martedì 3 gennaio 2017

Messico - Il Gatto-Perro e l'Apocalisse. SubComandante Galeano

Fantascienza.

Ricordatevi questo: fantascienza. Vedrete che, nei vostri prossimi incubi, vi aiuterà a non spaventarvi molto, o almeno a non angustiarvi inutilmente.

Probabilmente ricorderete qualche film di fantascienza. Magari qualcuna, qualcuno di voi, è stato indirizzato dalla fantascienza verso il cammino della scienza scientifica.

Io no, magari perché il mio film di fantascienza preferito è “La nave dei mostri”, con l’indimenticabile Eulalio González, “el Piporro”, la cui colonna sonora è stata ingiustamente esclusa dai premi Oscar, dai Golden Globe, o dal rinomato e locale “Pozol de Barro”. Magari ne avete sentito parlare, è un cult, secondo una di queste riviste specializzate, che nessuno legge, nemmeno quelli che le pubblicano. Se ricordate il film e/o lo vedrete, di sicuro capirete perché finì perso nelle montagne del Sudest Messicano, e non disperso nell’asfissiante rete burocratica che, almeno in Messico, affoga la ricerca scientifica.

E celebrerete anche che sia stato questo il mio film di fantascienza di riferimento, e non “2001, Odissea nello spazio” di Kubrik, o “Alien, l’ottavo passeggero” di Ridley Scott (con la tenente Rippley che rompe lo stereotipo del maschio sopravvissuto di Charlton Heston nel “Il pianeta delle scimmie”), o “Blade Runer”, anch’esso di Ridley Scott, dove la domanda “Gli androidi sognano pecore elettroniche?”, è il punto nodale.

Quindi è il “Piporro” e il suo “Estrella del Desello”, e il robot Tor innamorato di un jukebox, che dovete ringraziare per il fatto che io non stia dalla vostra parte in questo incontro.

Alla fine, filie cinefile a parte, ipotizziamo un film più o meno del genere: un’apocalisse in corso o nel passato; l’umanità intera in pericolo; prima un audace ed intrepido maschio come protagonista; dopo, da parte del femminismo innocuo, una donna, anch’essa audace ed intrepida; un gruppo di scienziati sono convocati a un’istallazione super segreta (chiaro, inevitabilmente situata nell’Unione Americana) un militare di alto grado spiega loro: devono realizzare un piano che salvi l’umanità; si realizza, però risulta che hanno bisogno di un individuo o una individua che, tra parentesi, annulli il lavoro collettivo e, all’ultimo secondo, tagli, con una pinza che compare inesplicabilmente, il cavo verde o azzurro o bianco o nero o rosso con una decisione casuale, e zás, l’umanità è salva; il gruppo di scienziati applaudono e fanno un baccano d’inferno; il ragazzo o la ragazza incontrano il vero amore; il rispettabile pubblico esce dalla sala, mentre gli imbucati controllano le poltrone per vedere se qualcuno ha dimenticato qualcosa, ancora da finire, qualche scatola di popcorn, con questo delizioso e ineguagliabile sapore di benzoato di sodio.

La catastrofe ha varie origini: un meteorite ha cambiato rotta con la stessa costanza di un politico che fa dichiarazioni sul gasolinazo; o un tornado di squali; o un pianeta sviato dal suo percorso; o un sole irritato e che ha lanciato fuori dalla sua orbita una di queste lingue ignee; o una malattia proveniente dallo spazio o da una nave extraterrestre; o un’arma biologica fuori controllo che, convertita in gas inodore, trasmuta chi entra in contatto con essa e lo trasforma in politico professionale o in qualcos’altro non altrettanto terribile.

Questo, o l’apocalissi è già un fatto e un gruppo di sopravvissuti deambula senza speranza, introiettando la barbarie esterne nel suo comportamento individuale e collettivo, mentre l’umanità agonizza.

Il finale può variare, però la costante è il gruppo di scienziati, sia come responsabili della catastrofe, sia come speranza di salvezza, chiaro, se un ragazzo o ragazza bella appare al momento opportuno.

O lo svolgimento può fungere da interrogativo, o da modello “dark frustato” (José Alfredo Jiménez ci aveva già avvisato del fatto che “la vita non vale niente”).

Bene, prendiamo come esempio qualsiasi racconto, film o serie televisiva a tema apocalittico o catastrofico. Diciamo una con un tema alla moda: zombie.

Un esempio concreto, la serie televisiva “The Walking Dead”. Per chi non la conosce l’argomento è semplice: per qualche causa indefinita, le persone che muoiono si “trasformano” in zombie; il protagonista deambula, si scontra con un gruppo, stabiliscono un’organizzazione gerarchica in continua crisi, e cercano di sopravvivere. Il successo della serie potrebbe attribuirsi al fatto che mostra persone che in situazioni normali sono mediocri o paria, e si trasformano in eroine ed eroi disposti a tutto. Alcunei di loro:

Michonne, una casalinga annichilita dal marito e dai fratelli, trasformata in una temibile guerriera con katana (interpretata dall’attrice e drammaturga Danai Jekesal Gurira e, non è per farvi invidia, é l’unica della quale do il vero nome perché nel baule lasciato dal SupMarcos ho trovato una sua foto nei panni di Michonne, dedicata al defunto di suo pugno e autografata, ¡arrrrroz con leche!).

Daril, un paria manipolato, trasformato in un “tracker” balestriere temibile. Fino ad ora, il simbolo della renitenza, la resistenza e la ribellione.

Glenn, un fattorino che consegna pizza diventato esploratore famoso. Il milleusi e mille vite della serie, fino a che Rickman ritornò al comic.

Maggie, una giovane alla quale l’apocalisse zombie salva dalla via monotona della fattoria e la trasforma in leader anche se incinta.

Carol, una moglie maltrattata, trasfigurata nella versione femminile di Rambo, però intelligente.

Carl, un adolescente che, dietro una benda, nasconde la personalità di un serial killer, come ben dedusse Negan.

Eugene, il nerd che simbolizza la scienza e passa, da mitomane, ad utile per il collettivo.

Padre Gabriel, il religioso calcolatore e opportunista che si converte e diventa utile.

Tara y Aaron, la lesbica e il gay che assicurano che la trama sia politicamente corretta.

Rosita, il mio sogno umido preferito, la latina che mischia passione, abilità e coraggio.

Morgan, il sopravvissuto in stile monaco shaolín.

Sasha, la donna che muta dal ruolo classico romantico a quello della sopravvissuta realista.

E, nella parte alta della gerarchia, il malconcio simbolo dell’ordine, Rick, un ex agente che difficilmente può occultare le inclinazioni fasciste di qualsiasi poliziotto.

Non so a quale stagione siano arrivati. Dalla quinta smisi di vederla perché il películero che mi inviava le edizioni alternative fu colpito dalla giustizia, e chi sa dov’è (la qual cosa è un dispiacere, perché mi aveva promesso fino alla 10a stagione, anche se nemmeno Kirkman sa se ci sarà una decima stagione). Però, grazie a quello che sono riuscito a vedere, posso rendermi conto del motivo del suo successo.

Volendo, non è difficile seguire la trama, basta ricercare gli spoliers che si pubblicano su twitter nei rispettivi hashtags.

Alcune lune fa, chiesi ad una compagna che cosa sarebbe successo se Rick, o qualsiasi altro del gruppo, avesse saputo anticipatamente che sarebbe successo quello che successe. Scelgo il poliziotto perché sembra che sia l’unico che ha garantita la sopravvivenza, al meno nell’omonimo comic.

Rick si sarebbe preparato? Avrebbe costruito un bunker e accumulato al suo interno alimenti, medicine, combustibile, armi, munizioni, l’opera completa di George Romero?

O magari avrebbe cercato di fermare il disastro?

La compagna zapatista, alla fine, mi rispose con la stessa domanda: cosa pensavo che avrebbe fatto Rick Grimes?

Non dubitai nel risponderle: niente. Anche sapendo quello che sarebbe successo, né Rick né qualsiasi altro dei personaggi avrebbero fatto niente.

E questo per una semplice ragione: nonostante tutti gli indizi, avrebbero continuato a pensare, fino all’ultimo minuto, che non sarebbe successo niente di male, che non era così grave, che qualcuno in un dato momento avrebbe avuto la soluzione, che l’ordine si sarebbe ristabilito, che ci sarebbe stato a chi obbedire e a chi comandare, che, in ogni caso, la disgrazia avrebbe interessato altri, in altri posti, lontani per geografie o lontani per posizione sociale.

Penserebbero fino alla vigilia che la disgrazia è qualcosa destinato, non ad essi, esse, essie, ma a chi sopravvive in basso… e a sinistra.

Zombie a parte, nella maggioranza di queste narrazioni apocalittiche, ci sono uno o vari momenti nei quali qualcuno, invariabilmente il o la protagonista, quando tutti sono circondati da un’orda di zombie, o il meteorite è a poca distanza dalle loro teste, o una situazione limite simile, con serietà e compostezza dice: “Tutto andrà bene”.

E risulta che, in questo incontro, a me è toccato l’ingrato compito del guastafeste. Cosicché devo dirvi quello che stiamo vedendo: No, non è un film di fantascienza, bensì la realtà; e no, non tutto andrà bene, solo alcune poche cose andranno bene se prima non ci prepariamo.

Secondo le nostre analisi (e finora non abbiamo visto nessuno né niente che lo confuti, anzi, lo confermate), siamo già nel mezzo di una crisi che, in termini colloquiali significa, imperio della violenza criminale, catastrofi naturali, carestia e disoccupazione sfrenata, scarsità di servizi basilari, collasso energetico, migrazioni, fame, malattie, distruzione, morte, disperazione, angustia, terrore, disperazione.

In sintesi: disumanizzazione.

È in corso un crimine. Il più grande, brutale e crudele nella breve storia dell’umanità.

Il criminale è un sistema disposto a tutto: il capitalismo.

In termini apocalittici: è una lotta tra l’umanità ed il sistema, tra la vita e la morte.

La seconda opzione, quella della morte, non ve la raccomando.

Meglio che non moriate. Non vi conviene. Credetemi, io ne so qualcosa a riguardo perché sono morto varie volte.

È molto noioso. Visto che gli ingressi al paradiso ed all’inferno soffrono di una pesante burocrazia (anche se non tanto quanto quelle delle università e centri di ricerca), l’attesa è peggiore che in un aeroporto o in una stazione di autobus in dicembre.

L’inferno idem, devi organizzare incontri di arte, scienze esatte e naturali, di scienze sociali, di popoli originari, e cose ugualmente terribili. Ti obbligano a lavarti e pettinarti. Ti iniettano e ti forzano a mangiare zuppa di zucca tutto il tempo. Devi ascoltare Peña Nieto e Donald Trump in una conferenza stampa infinita.

Il paradiso, da parte sua, è uguale, solo che qui devi sorbirti il coro monotono di alcuni angeli scoloriti, e tutti la tirano per le lunghe se vuoi parlare con dio per lamentarti della musica.

Riassumendo: dite no alla morte e sì alla vita.

Però non ingannatevi.

Bisognerà lottare tutti i giorni, a tutte le ore e in ogni luogo.

In questa lotta, prima o poi, vi renderete conto del fatto che solo collettivamente avrete la possibilità di trionfare.

Ed anche così, vedrete che avrete bisogno anche delle arti, e che avrete bisogno anche di noi, e di altri, altre, altroe come noi.

Organizzatevi.

Come zapatisti che siamo non solo vi chiediamo che non abbandoniate il vostro lavoro scientifico, vi domandiamo di continuare in esso, di approfondirlo.

Continuate ad esplorare questo e altri mondi, non fermatevi, non disperate, non arrendetevi, non vendetevi, non claudicate.

Però vi chiediamo anche di cercare le arti. Anche se sembra il contrario, esse “chiariranno” il vostro fare scientifico in ciò che avete in comune: l’umanità.

Godete della danza in qualsiasi delle sue forme. Magari all’inizio non potrete evitare di classificare i movimenti secondo leggi fisiche, ma poi sentirete, punto.

Andate oltre la geometria, la teoria del colore e la neurologia, e godete della pittura e della scultura.

Resistete alla tentazione di trovare una logica scientifica a tale poesia, tale racconto e lasciate che le parole vi rivelino galassie che vivono solo nell’arte.

Arrendetevi di fronte alla mancanza di rigore scientifico nelle storie che nel teatro e nel cinema si affacciano sull’umano imperfetto, volubile e imprevedibile.

E così con tutte le arti.

Adesso immaginatevi che non è la vostra quotidianità, bensì queste arti quelle che sono in pericolo di estinzione.

Immaginate persone, non statistiche, uomini, donne, bambini, anziani, con un viso, una storia, una cultura, minacciata di annichilimento.

Vedetevi in questi specchi.

Comprendete che non si tratta di lottare per loro o al loro posto, bensì con esse.

Vedete voi stesse, voi stessi, come vi vediamo noi, zapatist@s.

La scienza non è il vostro limite, il vostro peso morto, il vostro inutile incarico, l’attività che dovete esercitare nella clandestinità o nascondendosi nei postriboli delle accademie e degli istituti.

Comprendete ora quello che noi abbiamo già compreso: che, come scienziate e scienziati, voi lottate por l’umanità, e cioè, per la vita.

-*-

Ieri ci spiegava il Subcomandante Moisés, che i popoli originari sono già, e lo sono da decenni, nostri maestri, nostri tutori. Che l’interesse per le scienze è nuovo per lo zapatismo. Che è stato stimolato dalle nuove generazioni, per le giovani e i giovani zapatisti che vogliono sapere di più e meglio come funziona e com'è fatto il mondo. Che dai popoli organizzati è arrivata la nuovissima spinta che ci ha portato a stare di fronte a voi.

Quello che forse non conoscete, è quello che vi racconterò di seguito:

Anche nel disporci per affrontare la morte, abbiamo fin dall’inizio avuto la preoccupazione per la vita.

Quelli che hanno qualche anno in più, o maggior interesse nonostante l’età, possono conoscere quello che è stato il sollevamento: la presa dei 7 capoluoghi municipali, i bombardamenti, gli scontri con le forze militari, la disperazione del governo nel vedere che non potevano sconfiggerci, l’insurrezione civile che lo ha obbligato a fermarsi, quello che è seguito in questi quasi 23 anni.

Quello che forse non conoscete, è quello che sto per raccontare:

Ci siamo preparati a uccidere e morire, questo lo ha già ricordato il Subcomandante Insurgente Moisés. Allora avevamo due opzioni di fronte: il paese si incendiava o si annichiliva. Immaginate la nostra sorpresa quando non è successa né l’una né l’altra cosa, però, questa è un’altra storia per la quale magari ci sarà occasione di parlare.

Due opzioni, però avevano entrambe come comune denominatore la morte e la distruzione. Anche se non ci credete, la prima cosa che abbiamo fatto è stata prepararci a vivere.

E non mi riferisco a quelli che hanno combattuto, a quelli la cui conoscenza di resistenza e materiali ci sono serviti per prendere vestiti e coperte durante i combattimenti e i bombardamenti, o alle competenze che hanno permesso a le insurgenti di salute di salvare la vita di decine di zapatist@.

Parlo delle basi di appoggio zapatiste, quelle a cui, come ha spiegato l’altra sera il Subcomandante Insurgente Moisés, dobbiamo il cammino, il passo, la via e la destinazione come zaptisti@, così come dobbiamo loro l’interesse per le arti, le scienze, e lo sforzo per coinvolgerci insieme a lavoratori delle campagne e delle città, l’avamposto di lotta, di resistenza e ribellione che si chiama “Sexta”.

Pochi anni prima di quel primo gennaio apparentemente già lontano, nelle comunità zapatiste si sono formati i cosiddetti “battaglioni di riserva”.

La missione che venne affidata loro era la più importante del gigantesco operativo che portò al combattimento migliaia di combattent@: sopravvivere.

Nei mesi gli è stata data istruzione. Migliaia di bambini, bambine, donne, uomini e anziani si addestrarono per proteggersi dai proiettili e dalle bombe, per riunirsi e ripiegare in ordine in caso in cui l’esercito attaccasse o bombardasse i villaggi, per collocare scorte di cibo, acqua e medicine che gli permisero sopravvivere sulle montagne durante tanto tempo.

“Non morire” era l’unico ordine che dovevano rispettare.

Quello che avevamo noi, che uscimmo a combattere, era: “Non arrendersi, non vendersi, non rinunciare”.

Quando tornammo sulle montagne e ci ricongiungemmo con le nostre popolazioni, unimmo i due ordini e li convertimmo in uno solo: “lottare per costruire la nostra libertà”.

E ci mettemmo d’accordo per farlo con tutte, con tutti, con tuttie.

E ricordiamo che, se non era possibile farlo in questo mondo, allora avremmo avuto un altro mondo, uno più grande, migliore, un mondo dove ci sia spazio per tutti i mondi possibili, quello che c’è e che ancora non avevamo immaginato ma che già esiste nelle arti e nelle scienze.

Molte Grazie.

Da CIDECI-Università della Terra

SupGaleano.

Messico, dicembre 2016.

Dal quaderno di Appunti del Gatto-Cane

“La Carenza”

Stavo nella mia baracca, rivedendo e analizzando alcuni video delle giocate di Maradona e di Messi.

“Come se fosse una premonizione, arrivò rotolando un pallone fino a dentro. Dietro di esso arrivò “Difesa Zapatista”, entrando senza avvisare né chiedere il permesso. Dietro della bambina, entrò il già menzionato gatto-cane.

“Difesa Zapatista” prese il pallone e si avvicinò a guardare da sopra la mia schiena. Io ero troppo occupato cercando di evitare che il gatto-cane si mangiasse il mouse del computer, così non mi resi conto che la bambina stava guardando con interesse i video.

“Hey Sup”, mi disse, “tu pensi che siano super bravi Maradona e Messi?”

Io non risposi. Per esperienza so che le domande di Difesa Zapatista o sono retoriche, o non le interessa sapere cosa le rispondo.

Lei continuò:

“Però non lo stai vedendo dal lato giusto”, disse, “per quanto riguarda l’arte e la scienza, i due hanno una grande carenza”.

Si, disse così: “carenza”. Io allora la interruppi e le domandai. “E tu da dove l’hai tirata fuori questa parola o dove l’hai imparata?”.

Mi rispose indignata: “me l’ha detta il Pedrito, il maledetto. Mi ha detto che non potrei giocare a calcio perché le bambine hanno una carenza di tecnica”.

“Io mi infuriai e gli diedi uno schiaffo, perché non sapevo che cosa significa questa parola e chi lo sapeva se era una parolaccia. Chiaro, quel gran maledetto di Pedrito mi accusò con la promotrice dell’educazione e mi chiamarono. Io le spiegai alla maestra come chi parla della situazione nazionale e internazionale, di questa stronza della Idra e tutto il resto. E siccome la promotrice comprese che dobbiamo appoggiarci in quanto donne, non mi sgridarono, però mi misero a cercare che cosa significa la parola “carenza”. E io allora ho pensato che era meglio questo castigo che se mi avessero mandato a mangiare zuppa di zucca”.

Annuii comprensivo, mentre cercavo di rimuovere il mouse dalla bocca del gatto-cane.

“infine sono andata a cercare sull’internet della Giunta di Buon Governo cos’è la ” carenza” e ho visto che è una canzone di musicisti di lotta, che è bella allegra e che tutti si mettono a ballare e saltare come dove ci sono le formiche arriere. Sono quindi andata con la promotrice dell’educazione e le ho detto che “carenza” è una canzone che dice: “Al mattino mi alzo, non ho voglia di andare a studiare”. La promotrice si è messa a ridere e ha detto “sarà a lavorare”. Le ho quindi detto che le canzoni sono secondo i gusti di ognuno e in base ai problemi che hanno. Vale a dire che le ho dato la spiegazione politica, ma credo che lei non l’abbia capita, perché si limitava a ridere. E poi mi hanno mandato indietro, non importa la canzone, devo sapere cosa vuol dire la parola. Allora andiamo, torno e devo aspettare che chi fa la guardia alla Giunta mandi una denuncia, e sono quindi potuta entrare e vedere che la “carenza” significa che ti manca qualcosa. E sono tornata a fare un altro giro con la promotrice e gliel’ho detto, allora lei mi ha risposto che mi sono resa conto che non è maleducazione e si congratulò con me, ma visto che c’era il Pedrito ficcanaso, gli ho dato un’altro schiaffo, perché mi diceva che mi manca la tecnica. E poi la promotrice ha detto che avrebbe detto alle mie mamme che sto facendo così, quindi sono venuta a nascondermi qui, perché so che nessuno viene a trovarti.”

Ho ficcato la puya con eroismo e sono riuscito a togliergli il mouse al gatto-cane.

“Difesa Zapatista” ha continuato con la sua perorazione:

“Ma non ti preoccupare Sup, prima di entrare ho sbirciato per vedere se non stavi guardando foto di donne nude che, errrr, una volta, Sup, è da non credere, come puoi pretendere che non ti accusi con il collettivo “Come donne che siamo”? Ma ovviamente ti dico che fare così non serve a niente, perché questo significa che soffri una carenza di madri, vale a dire che, come dice il SupMoy quando si arrabbia, sei senza madre.”
Chiarisco qui che non è vero quel che dice “Difesa Zapatista”, è che stavo facendo un corso di anatomia per corrispondenza.

In ogni caso, prima che la bambina continuasse a espormi, le ho chiesto perché aveva detto che Maradona e Messi avevano una grande carenza.

Lei era già quasi sulla soglia della porta, quando mi ha risposto:

“Perché gli manca qualcosa, la cosa più importante: essere donne”.
-*-



“Un Viaggio Interstellare”

Tra il mucchio di carte e disegni che ha lasciato il defunto SupMarcos, ho trovato questo che vi leggo qui di seguito. Sono una sorta di bozza o appunti per un copione, o qualcosa del genere, di un presunto film di fantascienza. Si chiama:

“Verso dove è rivolto lo Sguardo?”

Pianeta Terra. Un anno lontano nel futuro, diciamo 2024. Tra le nuove mete turistiche, ora si può viaggiare nello spazio e fare il giro del mondo in un satellite costruito “ad hoc” per questo scopo. La navicella spaziale è una replica in scala del satellite lunare, con un grande finestrino che dà sulla Terra durante tutto il viaggio. Sul lato opposto, cioè sulla parte posteriore, c’è una specie di lucernario, della dimensione di una finestra di casa, che dà sempre sul resto della galassia. I turisti, di tutti i colori e nazionalità, si accalcano sulla finestra rivolta verso il pianeta d’origine. Fanno selfies e trasmettono in streaming a parenti e amici le immagini del mondo, “blu come un’arancia”. Ma non tutti i viaggiatori sono da quel lato. Almeno quattro persone stanno di fronte al finestrino opposto. Si sono dimenticati le loro rispettive macchine fotografiche e guardano estasiati il collage screziato di corpi celesti: la linea serpentina di luce polverosa della Via Lattea, il brillante lampo di stelle che potrebbero non esistere più, la danza frenetica degli astri e dei pianeti.

Una delle persone è un artista; non è immobile, nel suo cervello immagina note e ritmi, linee e colori, movimenti, sequenze, parole, rappresentazioni inerti o mobili; le sue mani e le sue dita si muovono involontariamente, le sue labbra balbettano parole e suoni incomprensibili, chiude e apre gli occhi continuamente. Le arti guardano quello che guardano e guardano ciò che può essere guardato.

Un’altra persona è uno scienziato; nulla del suo corpo si muove, guarda in modo fisso, non le luci e i colori vicini, ma i più lontani; nel suo cervello immagina galassie impensate, mondi inerti e pieni di vita, stelle nascenti, buchi neri insaziabili, navicelle spaziali interplanetarie senza bandiere. Le scienze guardano quello che guardano e guardano ciò che può essere guardato.

La terza persona è indigena, di piccola statura, di carnagione scura e caratteristiche ancestrali, guarda e tocca il finestrino. La sua mente e il suo corpo pesano sul materiale solido e trasparente. Nel suo cervello immagina la strada e il passo, la velocità e il ritmo; immagina una destinazione in continua evoluzione. I popoli originari guardano quello che guardano e guardano la vita che può essere creata per essere guardata.

La quarta persona è zapatista, di complessità e carnagione cambianti, guarda attraverso e tocca delicatamente con la mano il cristallo, tira fuori il suo quaderno di appunti e inizia a scrivere freneticamente. Nel suo cervello comincia a fare conti, liste di compiti, di lavori da intraprendere, traccia piani, sogna. Lo zapatismo guarda quel che guarda e guarda il mondo che sarà necessario costruire per far sì che le arti, le scienze e i popoli originari possano realizzare i loro orizzonti.

Alla fine del viaggio, mentre gli altri viaggiatori stanno comprando gli ultimi souvenirs nei negozi “duty free”, l’artista corre al suo studio, o quel che sia, in modo che il suo sguardo sia percepito da altri, altre, altrie; lo scienziato convoca immediatamente le altre e gli altri scienziati, perché ci sono teorie e formule da proporre, dimostrare, applicare; l’indigeno si riunisce con i suoi pari e racconta loro quel che ha visto, in modo che, collettivamente, lo sguardo definisca il cammino, il passo, la compagnia, il ritmo, la velocità e la destinazione.

La persona zapatista va alla propria comunità, nell’assemblea del villaggio e spiega nei dettagli tutto quello che c’è da fare per far sì che l’artista, lo scienziato e l’indigena possano viaggiare. La prima cosa che fa l’assemblea è criticare la storia o racconto o copione o qualsiasi cosa sia, perché mancano i lavoratori del campo e della città. Viene quindi proposto che una commissione scriva una lettera al defunto SupMarcos per far sì che metta nel racconto il quinto elemento, cioè il gatto-cane, che si è già mangiato il cavo internet e due USB dei Tercios Compas, e continua ad inseguire il mouse del computer, quindi meglio che ve lo portiate via; e che venga messo, come sesto elemento, anche la Sexta, perché senza la Sexta è la storia è incompleta. Una volta approvato tutto ciò, l’assemblea propone, discute, aggiunge e rimuove, pianifica le tempistiche, distribuisce i lavori, vota l’accordo generale e nomina le commissioni per ogni attività.

Prima che l’assemblea sia considerata conclusa e che tutti vadano a fare quel che gli spetta, una bambina chiede la parola.

Senza passare davanti, in piedi quasi in fondo alla casa comunale, la bambina si sforza di alzare la voce e dice: “propongo che nella lista di cose da portare, mettano una palla e una porzione di pozol”.

Il resto dell’assemblea scoppia a ridere. Il SupMoy, che sta al tavolo che coordina la riunione, incita al rispetto. Raggiunto il silenzio, il SupMoy chiede alla bambina come si chiama. La bambina risponde: “Il mio nome è Difesa Zapatista” e fa una faccia da “no pasarán, nemmeno se fossero extraterrestri”. Il SupMoy chiede quindi a Difesa Zapatista perché propone questo.

La ragazza si arrampica sulla panca di legno e afferma:

“La palla è perché, se non possono giocare, allora vadano liberamente dove vogliono andare. E la porzione di pozol è per fargli prendere “juerza” e che non svengano per la strada. E anche per far sì che laggiù, lontano, dove ci sono gli altri mondi, non si dimentichino da dove sono venuti.“

La proposta della ragazza è approvata per acclamazione.

Il SupMoy sta per dare per conclusa la riunione, quando “Difesa Zapatista” alza la manina per chiedere nuovamente la parola. Le viene concessa.

La bambina parla mentre, con un braccio, regge un pallone da calcio e, con l’altro, abbraccia un animaletto che sembra essere un cane… o un gatto, o un gatto-cane:

“Voglio solo dirvi che non abbiamo finito la squadra, ma non preoccupatevi, perché saremo di più, a breve aumenteremo, saremo di più.”

In fede.

Guau-miau.



Traduzione a cura del’Associazione Ya Basta! Milano e di 20zln

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!