostro. Quindi, è così che funziona ora la loro educazione, hanno la loro agro ecologia, la loro radio comunitaria, fanno i propri scambi di esperienze, condividono, i nostri compagni e le nostre compagne, perché quel che vogliono è la vita. Ad esempio, come ci ha detto il SupGaleano, abbiamo parlato anche con lui e condividiamo che non muoia nessuno, come nel caso di una delle domande: cuociono la placenta del bebè, o la fanno bollire, in modo da restituirgli la vita. Questo si fa, semplicemente, con la lotta, non esiste un vero studio che dimostri che è il modo migliore. Quindi, tutto questo è stato tramandato per diverse generazioni. Quel che vi diceva il SupGaleano sulla colpa del fiore è che, nell’Educazione Autonoma Zapatista, abbiamo avanzato talmente tanto che i giovani e le giovane si sono accorti di aver imparato molto. Quindi quel che è successo è che il figlio di un compa -il figlio di un compa dei Tercios Compas- ha cominciato a chiedere, ha detto a suo padre che, avendo già finito le elementari, il primo ciclo -così dicono i compagni nei villaggi- il figlio del compa gli ha detto: “papà, ho già finito la scuola, ma continuerò perché voglio imparare di più”. Il Compa Tercio, che è il padre, ha dunque detto al figlio: “vediamo, perché il secondo ciclo -vale a dire la scuola media- è ancora in fase di pianificazione; è in fase di pianificazione perché, con l’educazione che vogliamo, non imparerete cose che non servono, ma di cui c’è bisogno. È pensata per far si che impariate cose utili” ha detto il compa a suo figlio. Allora il ragazzino, intorno ai 13, 14 anni, ha detto: “papà, non pensare di mandarmi qui, al Cideci, perché lì si impara la sartoria, la calzoleria e altre cose che si possono fare qui nel Caracol, ma per farlo manca che si mettano d’accordo” ha detto il ragazzino a suo padre. Quindi il ragazzino dice che, quel che vuole imparare, è di che sostanza è fatta l’artemisia e cosa cura. E quindi il compa, con il figlio presente, voleva che gli dicessi dove e quando può imparare tutto ciò. Io gli ho detto: “vediamo, perché non lo so”. Persino io sono rimasto molto sorpreso, pensando “si potrà imparare?”. Ho quindi parlato con il SupGaleano che dice che questo spetta agli scienziati, la scienza, quelli che studiano la scienza, gli scienziati insomma. Quindi ci accorgiamo che le future generazioni vedono altre possibilità e il meglio è che stanno pensando. Quel che vi sto dicendo è che nelle comunità c’è condivisione -o come si dice- delle tre aree, vale a dire dove vanno i compagni e le compagne a scambiarsi esperienze sulle piante medicinali, tra ostetrici e levatrici, tra osteopati e osteopate. Così il ragazzino ha sentito parlare di molte piante che si dice curino questo e quello, no? Ma non si sa cosa, che sostanze contengono e dove impararlo. Quindi le compagne e i compagni dei villaggi si basano sulla pratica stessa di quel che fanno, sulle conoscenze di quel che fanno. Questo aprirà le porte a nuove esperienze, ma, allo stesso tempo, aprirà le porte ad altre necessità di voler imparare sempre di più. Quindi io credo che, ascoltando quel che viene proposto qui, tra di noi, speriamo che veniate a metterlo in pratica in un villaggio, in collettivo, i compagni e le compagne sarebbero molto contenti. In questo modo questa conoscenza sarebbe sfruttata di più. Con quel poco che hanno i compagni e le compagne… come dire… quel che viene fatto, quel che stanno costruendo i compagni e le compagne lo vedono anche altri fratelli e sorelle che non sono zapatisti. Ad esempio, negli ospedali dei compagni, gli ospedali autonomi, sono di più i fratelli partidistas (N.d.T. appartenenti ai vari partiti) ad essere operate e operati che gli zapatisti. È così che la gente non zapatista, cioè partidista come la chiamiamo noi, si rende conto che è molto meglio quel che stanno facendo gli zapatisti. Ormai dicono apertamente che è molto meglio quello che stanno facendo gli zapatisti. Ma non è solo nel campo della salute che i compagni e le compagne hanno fatto progressi, ma aiutano anche a fare politica. Orientano sul perché sono ingannati e manipolati così, sul perché sono dominati in questo modo. Quindi, se ci fosse più sostegno da parte della scienza, ci sarebbero più progressi dei compagni e delle compagne. Quel che vogliamo dirvi, allora, è che speriamo davvero di cominciare, qui e ora, con i nostri compagni e le nostre compagne dei villaggi, a vedere come fare per organizzare lezioni, laboratori, cose pratiche. Ciò che le compagne e i compagni considerano interessante e importante per affrontare la idra capitalista è la necessità di migliorare la salute e l’alimentazione, ma per questo è necessario imparare, ci vuole la scienza. I compagni e le compagne si danno da fare, come si è già detto più volte è con gli usi e i costumi, ovvero si fa la prova coltivando in un posto per vedere se ti cresce qualcosa, la zucca, o “el camote”, che è quello che cresce lì, perché non c’è uno studio scientifico lì, si tratta di quello che cresce in quel terreno e di che cosa non cresce lì. E si vive così con molta sofferenza, però se ci fosse lì una scienza, un laboratorio per esempio, lì sarebbe diverso, non è come fare delle prove ma si tratta di fare uno studio scientifico su quello che manca in quel terreno a madre natura o di quello che ti può dare in quest’altro. Quindi è così, allo stesso modo fanno degli studi anche i compagni e le compagne e che quindi siamo a questo punto. la verità è questa dell’artemisia di cui parla il ragazzino, quello che vuole sapere qual è la sostanza e che quindi da lì si è reso conto che esiste il resto, Scuole Autonome Zapatiste che hanno altre necessità rispetto a quello che vogliono apprendere i giovani.

Quindi fratelli, sorelle, compagni, compagne, coloro che abbiamo invitato con i compagni e le compagne e con cui stiamo formando un collettivo, le e gli zapatist@s come collettivo ci muoviamo e mostriamo al popolo Messicano che il popolo, il suo popolo può creare per se stesso il modo di vivere e non abbiamo bisogno di qualcuno che manipoli così la nostra ricchezza o di quelli che espropriano ciò che è nostro in quanto popolo, per questo abbiamo bisogno di stare uniti come popoli originari e con la scienza degli scienziati e la scienza degli artisti, immaginiamo, o costruiamo, o pratichiamo e dimostriamo a noi stessi che si si può fare, così come i compagni e le compagne della base di appoggio che, grazie al loro sforzo, la loro resistenza e il loro modo di pensare, di vedere e di creare, immaginare hanno dimostrato che, anche se non sanno leggere né scrivere, e anche se non hanno la padronanza della lingua spagnola, anche se nei fatti si ce l’hanno, quello che qui diciamo quindi, è che il sistema, il mal governo del Messico si è fatto da parte e stiamo praticando quello che noi pensiamo e che crediamo, pero non è solo questo, gli sfruttati, gli indigeni messicani, ma ci sono anche i fratelli e le sorelle delle compagne così come delle città. Ma per questo abbiamo bisogno di Scienza, per capire come costruiremo il mondo nuovo.

Abbiamo bisogno, c’è tanta necessità di questo come del ragazzino di cui parliamo, che essendo ragazzino sta già pensando che vuole conoscere, che vuole sapere perché è così importante la sostanza di cui è fatta l’artemisia, perché ascolta molto nel collettivo, nella condivisione che si fa con le compagne e i compagni. Quindi questo è quello che vogliamo proporvi, che quindi speriamo di unirci per creare un’ altra maniera di vivere, un’altro modo di pensare, immaginare come costruiremo un cambiamento, che cosa è veramente il cambiamento non solo di nome, né tanto meno di colore.

Questo è quello che vi possiamo offrire compagni e compagne, fratelli e sorelle.

Subcomandante Insorgente Moisés                               Subcomandante Insorgente Galeano

Traduzione a cura del’Associazione Ya Basta! Milano  e di   20zln

venerdì 30 dicembre 2016

Messico - "Las Artes y las Ciencias en la historia del (neo) Zapatismo"

Intervento alla terza giornata dell'Incontro “L@s Zapatistas y las ConCiencias por la Humanidad” presso il CIDECi - Uniterra San Cristobal Chiapas

(in attesa della traduzione in Italiano) 

del Sub comandante Galeano e del Sub comandante Moisès - "Las Artes y las Ciencias en la historia del (neo) Zapatismo" 

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!