giovedì 3 marzo 2011

Libia - Stallo somalo

Foto desertodi Giampaolo Calchi Novati
Partendo dalla constatazione - e relativa ipotesi interpretativa - che le sollevazioni nel Nord Africa giunte a un primo punto fermo sono state animate e sostanzialmente decise da una coalizione impropria fra giovani e militari, si può capire meglio perché in Libia il meccanismo si è inceppato. Sia in Tunisia che in Egitto la «piazza» ha avuto il suo epicentro nella capitale e la buona coesione nazionale e sociale ha conferito di per sé alla protesta della gioventù di Tunisi e del Cairo una rappresentanza generale. In Libia si è mossa prima Bengasi mentre Tripoli sembra ancora in mano agli uomini e alle forze di Gheddafi. La rivolta rischia di essere percepita o di diventare la «rivolta della Cirenaica» e non della Libia. In Libia l'esercito non ha la stessa funzione di surroga a livello istituzionale per la mancanza di una tradizione statale garantita o impersonata dalle forze armate.

mercoledì 2 marzo 2011

Gino Strada: “Bisognava pensarci prima. La guerra? Non si deve fare mai”

Libia - Tornado21 / 3 / 2011
L'opinione pubblica tace e le coscienze dormono, ma secondo il leader di Emergency, nonostante sia stato preso alla sprovvista, "il movimento arcobaleno reagirà"“La guerra è stupida e violenta. Ed è sempre una scelta, mai una necessità: rischia di diventarlo quando non si fa nulla per anni, anzi per decenni”. Gino Strada, fondatore di Emergency (che tra l’altro proprio in questi giorni sta lanciando il suo mensile E, in edicola dal 6 aprile), mentre arriva il via libera della comunità internazionale all’attacco contro la Libia e cominciano i primi bombardamenti, ribadisce il suo “no” deciso alla guerra come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, citando la Costituzione italiana.

Intervista di Wanda Marra
Che cosa pensa dell’intervento militare in Libia? Questo è quello che succede quando ci si trova davanti a situazioni lasciate incancrenire. L’unica cosa che auspico è che si arrivi in fretta a un cessate il fuoco. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu è molto ambigua nella formulazione: vanno adottate “tutte le misure necessarie per proteggere la popolazione civile”. Vuol dire tutto e niente.Dunque, lei è contrario? Assolutamente. Il mio punto di vista è sempre contro l’uso della forza, che non porta da nessuna parte.Ma allora bisogna stare a guardare mentre Gheddafi bombarda la sua popolazione? Sono un chirurgo. Non faccio il politico, il diplomatico, il capo di Stato. Non so in che modo si è cercato di convincere Gheddafi a cessare il fuoco. E poi le notizie che arrivano sono confuse e contraddittorie.Però, alcuni punti sembrano chiari: che Gheddafi è un dittatore, contro il quale c’è stata una rivolta popolare e che sta massacrando i civili, per esempio…Che Gheddafi sia un dittatore è molto chiaro. Che stia massacrando i civili è chiaro, ma impreciso: lo fa da anni, se non da decenni. E noi, come Italia, abbiamo contribuito, per esempio col rifornimento di armi. Se il principio è che bisogna intervenire dovunque non c’è democrazia, mi aspetto che qualcuno cominci i preparativi per bombardare il Bahrein. Che facciamo, potenzialmente bombardiamo tutto il pianeta? Sia chiaro, non ho nessuna simpatia per Gheddafi, ma non credo che l’uso della violenza attenui la violenza. Quanti dittatori ci sono in Africa? Bisogna bombardarli tutti? E poi: con questo ragionamento, la Spagna potrebbe decidere di bombardare la Sicilia perché c’è la mafia.Questo conflitto però viene percepito come intervento umanitario, più di quanto non sia accaduto, per esempio, con quelli in Afghanistan e in Iraq. Lei non crede che questo caso sia diverso da quelli?Ogni situazione è diversa dall’altra. I cervelli più alti del pianeta hanno una visione della politica che esclude la guerra. Voglio rifarmi a ciò che scrivono Einstein e Russell, non a ciò che dicono i Borghezio e i Calderoli. Sarkozy non mi sembra un grande genio dell’umanità. E dietro ci sono sempre interessi economici.Ma qual è la soluzione?A questo punto è molto difficile capire cosa si può fare. Si affrontano le questioni quando divengono insolubili. A questo punto che si può fare? Niente, trovarsi sotto le bombe. Non è possibile che si ragioni sempre in termini di “quanti aerei, quante truppe, quante bombe”. Invece, magari avremmo potuto smettere di fare affari con Gheddafi.Che cosa pensa della posizione italiana?Vorrei conoscerla. Frattini un paio di giorni fa ha detto che “il Colonnello non può essere cacciato”. Cosa vuol dire: che non si deve o non si può? Noi non abbiamo nessuna politica estera, come d’altra parte è stato ai tempi dell’Afghanistan e dell’Iraq.Salta agli occhi come questa guerra stia scoppiando senza una vera partecipazione emozionale. E senza nessuna mobilitazione pacifista. Per protestare contro l’intervento in Afghanistan ci furono manifestazioni oceaniche in tutto il mondo.A Roma eravamo tre milioni.E adesso dove sono quei tre milioni? Non è un dettaglio il fatto che le forze politiche che allora promuovevano le mobilitazioni, in Parlamento poi hanno votato per la continuazione della guerra. E, infatti, la sinistra radicale ha perso 3 milioni di voti.Ma al di là della politica, l’opinione pubblica tace. Questa guerra è arrivata inaspettata: se andrà avanti sicuramente ci sarà una mobilitazione per chiedere che si fermi il massacro.Inaspettata o no, il silenzio del movimento pacifista colpisce. Il movimento pacifista esiste e porta avanti le sue battaglie, da quella per la solidarietà, alla lotta contro la privatizzazione dell’acqua, al no agli esperimenti nucleari. E certamente si farà sentire per chiedere la fine del massacro.Dunque, secondo lei non c’è un addormentamento delle coscienze?Certo che c’è, e non potrebbe essere il contrario. Abbiamo un governo guidato da uno sporcaccione, e nessuno dice niente. Ha distrutto la giustizia, e nessuno dice niente. Sono anni che facciamo respingimenti e si incita all’odio e al razzismo. Non sono cose che passano come gocce d’acqua.
Tratto da:   Micromega

Emergency condanna la guerra in Libia

Emergency cielo21 / 3 / 2011
Ancora una volta i governanti hanno scelto la guerra. Oggi la guerra è "contro Gheddafi": ci viene presentata, ancora una volta, come umanitaria, inevitabile, necessaria.
 Nessuna guerra può essere umanitaria. La guerra è sempre stata distruzione di pezzi di umanità, uccisione di nostri simili. "La guerra umanitaria" è la più disgustosa menzogna per giustificare la guerra: ogni guerra è un crimine contro l'umanità.

Nessuna guerra è inevitabile. Le guerre appaiono alla fine inevitabili solo quando non si è fatto nulla per prevenirle. Se i governanti si impegnassero a costruire rapporti di rispetto, di equità, di solidarietà reciproca tra i popoli e gli Stati, se perseguissero politiche di disarmo e di dialogo, le situazioni di crisi potrebbero essere risolte escludendo il ricorso alla forza. Non è stato questo il caso della Libia: i nostri governanti, gli stessi che ora indicano la guerra come necessità, fino a poche settimane fa hanno finanziato, armato e sostenuto il dittatore Gheddafi e le sue continue violazioni dei diritti umani dei propri cittadini e dei migranti che attraversano il Paese.

Nessuna guerra è necessaria. La guerra è sempre una scelta, non una necessità. È la scelta disumana, criminosa e assurda di uccidere, che esalta la violenza, la diffonde, la amplifica. È la scelta dei peggiori tra gli esseri umani.

Ai governanti che vedono la guerra come unica risposta ai problemi del mondo, rivolgiamo di nuovo l'appello del 1955 di Bertrand Russell e Albert Einstein nel loro Manifesto:
 
«Questo dunque è il problema che vi presentiamo, netto, terribile e inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l'umanità dovrà rinunciare alla guerra?»

Come ha scritto il grande storico statunitense Howard Zinn: «Ricordo Einstein che in risposta ai tentativi di "umanizzare" le regole della guerra disse: "la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire". Questa profonda verità va ribadita continuamente: che queste parole si imprimano nelle nostre menti, che si diffondano ad altri, fino a diventare un mantra ripetuto in tutto il mondo, che il loro suono si faccia assordante e infine sommerga il rumore dei fucili, dei razzi e degli aerei».

Emergency è contro la guerra, contro tutte le guerre. Ce lo impongono la nostra esperienza, la nostra etica e la nostra cultura, la nostra umanità prima ancora che la nostra Costituzione.

Chiediamo che tacciano le armi e che si riprenda il dialogo, anche attraverso l'invio degli ispettori delle Nazioni Unite e di osservatori della comunità internazionale; chiediamo l'apertura immediata di un corridoio umanitario per portare assistenza alla popolazione libica.

Libia - Dall’alba della Pace alla notte della Guerra. In Italia migranti nei campi di confinamento

Libiadi Fulvio Vassallo Paleologo

21 / 3 / 2011
Gli attacchi delle forze della coalizione internazionale che stanno martellando tutta la Libia rischiano di produrre effetti diversi da quelli auspicati nella Risoluzione n.1973 delle Nazioni Unite, nella quale si stabiliva “un divieto su tutti i voli nello spazio aereo della Jamahiriya araba” al fine di proteggere i civili, perseguendosi dunque l’interesse di salvaguardare le popolazioni vittime dei “crimini contro l’umanità” commessi da Gheddafi e dalle sue forze, tra le quali un numero crescente di mercenari. Anche il Consiglio della Lega degli Stati arabi del 12 marzo 2011 aveva chiesto “l’istituzione di una zona di non volo sull’aviazione militare libica e di stabilire aree sicure in luoghi esposti al bombardamento come misura precauzionale che permette la protezione del popolo libico e cittadini stranieri che risiedono nella Giamahiria araba libica”.
Si corre adesso il rischio che l’intervento militare, assai tardivo, dopo settimane di divisioni causate dai divergenti interessi politici ed economici delle grandi potenze mondiali, non riesca a fermare i massacri delle truppe di Gheddafi già penetrate nelle città ribelli e adesso all’assalto di Bengasi e Misurata.
D’altra parte il massiccio attacco aereo su Tripoli, addirittura per colpire direttamente Gheddafi, sembra addirittura ingenuo, se non del tutto sconsiderato, perché legittima nuovamente il dittatore agli occhi del proprio popolo e di quegli stati africani che per lungo tempo lo hanno mantenuto alla presidenza dell’Unione Africana. Se le truppe, i velivoli e i carri armati di Gheddafi, andavano fermati e tenuti fuori dalla città, e se la zona di divieto di volo avrebbe dovuto essere imposta da settimane, il lancio di missili Tomahawk e Cruise verso Tripoli, con il prevedibile contorno di scudi umani e di vittime civili, rischia di delegittimare i ribelli e di consegnare l’intera regione ad una condizione di instabilità politica e militare che potrebbe mettere a rischio l’autodeterminazione dei popoli ed i processi democratici appena avviati in Tunisia ed in Egitto.
Occorre quindi che il Consiglio di Sicurezza ritorni ad esaminare con urgenza la situazione in Libia, e definisca in modo rigoroso il mandato delle forze militari della coalizione che devono intervenire per mettere in sicurezza le popolazioni civili delle città assediate dalle forze di Gheddafi. Infatti nella Risoluzione n.1973 si legge chiaramente che il Consiglio autorizza gli Stati membri che ne avevano fatto richiesta “a prendere tutte le misure necessarie, in deroga paragrafo 9 della risoluzione 1970 (2011), per proteggere i civili e aree popolate civili sotto la minaccia di un attacco in Giamahiria araba libica, tra cui Bengasi, pur escludendo una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma, su qualsiasi parte del territorio libico”. Misure necessarie anche “per far rispettare la conformità con il divieto di voli”, che sarebbero state poi sottoposte al controllo ed al riesame da parte dello stesso Consiglio di Sicurezza. I bombardamenti massicci su Tripoli, e non soltanto su installazioni militari o convogli di carri armati, rischiano di stravolgere il senso di quella risoluzione e di mettere la pietra tombale sulle speranze di rivoluzione civile che, come in tutti i paesi arabi, anche in Libia sembrava potersi affermare.
In questo quadro il ruolo giocato dall’Italia è risultato prima troppo vicino all’alleato Gheddafi, che non andava “disturbato” nella soluzione delle sue questioni interne, poi -anche troppo rapidamente- Berlusconi e il governo, con la rottura eclatante della Lega, si è allineato alle posizioni più aggressive delle potenze occidentali, addirittura fino al punto da configurare, nelle dichiarazioni del ministro della difesa La Russa, la possibilità di un intervento militare diretto. Varie ragioni avrebbero invece consigliato maggiore prudenza, anche nella concessione delle basi, sia per la collocazione geografica dell’Italia, che per i preesistenti rapporti con Gheddafi, con diversi accordi dal 2004 al 2009, contro i quali in Italia si sono battute sparute forze, e che oggi in tanti fanno finta di ignorare o di considerare carta straccia, salvo a ripescarne le parti che riguardano l’immigrazione, auspicando, comunque vada a finire, la ripresa dei respingimenti collettivi dei migranti verso la Libia.
Nel “Trattato di amicizia” firmato nel 2008 da Gheddafi e Berlusconi si prevedeva che “Le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite. Ed all’art. 4 si aggiungeva il principio di “non ingerenza negli affari interni”, con le previsioni che:
1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.
Il trattato è stato solo “sospeso” e non “denunciato” dall’Italia, come si sarebbe dovuto fare da anni, per i gravissimi abusi commessi dai libici ai danni dei migranti e degli oppositori politici. Nel quadro della Risoluzione dell’ONU n.1973, e della sua prima attuazione, l’atteggiamento interventista e bellicista del governo italiano, dopo i ritardi iniziali, rischia adesso di aggiungere altri danni sul piano internazionale. Ed è singolare come negli ultimi tempi siano state proprio l’Italia e la Francia i principali fornitori di armamenti in favore della Libia. Per queste ragioni l’Italia avrebbe fatto bene a mantenersi al di fuori dell’intervento militare deciso dalle Nazioni Unite, senza concedere le basi militari “a scatola chiusa”.
Nel frattempo, sul piano interno, le scelte del governo italiano, tra allarmi di “invasioni bibliche” e tentativi di nascondere l’inconsistenza del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, hanno reso insostenibile la situazione a Lampedusa, e stanno dimostrando come, di fronte ad una emergenza umanitaria, ancora una volta il governo Berlusconi sia capace soltanto di inviare reparti militari in missione di ordine pubblico e trattare la materia dei cd. sbarchi, in realtà salvataggi in alto mare, con i consunti strumenti della “lotta all’immigrazione clandestina”. Insomma una accoglienza dietro le sbarre o sotto la sorveglianza di pattuglioni di polizia in assetto antisommossa.
Occorre che il governo adotti al più presto un provvedimento che stabilisca la possibilità di rilasciare permessi di soggiorno per motivi umanitari o per protezione temporanea ex art. 20 del D.Lgs 286/98, nei confronti di coloro che stanno arrivando dalla Tunisia e che potrebbero presto arrivare anche dalla Libia. I migranti rinchiusi a Lampedusa devono essere evacuati con un ponte aereo e la loro accoglienza va praticata in tutte le regioni italiane, senza “campi di raccolta” come si annuncia quello di Mineo.
Le scelte del governo in materia di politica internazionale, e le modalità meramente repressive di “gestione” di un emergenza sbarchi, creata ad arte con il concentramento di diverse migliaia di profughi in luoghi simbolo come Lampedusa e Mineo, ormai sulla linea di un confine di guerra, stanno dimostrano come l’Italia sia governata da politici che badano solo al proprio vantaggio elettorale ed alla difesa di tutte le zone più ricche e di tutte le sacche di privilegio. Anche a costo di scatenare una “guerra tra poveri”, tra i migranti e le popolazioni delle aree più deboli del paese. Contro questa classe di governo, che si avvantaggia di una opposizione parlamentare sempre più debole, occorre costruire giorno per giorno nuove reti di solidarietà dal basso, aprire nuovi canali di comunicazione autogestiti e costruire soggetti politici che siano capaci di aggregare sui territori tutte le forze dell’opposizione sociale

Odissey Dawn

Odissey Dawndi Augusto Illuminati

21 / 3 / 2011
Il piccolo Satana Gheddafi, falliti incoraggiamenti e aiuti a Ben Ali e alla sua sciampista, si è dedicato con zelo feroce a soffocare la propria rivolta interna. La coalizione occidentale-saudita (Lega Araba ma non Unione Africana), il grande Satana, cerca ora di schiacciare o deformare l’intero e inarrestabile movimento che percorre tutto il Medio Oriente e il Nord Africa e lo fa proprio nel momento in cui la catastrofe giapponese segna i limiti del nucleare e rende preziose le risorse di gas e petrolio. Una nuova guerra coloniale (francese e inglesi, insieme ai sauditi, in primo piano, americani più defilati) è perfetta per cercare di riguadagnare il controllo, calmierare il gas russo, tener lontani dall’Africa i cinesi, svalorizzare energie alternative e biogas. Con il che abbiamo anche spiegato le riserve sull’intervento di Russia, Cina, Germania e Brasile. E l’Italia? Cornuta e mazziata, compromessa prima con Gheddafi e troppo tardi con i ribelli cirenaici, rischia di perdere tutti i vantaggi del passato collaborazionismo e di subire in prima linea l’impatto dei migranti, per esorcizzare il quale si era addivenuti ai più vergognosi accordi con il raìs di Tripoli. Non basteranno 8 miseri Tornado per risalire la china. Che poi il keynesismo militare (cioè la distruzione bellica in funzione anticiclica) sia uno strumento tradizionale per dilazionare la crisi economica è un vecchio espediente. Andiamo con ordine e ignorando i finti dilemmi in cui si macera la sinistra, al riparo della risoluzione 1973 Onu e di Napolitano, che sta surrogando un governo lacerato e ansimante. Ancor più trascurando i (n)eurodeliri di Repubblica che sogna una rivincita della Ue sul bushismo.
Non per teorizzare corsi e ricorsi storici, ma anche il primo cinquantenario dell’Unità d’Italia, marzo 1911, saldò la sua retorica celebrativa al fervore patriottico che accompagnò l’impresa libica dell’ottobre 1911. Lo sventolìo tricolore bi-partisan del 17 marzo sta sfociando in analoghe tentazioni, con il controcanto rissoso e provinciale di una Lega timorosa soltanto del prevedibile afflusso di nuovi disperati e asilanti sulle nostre coste. La Russa e Casini sembrano, in questo inopportuno centenario coloniale, la parodia dei concordanti impulsi nazionalisti e cattolici degli inizi Novecento, mentre purtroppo alla logica di conquista della Banca di Roma corrisponde oggi a rovescio il rischio di estromissione dal gioco di Unicredit, Finmeccanica ed Eni, compromessi con Gheddafi e scalzati dal vivace interventismo anglo-francese (ovvero di altri poli finanziari, della Total e di BP).
Anche lo scenario più ravvicinato suggerisce evidenti analogie. Il meccanismo è sempre quello: un tiranno (dalle origini rivoluzionarie) che controlla un’area strategica rilevante e risulta un ostacolo alle pretese economiche e geopolitiche occidentali e del blocco più conservatore dei paesi arabi (a guida saudita). Ieri Saddam, oggi Gheddafi. Per certi versi funzionò così per l’ex-comunista poi nazionalista serbo assatanato Milosevic in Jugoslavia. Si trae partito da odiose pratiche oppressive (i Kurdi, la Cirenaica, il Kosovo) e si esporta la democrazia bombardando e frammentando il paese. In tutti questi casi l’opposizione all’intervento egemonico “umanitario” ha dovuto prescindere da qualsiasi simpatia per una vittima politica, indifendibile –contro Gheddafi, anzi, i movimenti si erano scagliati quando era ben in auge alla corte di Berlusconi (o Berlusconi alla sua). Aggiungiamo qui che, se nella vicenda italiana il servilismo del Papi nazionale era particolarmente osceno (essendo il raìs libico il suggeritore del copione bunga bunga), non dimentichiamo che i “nobili” Blair e Sarkozy erano altrettanto ammanigliati e il secondo pare avesse pure ricevuto sostanziosi contributi elettorali. Che poi l’invio dei Mirages serva a rilanciare la campagna elettorale francese per il 2012 è di tutta evidenza, complementare alla sostituzione della filo-benalista Alliot-Marie con il rodato e bellicista Juppé e al recupero degli “umanitari” Kouchner e Bernard Henry-Lévy.
Come valutare allora questa guerra e il complesso degli effetti che scatena? E perché, a parte gli scontati temporeggiamenti dell’Onu, si è deciso di scatenarla con tanto ritardo rispetto al momenti in cui è apparso chiaro che la vicenda libica non seguiva lo stesso percorso di Tunisia ed Egitto, ma si invischiava in un conflitto tribale con palesi prospettive di separatismo territoriale (e pur minime tracce di fondamentalismo senussita)? La decisione di intervenire all’ultimo minuto, ammanettando quindi gli insorti sconfitti alla causa occidentale e saudita, è stato probabilmente dettata da due ordini di fattori: la presa d’atto, dopo il collasso delle centrali atomiche giapponesi, delle buie prospettive di una politica energetica nucleare, che ha rivalutato in automatico l’importanza del controllo sulle risorse di gas e petrolio, la paura per il diffondersi dei tumulti in tutto il mondo arabo, in particolare nello Yemen e ai margini dell’Arabia saudita (Bahrein, Oman), tanto più insidioso in quanto spesso sotto il segno di una rivolta sciita sostenuta dall’Iran. I bombardamenti sulla Libia suonano anche da ammonimento a Teheran e sono una boccata d’ossigeno per Israele. Che poi la no-fly zone sarebbe opportuna anche per Gaza e che bisognerebbe arrestare l’invasione saudita in Bahrein o le stragi nello Yemen resta, in termini geopolitici, un mero auspicio, ma pur sempre un’efficace replica al moralismo con cui la stampa italiana condisce la brutalità della guerra.
Il tardivo e ondivago sostegno italiano alla guerra (dall’iniziale «non disturbiamo Gheddafi» del compagno di merende Berlusconi e del suo Leporello Frattini alla successiva offerta delle soli basi agli ardori bombaroli del maestro di sci che ci ritroviamo agli Esteri e di La Russa per l’occasione in sahariana) rientrerebbe nella peggior tradizione nostrana del cambiar casacca, se non rivelasse alcune contraddizioni significative. La più vistosa è quella del rapporto fra Pdl e Lega; quest’ultima si è dissociata con argomentazioni demagogiche e odiose (ci rubano il petrolio –cosa vera– e ci riempiono di immigrati che il resto d’Europa non vuole prendersi), ma si è dissociata. Scegliendo, contro Inghilterra e Francia, una linea “tedesca”. Badate bene, non solo privilegiando un principio di precauzione sull’intervento, ma aderendo alla scelta di fondo della Merkel sulle energie alternative. La retromarcia di Tremonti sul nucleare è nettissima: se puntiamo sul sole e sul vento, è insensato combattere per il controllo del petrolio e ci risparmiamo le spese per lo smantellamento delle centrali atomiche e lo smaltimento delle scorie, correggendo così i confronti internazionali sui deficit e sui Pil. Per un Berlusconi sempre più inviso agli Usa e ormai aggrappato solo al “neutrale” Putin non è un bel segnale, sebbene il chiasso giapponese e libico e il clima emergenziale di guerra possano servire nel breve periodo a distrarre gli italiani dagli scandali di Arcore e dai processi. Sull’interventismo “legale” della sinistra sarebbe carità tacere, se non per rimarcare come il suo tardivo patriottismo “costituzionale” (ma l’art. 11?) torni a gravitare sull’asse anglo-americano più che tedesco –a differenza dalla guerre balcaniche– e non prometta alcuna unità interna del Pd. In realtà chi più si avvantaggia dell’eclettico consenso bi-partisan a doppia colonna sonora (Mameli e Nabucco) è il centro di Fini e Casini. Corsi e ricorsi storici, ancora: la guerra di Libia del 1911-12 fece confluire cattolici e nazionalisti e indusse Giolitti al patto Gentiloni per strappare un parziale consenso agli elettori cattolici...Ironie sempre della signora storia: allora il Banco di Roma, da lunga pezza colluso con il corrotto Giolitti, promosse la conquista della Libia, oggi, confluito in Unicredit, vede una bella presenza di capitale libico (e personale del clan Gheddafi) che orienterà le scelte future del governo...
Che fare? Lasciamo alle anime belle l’illusione che si tratti di un intervento mirato e di breve periodo. Questa è solo l’alba di una lunga Odissea. Occorrerò una mobilitazione antagonista di ampio respiro. Il no alla guerra coloniale e il sostegno agli insorgenti di Benghazi, Sana’a e del Bahrein, ai moti di Algeria e Marocco, agli oppressi in Palestina e alle contraddizioni tuttora aperte in Egitto e Tunisia, devono entrare organicamente nel discorso sullo sciopero generale del 6 maggio e sui referendum di giugno, così come una drastica revisione della politica delle quote e dei permessi di soggiorno, la più solidale accoglienza ai migranti (altro che blocco di Lampedusa, Cie e terrorismo leghista!), la definizione giuridica del diritto d’asilo e il blocco della deportazione degli asilanti nel villaggio di Mineo nonché un’effettiva estensione della cittadinanza secondo il diritto del suolo devono costituire parte integrante di una politica alternativa al governo attuale e a quelli futuri di centro-destra. Questi sono i contenuti del nostro tumulto, della risposta della costa nord a quanto avviene sulla costa sud-est del Mediterraneo. La cooperazione delle lotte contro l’intervento degli aerei e delle cannoniere, un modello moltitudinario contro la velleitaria riproposizione di logiche sovrane e coloniali, una via di uscita dalla crisi che non sia la spesa militare a perdere e il controllo delle fonti di energia.

Libia, il gran ballo degli alleati

LibiaLega Araba, Turchia, Cina e Russia si dicono scettiche sui bombardamenti che continuano.

di Christian Elia

21 / 3 / 2011
Il secondo giorno delle operazioni militari sui cieli della Libia (dibattito aperto sul nome: Odissea all'alba o Alba dell'odissea?) passa tra il frastuono delle bombe e nella bulimica ricerca di notizie dei media generalisti.
Prigionieri della propaganda. Misurata, per esempio. Durante l'avanzata furiosa delle truppe lealiste, nei giorni scorsi, la città libica era scomparsa dalle cronache, superata dal conto alla rovescia del cammino verso Bengasi capitale dei ribelli. Data per conquistata dagli uomini di Gheddafi, si scopre oggi che si combatte ancora, il governo di Tripoli la proclama oggi di nuovo conquistata. Una situazione spinosa, un ginepraio dove è difficile riconoscere la verità.
Un effetto immediato, e temuto, è la reazione della popolazione di Tripoli e, in generale, della Tripolitania. Migliaia di persone, armate nei depositi lasciati aperti dai militari di Gheddafi, sono in piazza, pronti a difendere il loro leader dall'invasione esterna. Un classico, da queste parti. Non sarà facile bombardare zone chiave, sapendo di colpire tutti, anche civili con un kalashnikov.
Un altro effetto delle bombe, previsto anche questo, è la sequela dei distinguo. Comincia la Lega Araba che, pur partecipando alla riunione di ieri di Parigi, oggi scopre di non aver votato proprio un bombardamento sulla città. Di cosa hanno discusso, allora? Hanno atteso che Amr Moussa, candidato presidente in Egitto e attuale segretario generale della Lega, andasse in bagno per votare? Non basta, arrivano anche gli scetticismi di Cina e Russia. Astenuti in Consiglio di Sicurezza e oggi scettici. Ma allora per quale motivo non hanno posto il veto quando si votava la risoluzione 1973?
Una risposta arriva dalla Turchia, da anni impegnata a ridisegnare il suo ruolo geopolitico, volto a diventare da uno stato satellite dell'Occidente un attore protagonista, ponte tra mondo islamico ed Europa. Il governo di Ankara, oggi, ha chiesto di rivedere le regole d'ingaggio.
Un bel problema, dopo soli due giorni di bombardamenti. Come se qualcuno si fosse illuso che una no fly zone sia un pranzo di gala. L'ammiraglio Mike Mullen, coordinatore del comando interforze Usa, annuncia oggi che i presupposti per l'imposizione della no fly zone sono stati già raggiunti. Finita, quindi? Evidentemente no, al punto che gli alleati sono un po' sorpresi. Come sono stati colti di sorpresa gli stessi statunitensi, bruciati sul tempo dal primo attacco francese.
Gheddafi minaccia e, intanto, gioca le carte da prestigiatore che lo hanno sempre caratterizzato. Annuncia fuoco e fiamme, ma mentre si nasconde proclama il cessate il fuoco unilaterale e chiede una riunione d'urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Puntando alle divisioni interne agli alleati, mettendoli in imbarazzo come sempre di fronte alla parola 'guerra' e sapendo che - come tutti gli interventi militari della guerra umanitaria - il diritto internazionale avrebbe moto da dire a riguardo.
Lo stesso presidente italiano Napolitano, oggi, ha dato il via al balletto delle definizioni imbarazzanti per non usare la parola 'guerra', come in un gioco di società. Il governo, nel dubbio, va alla guerra e i primi caccia bombardieri italiani muovono per prendere parte ai bombardamenti mentre un pezzo importante dell'esecutivo, la Lega Nord, rende la peggior immagine del provincialismo italiota preoccupandosi dei migranti e del suo elettorato.
Un natante italiano, intanto, è stato sequestrato da un gruppo di libici armati, dopo essere arrivati in Libia per un servizio di assistenza alle compagnie petrolifere. Nessuno sa dov'è, nessuno dove fa rotta e dove si dirige.
La sensazione è che la crisi non sarà di breve durata. La mancanza dell'opzione dell'attacco via terra rende i tempi lunghi. Anche annichilita la contraerea di Gheddafi e dei suoi mezzi d'assalto, la guerriglia sul terreno può durare mesi, pur sapendo che i ribelli - appena si saranno riorganizzati e magari verranno riarmati dagli alleati - proveranno a riprendere le posizioni perdute.
Christian Elia

Tratto da:    PeaceReporter

Italia - Comunicato dall'isola - Lampedusani e immigrati ridotti all’esasperazione dal governo italiano

LampedusaDall’Associazione culturale ASKAVUSA di Lampedusa
21 / 3 / 2011

In questi giorni a Lampedusa stiamo assistendo al più completo fallimento politico in materia di immigrazione di questo governo e alla manifestazione di uno stato di polizia che è vicino ad una dittatura militare. Quando cominciarono ad arrivare i primi ragazzi tunisini sulle coste della nostra isola, il governo invece di aprire il centro di primo soccorso e accoglienza pensò bene di fare alloggiare i migranti in strutture alberghiere, nel silenzio assoluto dell’amministrazione locale.
Quando addirittura in molti furono costretti a dormire in banchina al freddo, il ministro Maroni in tutta la sua "Cattiveria" non aprì il centro ed anche lì il silenzio delle istituzioni locali fu assordante. Quando migliaia di ragazzi tunisini furono costretti a vivere per le strade di Lampedusa, con tutta la solidarietà di noi isolani ma con nessun tipo di considerazione da parte del governo anche lì l’amministrazione locale non fu chiara. Anzi sembrò che il problema fossero i Tunisini per strada e non l’inadeguatezza delle azioni del ministro Maroni.
Quando il centro fu finalmente aperto, era ormai tardi , erano troppi i migranti sull’isola, e dunque non fu sufficiente, i ponti aerei avvenivano a singhiozzi, fino a scomparire del tutto. Ci dicono a proposito che non c’è spazio in Italia, invece su un isola di 22 km quadrati lo spazio si trova. Dopo migliaia di ragazzi tunisini per le strade, una convivenza all’inizio tranquilla, ma chi vive senza aver garantito il minimo dell’umanità è ovvio che sta male, e chi non ha più la propria vita , non per colpa dei tunisini, ma per colpa di una situazione divenuta insostenibile, situazioni igieniche precarie, barche ovunque nel porto, a fianco allo stadio locale.
Intanto chiedevamo trasferimenti più veloci, per garantire a noi e ai migranti una situazione dignitosa, ma niente, la risposta del governo, è assenza dal territorio ed imposizione delle proprie scelte con la forza.
Intanto noi lampedusani cadiamo sempre più nel nervosismo, tra visite di Borghezio e Le Pen, amici della senatrice leghista e vicesindaco dell’isola Angela Maraventano, da noi contestati e difesi dalle nostre forze dell’ordine. Ma poi difesi da cosa da qualche striscione che inneggiava alla fratellanza ? Certo questo è un crimine per il governo, bisogna avere paura degli "invasori". Tra queste visite, l’assenza del governo, l’assenza dell’amministrazione, apprendiamo che il piano del governo per l’immigrazione è fare una tendopoli a Lampedusa, questo scatena sentimenti profondi di rabbia di angoscia, di abbandono, e spingono molti di noi a occupare l’area marina protetta, e poi a fare un corteo che culminerà con l’azione di non fare attraccare la vedetta con a bordo i migranti nel porto , noi ci dissociamo da questa azione, perche crediamo che ancora il valore dell’umanità non può levarcelo nessuno, neanche un governo che vuole provocare questo, si perche la stagione turistica è compromessa, la nostra vita sull’isola è compromessa, ma la nostra umanità è la cosa più importante a cui possiamo aggrapparci ed è la cosa che non vogliamo compromettere, ma queste azioni sono dirette conseguenze di un disegno di questo governo che mira a questo: mettere i lampedusani contro i migranti, creare tensioni tra noi lampedusani, schiacciarci con la loro arroganza, quando si sa che trasferire quattromila persone per lo stato italiano dovrebbe essere semplicissimo, e se ci sono queste difficoltà, si dimettano subito perchè non si può lasciare sulle spalle di seimila persone un peso cosi grave.
Oggi poi siamo al culmine, ci siamo opposti al montaggio di una tendopoli sull’isola, facendo il blocco della nave, per molte ore, il sindaco viene a calmare gli animi e a mediare con il governo, mentre i poliziotti in assetto antisommossa sbarrano l’entrata del porto, come se i criminali fossimo noi e non questo governo, che sta commettendo crimini enormi sull’umanità, questo governo che ricatta seimila persone già allo stremo delle forze, non imbarcando il pescato dei pescatori, perchè i vigliacchi si comportano cosi, ricattano, mandano avanti le forze dell’ordine, che poi di quale ordine, in Italia non c’è più nessun tipo di ordine, abbiamo criminali al governo,incapaci e pericolosi, la Lega si fa la sua campagna elettorale sulla pelle dei lampedusani e dei migranti, VERGOGNA. Ora l’ultima è che ci faranno porto franco, basta che noi facciamo scendere le tende, questo ci dice il sindaco, il dramma è che qualcuno ancora ci crede.
In questo clima esasperato, dove l’unica presenza viva e che ha avuto un comportamento umano nei confronti della nostra comunità è il vescovo di Agrigento, dove le istituzioni si deteriorano sempre di più,dove i migranti sono tenuti come bestie,i lampedusani trattati come cittadini di seri c, dove la richiesta di collaborazione per l’accoglienza a tutta l’Italia e l’Europa cade inascoltata noi facciamo un appello a tutti coloro che non tollerano questo atteggiamento del governo nei confronti di Lampedusa e dei migranti, che liberati da una dittatura ne trovano nel paese di arrivo un’altra.
CHIEDIAMO di organizzare manifestazioni davanti al Parlamento Italiano , al Quirinale,alla Regione Sicilia, alla Provincia di Agrigento, e ovunque si possa far ascoltare il grido di due popoli che vivono lo stesso dramma che è il governo italiano.
Chiediamo inoltre le dimissioni del vicesindaco Angela Maraventano e del sindaco Bernardino De Rubeis, perchè li riteniamo anche colpevoli di questa situazione.

Associazione culturale ASKAVUSA di Lampedusa


Tratto da:   

No alla guerra - Luca Casarini sulla Libia


Trascrizione intervento
In questi momenti, in queste ore stiamo cercando di capire che significato dare alle parole.
Sulla questione della guerra in Libia la prima parola da pronunciare, a cui dobbiamo ridare un senso è l'essere “contro la guerra”.
Dobbiamo dire “no alla guerra”, sempre e comunque come dato storico , strutturale profondamente legato ad un sistema di gestione del mondo, delle relazione che ha immediatamente a che fare con la vita che ci è imposta in termini globali. La guerra non è un fatto episodico in questo mondo, è connaturata alla assenza di sovranità dei popoli, è connaturata ad un elemento autoritario di governance, è connaturata alle ingiustizie su cui questo mondo si regge.
Il “no alla guerra” è sempre e comunque, anche in questo caso della Libia.
Tutte le disquisizioni sul fatto che la “no fly zone” si fa in un maniera o nell'altra sono considerazioni che lascerei agli strateghi militari. E' abbastanza ridicolo mettersi noi a discutere se una “no fly zone è giusta se sta ad una certa altezza o è sbagliata se parte da terra”.
I fatti ci parlano di guerra, cioè un intervento militare dispiegato che ha le caratteristiche di una guerra.
Vicino al nostro “no alla guerra” dobbiamo anche saper dire che è tutto diverso rispetto alle guerre che abbiamo conosciuto.
Non è la guerra dell'Iraq, non è la guerra del Kossovo. Ci sono differenze profondissime non fosse altro che per il fatto che siamo in un mondo oggi completamente diverso dal punto di vista della crisi. Questo è il mondo della crisi strutturale delle dinamiche capitalistiche dove è messa in gioco qualsiasi ipotesi di ordini mondiali presistenti o prefigurati.
E' diversa dalla guerra in Iraq o Kossovo perchè anche l'elemento di polizia internazionale o d i guerra preventiva o di guerra umanitaria è giocato in maniera totalmente diversa a partire dal fatto, per esempio, che questa intervento non era pianificato.
Gheddafi chi era?
Gheddafi era l'uomo dell'occidente, ed in particolare dell'Italia, sia per quanto riguarda il controllo di un'area di grande produzione petrolifera sia per quanto riguarda, soprattutto, il controllo del Mediterraneo dal punto di vista del flusso dei migranti.
Il più grande alleato dell'Occidente che faceva da argine alla dinamica fondamentalista islamica, che costruiva nella tortura e nel terrore la possibilità di governare e contenere i flussi migratori, che costituiva una garanzia economica nel mercato europeo, fino al punto di fargli investire grandi quote di denaro nelle proprietà pubbliche dei vari paesi occidentali.
Ancora una volta come nel caso, in questo senso, di Saddam ci troviamo di fronte ad un elemento che era assolutamente funzionale in questo momento al meccanismo di controllo economico e politico di un'area da parte dell'Occidente.
A differenza di Saddam Hussein qui ci troviamo in una condizione in cui nessuno aveva intenzione di attaccare Gheddafi fino ad un mese fa.
La situazione che si è creata è stata prodotta, non dimentichiamolo, dalla grande rivolta popolare egiziana, tunisina che ha portato ad una rivolta popolare anche in Libia.
Una rivolta popolare legata anche a condizioni storiche precedenti e non solo al fatto che siamo in presenza di una dittatura feroce, quella del clan dei Gheddafi all'interno di un panorama libico contraddistinto da una presenza tribale precisa e storicamente determinata.
In ogni caso è questa rivolta che ha costituito le premesse per un intervento militare dell'occidente nei confronti della Libia come quello sta avvenendo.
Questo è un primo dato di differenza sostanziale con ciò che accadeva nelle guerre precedenti. Si dirà che questo è accaduto anche nella dimensione del Kossovo, ma è completamente diversa la situazione. Non si può parlare di similitudine perchè, ad esempio, se andiamo a vedere gli interessi specifici, questa guerra il governo italiano non la voleva fare. Non voleva assolutamente intervenire nella “protezione degli insorti di Bengasi” come non voleva intervenire per determinare con i mezzi militari, cioè con la guerra, un cambio della guardia nella realtà libica o la riapertura delle possibilità che dentro la Libia si determini uno scontro interno (tipo la Cirenaica che combatte contro la Tripolitania, dividendo il paese in due).
Questa riflessione è determinante: questa guerra, a cui ripeto noi dobbiamo dire di no, è piena delle contraddizioni di questa fase di crisi della dinamica capitalistica.
Ed è piena anche del modo assolutamente non prevedibile, imprevisto d'azione di un quadro di stati, che non sono nemmeno la Nato, che è diviso al suo interno per le modalità e gli interessi d'intervento.
Quelli che dicono che questa, naturalmente, è una guerra per il petrolio, io credo dimentichino che il petrolio c'era già. Il petrolio libico era garantito dalla Libia, in maniera assolutamente assicurata.
A parte la presenza dell'Eni e di tutti gli interessi economici dell'occidente, mi sembra evidente l'importanza dell'elemento della rivolta popolare, che non era scontata. La rivolta partita dall'Egitto ( ieri ci sono state milioni di persone che hanno votato per la riforma costituzionale e bisognerà vedere cosa succederà), dalla Tunisia (dove la situazione è in continua evoluzione) è un elemento importante che dimostra come l'imprevedibilità, ciò che accade determina i passaggi che vengono gestiti poi in una maniera o nell'altra.
Ed anche questi passaggi vengono gestiti in assenza di una piano strategico di lungo periodo.
Naturalmente dal nostro punto di vista ci dobbiamo opporre alla gestione in termini di guerra e non di soluzione politica, di meccanismi che allontanino gli spettri di una carneficina di civili, caratteristica delle guerre contemporanee.
Ma è anche evidente che dobbiamo dissezionare, capire che cosa sta accadendo per non imbatterci in facili soluzioni che non convincono più nessuno.
Dire che la guerra ha delle implicazioni diverse da come classicamente pensiamo è, per esempio, osservare cosa avviene nel governo italiano. Il governo italiano era riluttante rispetto alla guerra, come lo poteva essere Obama rispetto ad un intervento, mentre più decisa era la Clinton anche dentro gli Stati Uniti stessi .
Dire che il petrolio non c'entra niente è sbagliato perchè questa guerra avviene nel pieno della crisi nucleare e guarda caso i paesi più produttori di energia nucleare hanno interesse il più possibile a garantirsi le fonti petrolifere. Ma dire che è solo per questo o è legato solo a questo, significa tratteggiare una dimensione organizzata di imperialismo o neo-imperialismo, che io credo sia insufficiente, sia sbagliato.
Siamo in presenza anche del fatto che gli accadimenti vanno dall'alto al basso e si mescolano.
Si mescolano anche all'interno della crisi globale di governance, di un progetto “unitario” del mondo dal punto di vista capitalistico.
Si mescolano con la crisi nucleare.
Si mescolano con il problema dei flussi migratorio. Un problema sempre più grande per un'Europa che non vuole fare i conti con una realtà diseguale che spinge ad un meccanismo di esodo. Un Europa che finchè poteva spingere l'arrivo di migliaia di uomini e donne nel riassorbimento delle dinamiche del mercato del lavoro lo gestiva in una certa maniera ma che invece oggi è ancora più preoccupata vista la sua caratteristica di fortezza dei possibili arrivi.
Questi elementi sono presenti ed anche nuovi in un quadro di crisi.
Questa guerra illustra il fatto che c'è un'assenza di possibilità e di protagonismo della politica in Europa. La guerra è il segnale che l'unico mezzo politico che si conosce o che viene praticato facilmente dagli stati e dai governi è quello militare.
C'è un'assenza di progetto politico in Europa. Si vorrebbe costruire l'Europa solo a partire dagli strumenti che possono essere usati in termini concreti: uno è la guerra, l'altro è la dinamica monetaria. Ma anche su quest'ultimo aspetto vediamo come tutto scricchiola all'interno della crisi finanziaria. Siamo in presenza di un Europa che tenta di costruire se stessa solo attraverso la guerra a cui noi dobbiamo opporci costruendo un'Europa che parla di soluzioni politiche e di alternative a quello che stiamo producendo. Dico producendo perchè Gheddafi è un prodotto interamente occidentale. Gheddafi nasce come ci hanno spiegato gli storici dentro un meccanismo post-coloniale ma l'utilizzo di un dittatore sanguinario come lui è stato fatto, soprattutto, negli ultimi anni in una chiave che è quella degli interessi occidentali. Una chiave che ha a che fare, per esempio, con il grande ruolo di Finmeccanica all'interno del quadro libico. In questo momento i missili occidentali stanno bombardando postazioni militari interamente di marca Finmeccanica. Su questo ci sono reportage ben documentati. Questo per dire che non è tutto prodotto della Cia, che peraltro appartiene ad un paese che è in grande difficoltà sia interna che esterna dal punto di vista internazionale. Se si dice che tutto è un grande disegno della Cia bisognerebbe leggere i reportage da Bengasi per capire quale è la realtà sotto assedio, sotto i bombardamenti e dove la gente è insorta e vuole l'autonomia da Tripoli, vuole la possibilità di decidere per sé stessa. Tutto questo è accaduto, sta accadendo.
Tutto questo apre dei grandi interrogativi perchè come abbiamo detto anche nei nostri appelli precedenti siamo contro i dittatori che sparano sulla folla che vuole democrazia come succede in Yemen, come succedeva in Egitto, in Tunisia, in Libia ma siamo anche contro la guerra come unica soluzione per creare la democrazia, perchè diventa ovviamente un'altra cosa.
E' evidente che dentro questo meccanismo c'entra il petrolio, la crisi nucleare ..
Quando è la guerra a decidere c'entra dentro tutto quello che noi conosciamo.
Dobbiamo costruire la nostra risposta in maniera diversa, sapendo che il quadro è completamente diverso da quello che abbiamo conosciuto fino ad adesso.
Le cose succedono e cambiano giorno per giorno.
Lo dimostra anche la questione nucleare. Chi mai avrebbe detto quindici giorni fa, che saremmo stati di fronte alla più grande crisi nucleare mai conosciuta anche dal punto di vista delle scelte strategiche dei piani energetici?
Stiamo parlando di un elemento imprevisto che però accade e non stiamo parlando degli tsunami. Dentro questa crisi qualsiasi cosa accade può determinare un cambiamento rapidissimo e un sommovimento enorme. In assenza di una dinamica strutturale di tenuta può succedere di tutto. Come può succedere di tutto in questo momento nella dimensione libica. Adesso mentre sto parlando dicono che si sono fermati i bombardamenti e potrebbe succedere che si apra una soluzione o che, avendo di fronte un pazzo sanguinario instabile, si apra l'ecatombe.
Questo nostro “no alla guerra” è storicamente determinato, perchè sappiamo che la guerra non può essere altro che una risposta data da un mondo sbagliato ai suoi problemi e che non può aprire prospettive positive.
Ma qual'è il nostro “no alla guerra”, che cosa possiamo declinare immediatamente, che cosa possiamo fare?
Dobbiamo stare qui una volta detto “no alla guerra” ad intervenire su quali sono le strategie militari migliori fatte dagli stati? Dobbiamo stare qui a vedere che cosa significa tecnicamente dire guerra o appoggio in difesa di una città? O dobbiamo preoccuparci di quale è il nostro ruolo, di quello che manca?
Questa guerra è stata fatta anche perchè nell'opinione pubblica non c'è possibilità di dare un'appoggio a un dittatore come Gheddafi . Ma quello che manca è che non si parla dell'elemento che è stato preso in ostaggio. E' stato preso in ostaggio il corpo e le vite di migliaia e migliaia di profughi di guerra che vengono dalla Tunisia, dal Maghreb e che vengono e verranno dalla Libia. Vengono presi in ostaggio da una dimensione che è quella di Lampedusa e poi dei campi di concentramento come quello di Mineo.
Credo che questo elemento dell'asilo politico europeo sia il nostro “no alla guerra”.
Sul piano concreto dobbiamo, anche a partire dalla prossima assemblea del 25 a Roma sullo sciopero, creare una sinergia immediata di riflessione perchè lo sciopero significa costruire un opposizione sociale per i diritti per la democrazia in questo paese che deve confrontarsi con quello che sta succedendo in Libia ed anche in Giappone. Sono cose correlate e bisogna costruire un'articolazione, un discorso .
Dentro questo quadro il nostro “no alla guerra” non può che declinarsi con il fatto che dobbiamo costruire azioni di massa di disobbedienza sociale e di azione concreta per tirare fuori i profughi e i richiedenti asilo da posti chiusi, per consentire loro di andare in Europa, dove vogliono.
Io credo che questo, come è stato fatto in termini di indicazione anche al Cie di Bologna , sia oggi l'indicazione del “no alla guerra”.
Non c'è bisogno di manifestazioni che difendano l'esistente in Libia o fare manifestazioni per dire “no alla guerra” senza dare risposte a chi si trova a Bengasi.
Io credo che oggi quello che possiamo fare e che restringe lo spazio della guerra, affermando una democrazia concreta, sia l'allargamento dell'asilo politico. Dobbiamo andare in Sicilia, fare una grande manifestazione a Mineo per tirare fuori la gente, portarla in Francia, in Germania.
Azioni che puntino a violare le frontiere.
Dobbiamo forzare l'elemento dell'asilo politico europeo rispetto a quello che accade in Egitto, in Libia, in Yemen.
Il quadro in cui ci muoviamo è quello della crisi che produce eventi imprevedibili.
Pensiamo anche al Giappone. Tsunami ne accadevano anche nel passato, ma non c'era il nucleare.. ma questo non è l'imprevisto. L'imprevisto è che non c'è una risposta possibile. Non è possibile riassorbire gli effetti in un piano strutturale di tenuta. Oggi si può mettere in discussione il nucleare ovunque, come dimostra il cambiamento repentino delle posizioni non solo europee ma anche del governo italiano o di personaggi come Veronesi.
Tutto questo ci fa dire che gli scenari sono aperti e possono essere agiti dal basso, come è successo nel Maghreb.
Siamo passati dai baciamano ai bombardamenti a Gheddafi. Ma questo perchè c'è stata la rivolta, se la popolazione libica non si ribellava non c'era il problema della guerra a Gheddafi, che era comprabile, comprato e funzionale. Quello che sta succedendo anche in Italia va poi letto anche con le dinamiche interne delle scontro contro Berlusconi se no come si spiega l'accanimento della sinistra contro Gheddafi che peraltro aveva buone relazioni anche sotto il governo Prodi? Gheddafi era un dittatore anche prima, quando è stato contestato alla Sapienza e quando già era utile per fermare i migranti.
Dobbiamo declinare il nostro “no alla guerra” in una forma matura, adeguata al momento.
“No alla guerra” significa porsi il problema della produzioni di armi in questo nostro paese. Un tema che riguarda anche migliaia di operai che ci lavorano dentro.
Dobbiamo cogliere il problema del nucleare anche per costruire una pratica per l'alterativa energetica. Non possiamo semplicemente affidarci ad una catastrofe, dobbiamo rovesciare la Shock Economy per dire che è ora di praticare un alternativa energetica. Il che vuol dire appoggiare i lavoratori dei settori della produzione alternativa di energia contro i tagli degli incentivi.
Dobbiamo noi stessi diventare produttori di energia all'interno dei nostri spazi occupati e liberati.
Oltre che vincere la battaglia contro il nucleare, dobbiamo già praticare l'alternativa al petrolio oltre che la messa in mora del nucleare.
In questo quadro anche il “no alla guerra” come dicevo deve porsi il problema dei profughi,.
Faccio un appello a tutti quelli che stanno dicendo “no alla guerra” per discutere come attaccare dal punto di vista civile i campi di concentramento e forzare le frontiere europee. Sono migliaia di persone che non possono essere trattate come un incidente di percorso da contenere.

Palestina - Il 15 marzo sarà la giornata della riconciliazione

I giovani palestinesi non sono insensibili al profumo di gelsomini che arriva dai paesi arabi in rivolta. Mentre negli altri paesi la mobilitazione è cominciata con i giorni della collera, in Palestina i giovani affidano la speranza di portare in piazza pacificamente la popolazione alla giornata della riconciliazione. La divisione tra il governo di Gaza gestito da Hamas e quello cisgiordano và avanti da ormai 4 anni, paralizzando ogni aspetto della vita istituzionale e delegittimando tutte le parti nel momento di trattare con la controparte israeliana. Una situazione inaccettabile agli occhi dei palestinesi. Mentre i giovani Tunisini, Yemeniti. Egiziani, nel Baherin sfilavano al motto “al shaab iurid isqat al nizam” (il popolo vuole la fine del regime), il 15 marzo i palestinesi di Cisgiordania, Gaza e quelli della diaspora andranno sotto agli edifici istituzionali e le rappresentanze diplomatiche palestinesi con lo slogan “al shaab yurid inhaa al inqisam”  (il popolo vuole la fine delle divisioni). Noi abbiamo raggiunto telefonicamente Assad Saftawy, un giovane attivista di Gaza tra i promotori della giornata della riconciliazione:

Honduras - Dichiarazione dei popoli della terra e del mare



DICHIARAZIONE DEI POPOLI DELLA TERRA E DEL MARE
"MARTIRI DI SAN JUAN"
Noi uomini e donne dei popoli indigeni e neri dell’Honduras: Pech, Tawahka, Chorti, Tolupanes, Lencas, Miskitu, Creoles e Garínagu, provenienti dalla terra e dal mare, autoconvocati nella comunità di San Juan Durugubuti, Tela, Atlantida, nei giorni 20, 21, 22, 23 e 24 febbraio 2011, per unire i nostri pensieri, sentimenti, parole ed insediare la nostra assemblea plurinazionale costituente e multiculturale, emaniamo la seguente dichiarazione:

Oman - Sei morti nelle proteste contro il sultanato

Non si fermano le proteste nel sultanato dell'Oman per chiedere riforme democratiche.




Almeno duemila persone sono scese in piazza per la seconda volta in pochi giorni nella città portuale di Sohar. I manifestanti hanno incediato alcuni uffici del ministero del Lavoro e una sede della polizia. Secondo alcune fonti i morti sarebbero sei. Mentre le autorità sostengono ci sia solo una vittima.

Parte della penisola arabica, in Oman le proteste sono rare. Nel paese vige il potere assoluto del sultano, solido alleato nella regione degli Stati Uniti.

Libia - Il dramma nel dramma: i migranti africani in Libia


Deserto LibiaC’è un dramma particolare nella tragedia libica. Si svolge in silenzio, lontano dalle telecamere e dalle equazioni politiche consumate tra le cancellerie occidentali e il Consiglio di sicurezza dell’Onu. È il dramma di migliaia di migranti africani rimasti bloccati nel paese nordafricano dal crollo del regime di Gheddafi. Secondo l’emittente panaraba Al Jazeera, sono decine i migranti morti, uccisi tanto dagli oppositori del regime quanto dalle forze ancora legate al colonnello Gheddafi e al suo clan. I primi sospettano indistintamente tutti i non libici di far parte dei famigerati reparti di mercenari che sarebbero stati lanciati contro le manifestazioni anti-regime. Le forze legate a Gheddafi, invece, sparano sui migranti o li abbandonano nei campi in mezzo al deserto dove sono stati ammassati, in alcuni casi per anni, a causa del blocco costiero delle partenze verso l’Europa. Tra i migranti presi a bersaglio dalle due parti in lotta, ci sono migliaia di lavoratori impiegati in diversi settori produttivi del paese, dall’industria petrolifera alle costruzioni, abbandonati dalle aziende di sub-appalto che li avevano fatti arrivare in Libia.

martedì 1 marzo 2011

Tragica ipocrisia

Libia di Alessandra Mecozzi
20 / 3 / 2011
Ancora una volta, con tragica ipocrisia, la retorica umanitaria viene usata per coprire una nuova guerra imposta dall’occidente contro la popolazione di un paese arabo, la Libia, in cui da settimane ad una rivolta popolare il governo di Gheddafi risponde con bombardamenti e stragi, senza che ci siano stati atti da parte della comunità internazionale volti a metter loro fine.
La risoluzione delle Nazioni Unite che formalmente pone al primo posto il cessate il fuoco e la difesa della popolazione civile, è non solo tardiva, ma apre la strada all’intervento militare – sotto la pressione di Governi interventisti come la Francia e la Gran Bretagna, vogliosi di intervenire militarmente e conquistarsi una presenza nell’area.
Pedissequamente e irragionevolmente il governo italiano, mollato dalla Lega, che teme l’«invasione» dei profughi, ma sostenuto dalla opposizione,  si lancia in una avventura bellica, dopo aver per anni fornito a quel Governo – oggi esecrato – ossequi, affari e grandi quantitativi di armi.
Parlare di difesa dei diritti umani dei libici, attraverso interventi militari che quasi inevitabilmente data la natura del conflitto armato in corso, supereranno la sola interdizione dello spazio aereo, mentre i diritti umani di migliaia di migranti sono da giorni calpestati nell’isola di Lampedusa, è grottesco e offensivo, in primo luogo per la popolazione di quell’isola, oggi esposta anche alla paura di possibili rappresaglie dalla Libia, e di tutto il nostro paese.
La marcia delle «rivoluzioni della dignità» arabe, in cerca di democrazia, libertà e giustizia sociale, una grande speranza del mondo, avrebbe meritatoe meriterebbe dall’Europa, dalla Comunità internazionale tutta, ben altra attenzione, sostegno intelligente e strumenti di intervento, per poter avanzare.
Non ce ne sono tracce, mentre la rivolta si estende in Medio Oriente.
Le rivolte popolari che in queste ore sono sanguinosamente represse in altri paesi mediorientali, come Yemen, Bahrein, Siria, come quelle che hanno pacificamente portato, pur con un prezzo di sangue, alla caduta dei regimi di Tunisia ed Egitto, rischiano di essere o definitivamente e sanguinosamente stroncate o bloccate, dalla «soluzione militare» del processo in Libia.
Si poteva fare diversamente? Sì, la strumentazione e l’iniziativa diplomatica e politica, insieme a quella umanitaria, potevano – e vorremmo augurarci che ancora possano – imprimere un andamento diverso alla iniziativa della comunità internazionale. Non ci si è neanche provato. L’Unione Europea ancora una volta non è stata in grado di svolgere alcun ruolo, e già i caccia francesi sorvolano i cieli della Libia, dopo che il governo Sarkozy ha fornito costosissimi aerei da guerra al colonnello Gheddafi (con i quali ha bombardato la sua popolazione), come quello italiano -, maggior fornitore di armi alla Libia -, che rulla i tamburi di guerra, appellandosi agli «interessi nazionali»; la Germania ha scelto sensatamente di astenersi.
La società civile italiana ed europea, i movimenti per la pace e per i diritti, che seguono e appoggiano la crescita e diffusione dei movimenti per la democrazia nella sponda sud del Mediterraneo hanno di fronte la responsabilità di mettere in opera tutte le iniziative possibili, una vera strategia politica, affinché quel processo possa continuare a svolgersi e restare nelle mani di coloro che lo hanno avviato. In primo luogo opporsi agli interventi militari, come quello che oggi si prefigura sulla Libia.

Alessandra Mecozzi Ufficio internazionale della Fiom-Cgil

Libia - L 'angoscia di Bengasi

Bengasi
Le esplosioni cominciano alle prime luci dell'alba. Botti in lontananza, dalla parte ovest della città. Continui, martellanti. Fumo nero che si alza. E poi i colpi, secchi, della contraerea. Bengasi si sveglia sotto assedio. Le truppe di Gheddafi sono subito fuori città. Nonostante il cessate-il-fuoco dichiarato urbi et orbi dal ministro degli esteri Moussa Koussa, i soldati lealisti sono avanzati e hanno cominciato a colpire con i razzi dalla parte sud-ovest. Sono arrivati da Ajdabiya, avanzando velocemente sulla strada della costa. «Non abbiamo intenzione di entrare a Bengasi», avevano affermato vari alti papaveri del regime solo l'altroieri.
Eccoli invece in città. Si avvicinano. L'esercito dei rivoluzionari del 17 febbraio alza le barricate. Risponde al fuoco. Fischiano razzi e contraerea. Andiamo a vedere. Facciamo un paio di chilometri. Vicino al fronte un miliziano ci fa segno di no. L'autista fa marcia indietro. Subito dopo si sente un colpo secco di razzo, vicinissimo. Scatta la contraerea. Fuggiamo sgommando a tutta velocità.
Nel cielo volteggia un aereo. Vola dalla stessa parte del mare. Le mitragliatrici entrano in azione. Lo colpiscono. Il velivolo va a fuoco e precipita. Il pilota si lancia con il paracadute. Dalla strada si levano grida di giubilo: "Allah Akbar", Dio è grande. Più tardi si scoprirà che era un mezzo dei ribelli di ritorno da una ricognizione. Secondo fonti del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), il governo messo in piedi a Bengasi dopo la rivolta del 17 febbraio, nel corso della giornata due aerei dei "giovani rivoluzionari" sono precipitati: uno è quello che abbiamo visto, colpito da fuoco amico, un altro sarebbe invece caduto per un problema al motore.
Le strade si riempiono di gente che fugge a est, verso la frontiera egiziana. Scappano come possono. In macchina, con i bagagli accatastati sul tetto. In furgoncino. In taxi. Vanno a casa di amici o di familiari. Alcuni dicono che vanno in Egitto. Il prezzo di un taxi collettivo per Tobruk, l'ultima città prima della frontiera egiziana, è schizzato da 70 a 250 dinari (da 35 a 125 euro). La città si svuota: i negozi chiudono. E' difficile anche trovare da mangiare.
Gli insorti si preparano alla battaglia finale: si schierano dietro trincee improvvisate. Preparano bottiglie molotov. Si fanno forza a vicenda. Ma il morale è basso. Solo verso mezzogiorno, c'è una fiammata di entusiasmo. I combattenti cominciano a girare per le strade strombazzando. "Li abbiamo respinti. Sono andati via". "Si sono ritirati a trenta chilometri dalla città". "No, a cinquanta". "Cosa dici? Si sono stabilizzati a dodici chilometri". Le notizie e le smentite si rincorrono. Non si capisce più nulla. I giovani rivoluzionari festeggiano inseguendo le voci di una vittoria che nessuno in realtà è in grado di confermare. Sparano in aria con il kalashnikov. Dicono di aver catturato due carri armati dell'esercito lealista e di averne bruciati altri tre. Ma l'impressione è esattamente opposta: il regime sta tornando. Gheddafi lo aveva detto: "Saremo spietati". "Vi troveremo". "Zenga, zenga, dar, dar", "Strada per strada, casa per casa". I rivoluzionari dicono che stanno vincendo. Ma gli abitanti di Bengasi se ne vanno, temendo la repressione del colonnello.
All'ospedale Jala, vicino al centro, ci sono decine di morti stesi per terra. "Sono ventisei", dice un infermiere. "E centinaia di feriti". Nella battaglia di Bengasi, nei tre ospedali della città sono arrivati settanta morti. Tre cadaveri carbonizzati giacciono sul suolo. Un uomo ha il dito alzato, l'espressione sospesa, quasi fosse stato investito improvvisamente da una grande fiammata. Un altro è un ammasso di carne e interiora, non ha più fattezze umane. E' chiuso in un sacco. In una stanza accanto, i cadaveri in condizioni migliori vengono lavati e messi in un lenzuolo, come prevede il rito musulmano. Un ragazzo ha un enorme buco dove prima c'era l'occhio sinistro. Un altro ha una ferita sul petto, con schizzi di sangue dappertutto che un ragazzo pulisce con una precisione certosina. C'è una confusione incredibile. "Ma che fanno gli occidentali. Quando arrivano?", grida un uomo sulla quarantina, appena entrato all'ospedale.
Un infermiere apre una cella frigorifera. Un lezzo nauseante si sparge per la stanza. L'odore acre della morte vecchia di almeno tre giorni. Dentro, ci sono quattro uomini. "Sono i miliziani di Gheddafi. Sono africani". Hanno effettivamente la pelle nera e i tratti dei sub-sahariani, anche se è difficile stabilire con certezza che non siano libici del sud. Li tengono lì per mostrarli ai pochissimi giornalisti rimasti in città. Per dimostrare che Gheddafi è isolato e che per sparare sul suo popolo può solo usare mercenari.
I cadaveri nel lenzuolo vengono portati fuori. Sono messi in bare di legno e portati via su diversi pick up. Vengono sparati colpi di kalashnikov in onore di ogni shahid, ogni martire della battaglia di Bengasi. All'interno dell'ospedale, ci sono decine di uomini armati. Arrivano ambulanze e feriti in macchina.
Un medico egiziano che è stato nei quartieri bombardati descrive scene raccapriccianti. I morti sono per lo più civili colpiti nelle loro case. In piccole bare, giacciono due bambini di circa dieci anni. Un uomo con il mitra piange in un angolo. "E' il padre?". Non risponde e va via. "Se entrano qui, faranno come ad Ajdabiya", dice sempre il medico egiziano. "Hanno sparato ovunque, senza pietà. Cecchini e soldati. Sono andati strada per strada, casa per casa. Zenga zenga, dar dar". Il bilancio del macello di Ajdabiya, secondo il dottore, sarebbe di 800 morti.
Alla piazza del Tribunale il morale è in caduta libera. Pochissime persone. Solo gli irriducibili. L'atmosfera festosa che c'era 24 ore prima si è trasformata in puro terrore. Dentro il palazzo non c'è anima viva. I membri del consiglio nazionale transitorio non ci sono. Sono tutti in località protette. Dalla facciata dell'edificio è scomparsa l'enorme bandiera della Francia che campeggiava fino a l'altroieri. "Che fine ha fatto?". "Fra un po' la rimettiamo", dicono alcuni signori. "La Francia è nostra amica". Ma intanto l'hanno levata. Aspettano i bombardamenti. Se non dovessero arrivare, gli amati francesi - e la comunità internazionale tutta - saranno i principali traditori del popolo libico, quelli che hanno abbandonato Bengasi al suo destino e alla vendetta spietata promessa dal colonnello Gheddafi.
Ashor Zgogo, uno studente di ingegneria che nei giorni scorsi passava le sue giornate al tribunale, è solo di fronte al Palazzo. Ha lo sguardo spento. "Tutto andrà per il meglio", dice con voce afona, gli occhi pietrificati. "La situazione sul terreno è a nostro vantaggio. Li abbiamo scacciati", ripete in modo meccanico, visibilmente sotto shock per quello che è successo nella mattina e per quello che potrebbe succedere nelle prossime ore. "Ci vediamo domani, ma stai attento", dice con un guizzo di vitalità, prima di ripiombare nel suo stato catatonico.
La televisione di stato libica annuncia che l'ex ministro degli interni di Tripoli, Abdelfattah Younis, passato con i ribelli dopo il 17 febbraio, è tornato all'ovile e ha ripreso le sue funzioni. Al Arabiya e Al Jazeera mandano in onda un'intervista telefonica in cui l'interessato smentisce. Accanto alla guerra sul terreno, sempre più vicina e sempre più pesante, continua a combattersi la guerra dell'informazione. Secondo notizie non confermate, un giornalista della tv irachena Al Hurriya sarebbe stato ucciso da un cecchino. "Era un libico. Lo hanno colpito apposta perché diffondeva la verità", dicono in piazza. Nulla si può verificare. I telefoni sono spenti completamente ormai da due giorni.
Nel pomeriggio la città è vuota. Le truppe di Gheddafi hanno interrotto l'attacco. Forse si sono ritirati, come sostengono gli insorti. Forse hanno ripiegato per colpire di nuovo più tardi, magari nel corso della notte. Ci sono barricate ovunque. Ognuno sembra rispondere per sé. Alcuni miliziani sono amichevoli. Altri un po' più aggressivi. Si sentono ogni tanto spari di kalashnikov, da tutte le parti. Si sparge la voce che uomini di Gheddafi in città, quelli della "Lijan Thauria", i cosiddetti "comitati della rivoluzione" creati dal colonnello in tutta la Libia, siano in strada e sparino all'impazzata sui passanti. Si diffonde il panico. Chi è rimasto, guarda la tv e ascolta la radio. Molti chiedono: "Che ora è a Parigi?". "Quando arrivano?". Il tramonto cala su una Bengasi deserta e spettrale, che aspetta una sola cosa: i bombardamenti degli occidentali. "Se non vengono, siamo finiti", dice un signore sulla cinquantina, l'aria visibilmente preoccupata. Un altro lo guarda negli occhi e gli punta il dito sul petto. "Non c'è nulla da temere. Fra poco arrivano, insh'allah".


Libia - La battaglia di Benghazi

Libia Bengasidi Gabriele Del Grande

Il prossimo da portare via è Mohamed Said Mahdi. L'hanno appena lavato. Il corpo è avvolto in un lenzuolo bianco dalla vita in giù. I capelli sono ancora bagnati. Un infermiere gli passa con cura per un ultima volta un batuffolo di cotone inumidito sul volto. L'occhio sinistro non c'è più. Gli hanno sparato in faccia. E un altro colpo sul fianco, al cuore. Aveva 24 anni ed è la vittima numero 70 di oggi. La guerra è arrivata a Benghazi. E l'ospedale Jala è il miglior punto d'osservazione per capire quello che sta succedendo alle porte della città. La camera mortuaria è affollatissima. Arrivano i parenti a riconoscere i propri morti, i ragazzi della piazza a farsi coraggio e i venti giornalisti rimasti in città a filmare la scena del massacro. Gli infermieri sono pochissimi. La maggior parte sono volontari, gente comune venuta a dare una mano. Ahmed El Fituri è uno di loro. Ha 33 anni e indossa un camice azzurro sopra la mimetica. I guanti di lattice sono sporchi di sangue. Ha appena finito di sistemare la salma di Hussein Salah El Barasi nella sacca da morto. L'esplosione di una granata gli ha distrutto completamente la faccia. Era un volontario della città di Beida. Faccio fatica a sopportare la vista di questa carneficina. Ma qualcuno bisogna pure che veda e che racconti. E allora dico a El Fituri che sì, che apra pure la cerniera dei quattro sacchi verdi. Sono i ragazzi bruciati vivi dagli missili Rpg e dai Katiuscia sparati questa mattina dai lanciarazzi delle milizie di Gheddafi. Sono carbonizzati. Potrebbero essere scambiati per un tronco d'albero. Irriconoscibili. A fianco c'è una cassa di legno di un metro, piene di cenere. Dice Fituri che è quello che resta di altri due martiri. Nessuno conosce il loro nome. Improvvisamente mi rendo conto di quanto è forte l'odore di morte che si respira qua dentro. Molti volontari hanno le mascherine. Fituri apre le celle frigorifero e mi mostra altri due corpi. Questi però sono dei mercenari di Gheddafi. In totale oggi ne hanno portati qui all'ospedale 12. Sono sia libici che stranieri, addosso non gli hanno trovato documenti, dalla faccia si direbbero dell'Africa occidentale, ma nessuno può dirlo con certezza. Alcuni hanno un completo militare, altri portano vestiti normali, jeans e maglietta. Sette di loro sono buttati a terra dietro una grata, con un foglio bianco addosso su cui c'è scritto “identità sconosciuta”. Mentre gli scatto una foto, improvvisamente fuori qualcuno si mette a sparare all'impazzata. È una raffica di colpi. Non faccio in tempo a capire cosa stia succedendo, che sento una mano sulla spalla. È Fituri, l'infermiere, che mi dice di stare tranquillo, che non c'è nessun pericolo, il nemico è lontano, sono spari in aria. Sparano per rendere onore a Abdallah Abdel Hakim Gergir. È avvolto in un lenzuolo bianco dentro una cassa aperta di legno. I parenti l'hanno appena caricata sul pickup. Aveva 26 anni, il funerale è fissato per domani. Mentre la macchina lo porta via, la folla lo accompagna gridando a pieni polmoni: “allahu akbar! la ilaha illa allah!”. Dio è grande, e non c'è altro dio all'infuori di allah! Appoggiato alla ringhiera all'ingresso dell'ospedale, un ragazzo singhiozza e porta le mani al viso per asciugarsi le lacrime. Chi passa lo consola. Per Benghazi è il momento del dolore ma anche della rabbia e del panico. Le milizie di Gheddafi non si erano mai spinte così vicino alla città. Ma la voce di un attacco imminente girava già da ieri sera. In piazza parlavano tutti di tre aerei militari atterrati a Sebha con centinaia di mercenari pronti a aggirare il fronte di Ijdabiya, occupare Qimenes, e da lì puntare dritto alla periferia di Benghazi. L'attacco è cominciato all'alba. Hanno sparato all'impazzata fino a mezzogiorno, usando l'artiglieria pesante, con decine di lanciarazzi e carri armati. Di aerei invece non se ne sono visti. Gli unici due che si sono levati in volo erano dell'armata rivoluzionaria. Uno è esploso in aria per un problema al motore. E l'altro è stato abbattuto per errore dal fuoco amico. Quando siamo usciti, verso le nove, per andarlo a fotografare, siamo stati costretti a scappare a gambe levate e a tornare in albergo. Perché per strada si sparava. E nelle retrovie i ragazzi si preparavano alla guerriglia urbana accatastando in mezzo alla strada rottami e cassonetti per creare delle improvvisate barricate dietro cui trincerarsi. Intorno alle dodici e trenta le sparatorie sono cessate e abbiamo cominciato a sentire strombazzare i clacson dei ragazzi che annunciavano la fuga dei miliziani di Gheddafi, che però avrebbero ripiegato a non più di venti chilometri dalla città, pronti a colpire di nuovo stanotte o al più tardi domani mattina. Resta invece un mistero che cosa sia accaduto ai 14 uomini delle forze di Gheddafi trovati ammanettati e uccisi con un colpo alla testa in mezzo al campo di battaglia. La versione ufficiale data dal consiglio nazionale transitorio è che siano stati uccisi dai militari di Gheddafi perché si erano rifiutati di sparare sui civili. Ma qualcuno ha messo in giro la voce che sarebbero stati giustiziati dai ragazzi in armi della rivoluzione, in risposta al massacro avvenuto stanotte a Ijdabiya. Di nuovo sono informazioni difficili da verificare e che prendiamo con le molle. Ma ormai in molti parlano di centinaia di morti a Ijdabiya, dove stanotte le forze di Gheddafi avrebbero circondato la città e bombardato tutta la notte con carri armati e lanciarazzi, per poi passare sotto le armi uno per uno decine e decine di civili. Verificarlo è impossibile. I telefonini non funzionano da tre giorni e internet è fuori uso da un mese. E anche uscire in città per indagare diventa sempre più pericoloso. Oggi per la prima volta ce lo hanno sconsigliato anche i ragazzi in armi, dicono che col clima che c'è in giro nessuno esclude che i vecchi miliziani di Gheddafi rimasti segretamente in città oppure entrati senza fare rumore negli ultimi giorni, potrebbero entrare in azione con operazioni mirate, anche contro i giornalisti. E intanto oggi, dopo l'assassinio dell'inviato di Al Jazeera, è stata la volta di Mohammed Nabbous, ucciso sul fronte da un cecchino. Era l'inviato della tv Al Hurra, la prima televisione libera che aveva iniziato a trasmettere da Benghazi dopo la rivoluzione del 17 febbraio. Aggiornamento alle 9:00 del 20 marzo 2011 Stanotte ha piovuto e Benghazi si è risvegliata per la prima volta nella tranquillità. Niente rumori di bombe e di sparatorie. La fuga dei suoi abitanti verso l'Egitto, già iniziata ieri alle prime avvisaglie dell'ingresso in città dei mercenari di Gheddafi, si è fermata. Dei bombardamenti della Nato non abbiamo sentito neanche il rumore. La notizia ci è arrivata da Al Jazeera.

Comunicato ARCI - Con le lotte per la democrazia, con i diritti dei migranti contro l’intervento militare


Aerei LibiaCon le lotte per la democrazia, con i diritti dei migranti contro l’intervento militare


Cosa c’entrano gli attacchi aerei su mezzi terrestri con una no-fly zone? Neppure è cominciata, la no-fly zone, ed è subito attacco militare.
Avevamo appena finito di denunciare i grandi rischi connessi al dispositivo militare della risoluzione ONU. E il vertice di Parigi ha deciso di correrli tutti, subito e volontariamente, iniziando un intervento militare aperto sul campo.
Il via libera alla no-fly zone ha dato fiato alle trombe di chi non vedeva l’ora di dimostrare una responsabilità europea finora dimenticata mettendo a disposizione basi, aerei soldati. Alle impegnative parti della risoluzione ONU legate all’iniziativa politica non c’è chi faccia cenno.
L’Italia oltretutto dovrebbe sentire l’obbligo morale di non intervenire militarmente in un paese che esattamente cento anni fa è stato con le armi conquistato e dichiarato colonia, e dove sono stati perpetrati orribili crimini di guerra. E invece addirittura ci proponiamo ad ospitare il quartier generale delle operazioni.
Le lotte democratiche nel mondo arabo proprio non si meritano l’entusiasmo militarista dimostrato in queste ore da tanti paesi europei, con l’Italia in testa come al solito.
L’Egitto va a votare, la Tunisia affronta una complicata transizione, in Yemen e in Barhein i regimi sparano sulle manifestazioni pacifiche, la Siria si ribella: in due mesi di rivolte e rivoluzioni l’Europa non ha sostanzialmente fatto niente, non ha dimostrato interesse, non ha offerto cooperazione, non ha stanziato un soldo e non si è mosso un ministro. Si è solo cercato di fermare i profughi.
Siamo a fianco dei libici in lotta contro il dittatore. Comprendiamo la loro disperazione e la paura che il paese torni sotto il tallone del regime. Ma confidiamo che essi capiscano anche le nostre ragioni, mentre manifestiamo la nostra opposizione all’intervento militare.
Ne abbiamo viste già tante. Abbiamo visto il prevalere degli interessi economici e strategici, nascosti dietro al manto della difesa dei diritti umani. Abbiamo visto i  “due pesi e le due misure”, che fa chiudere gli occhi davanti a violazioni grandiose del diritto internazionale come quella che patisce da decenni la Palestina.
Conosciamo l’incapacità di mettere in campo la forza della politica, e degli strumenti che ad essa corrispondono, per la difesa dei diritti calpestati, per la risoluzione dei conflitti nel nome della giustizia, per l’affermazione della democrazia.
E crediamo che a questo punto della vicenda libica, non essendo intervenuti a proteggere la rivolta quando da sola poteva liberare il paese dal regime, l’evoluzione della crisi vedrà una forte ingerenza straniera, che non può essere mai foriera di libertà e indipendenza.
I venti di guerra di l’Europa cui sta facendo sfoggio richiamano, persino nei nomi con la “coalizione dei volenterosi”, esperienze che avrebbero dovuto insegnare qualcosa. E noi non saremo di questa partita.
Continuiamo a sostenere tutte le esperienze democratiche del Maghreb e del Mashrek, continuiamo a difendere il diritto all’accoglienza dei profughi, siamo contro l’intervento militare.

ARCI

Libia No fly no party

Libiadi Gabriele Del Grande
19 / 3 / 2011
Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione di Benghazi. Che questa volta festeggiano davvero. È da poco passata la mezzanotte del 17 marzo, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato la risoluzione sulla no fly zone. In strada si sono riversate migliaia di automobili. I clacson suonano all'impazzata, ma a malapena si sentono, coperti dalle continue raffiche di kalashnikov e dai botti dell'artiglieria. Davanti al tribunale è una ressa. I ragazzi cantano “Irfaa raskum anta libi”, alza la testa sei un libico. La gioventù ha ritrovato l'orgoglio e ha scoperto col sangue di essere una comunità, con i suoi sogni di libertà e con il suo gusto per la sfida. Anche estrema. Come quella lanciata a rischio della propria vita ai miliziani di Gheddafi, che continuano indisturbati a colpire i civili. In piazza ci sono migliaia di persone pigiate una contro l'altra. La folla si apre soltanto per lasciare passare la sedia a rotelle di Ali. Ha il volto di un ragazzo adolescente, ma lo sguardo triste nonostante il clima di festa. Davanti a lui i ragazzi della piazza fanno la fila per baciarlo sulla fronte e stringergli la mano. “Coraggio!” gli dicono. Da quando la tv Al Arabiya ha diffuso la sua intervista, Ali è diventato il simbolo vivente delle vittime dell'oppressione di Gheddafi. In questi giorni gli ho chiesto tre volte di raccontarmi la sua storia. Ma ha sempre rifiutato. Dice che gli fa male parlarne, che è un incubo di cui non riesce a liberarsi. Si sveglia ogni mattina che gli manca l'aria, come in quella cella sotto i cadaveri sporchi di sangue. La sua storia corre sulla bocca di tutti. È l'unico superstite del massacro della caserma centrale di Benghazi. Venticinque ragazzi torturati a morte dalle milizie di Gheddafi, il 17 febbraio, dopo la manifestazione contro il regime. Alla fine del massacro, quella notte li scaricarono in mare lungo la costa, pensando che anche lui fosse morto come gli altri. Invece era vivo, è sopravvissuto e ha trovato il coraggio di raccontare. E di dire che quel giorno l'hanno picchiato, frustato e torturato, con continue scariche elettriche alla schiena e sui genitali, così – dicevano – non avrebbe messo al mondo altri bastardi. Scariche che l'hanno completamente paralizzato dalla schiena in giù.


La manifestazione va avanti fino all'alba sotto una leggera pioggia che sembra allentare le tensioni di questi ultimi giorni, con il fronte della guerra sempre più vicino alla città e con i due bombardamenti all'aeroporto. Il giorno dopo, delle sparatorie della notte non rimane traccia, salvo un po' di bossoli sparsi per terra. I volontari hanno ripulito la piazza, le macchine armate sono ferme all'esterno e migliaia di persone formano un quadrato disposte su file ordinate. Guardano Mecca e alle spalle hanno il mare. È un rito antico quindici secoli. I tappetini a terra, i piedi scalzi e la fronte appoggiata a terra. Pregano dio in un silenzio che dà una carica mistica a quello che sta accadendo. In tutta la piazza non si vedono simboli di partiti o associazioni. Per il semplice fatto che in Libia da 42 anni partiti e associazioni sono vietati. Ci sono soltanto le vecchie bandiere tricolori dell'indipendenza. Sventolano in aria a centinaia, di tutte le dimensioni, cucite a mano nelle sartorie della città.

Posti come quello di Omar Bruim, un signore di 74 anni, di Misratah, che nelle ultime settimane ha fatto le ore piccole davanti alla vecchia e fedele macchina da cucire. Disegna a mano la mezza luna e la stella bianca, poi ritaglia la stoffa, la cuce e vende il tutto a cinque dinari nella sua bottega. A me però la bandiera la regala. Perché non lo fa per i soldi. Come buona parte dei libici, anche lui con Gheddafi ha qualche conto in sospeso. Nello specifico sono i dieci anni in cui non ha potuto vedere il figlio, fuggito in Svizzera nel 1998 per scampare al mandato d'arresto che aveva portato in carcere altri dodici studenti universitari accusati di terrorismo per aver messo in piedi una associazione di beneficenza. Il signor Omar di bandiere riesce a cucirne una ventina al giorno, poi ci sono giorni in cui ne vende di meno e altri in cui ne vende di più. Per esempio oggi che soltanto Hussein Madani ne ha comprate cinque.

Hussein ha 38 anni, la barba lunga e la battuta pronta. Lui in piazza c'è dal primo giorno delle proteste. Anzi c'è dagli anni Novanta. Da quel giugno del 1995 quando lo vennero a prendere a casa le forze di sicurezza di Gheddafi, insieme al fratello Hasan. Li portarono al carcere speciale di Abu Salim, a Tripoli. Una prigione di massima sicurezza, dedicata in quegli anni ai prigionieri accusati di terrorismo islamico. Anche se col senno di poi, è chiaro che i terroristi erano altrove. E indossavano la divisa. La notte di quel 29 giugno del 1996 Husein era detenuto nella sezione a fianco. E certe cose non le dimenticherà mai. Le grida ad esempio. “Allahu akbar!” Dio è grande. Strillavano come dei pazzi quella notte. Suo fratello e gli altri. Mentre gli scaricavano addosso raffiche di mitra per sedare la rivolta. Le scariche andarono avanti per due ore. Ininterrottamente. Finché non si sentì più volare una mosca. Dicono che la mattina dopo uscirono dal carcere i camion frigorifero gocciolanti di sangue. Milleduecento morti, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.

Molti erano di Benghazi. E oggi le loro foto sono appese sotto il tribunale della città insieme ai ritratti dei martiri della rivoluzione del 17 febbraio. Sui muri hanno scritto: “viva i martiri”. È la nuova iconografia della Libia che verrà. La Libia che ha distrutto le immagini del grande capo, e ha già iniziato a celebrare il mito popolare dei propri ragazzi morti per la libertà. Quanti siano nessuno lo sa. In tutto il paese potrebbero già essere un migliaio. Il resto dipende dagli scenari che verranno. Ad ogni modo il morale è alle stelle. E la sensazione di tutti è che sia soltanto questione di giorni.  I volontari dell'armata rivoluzionaria sono pronti a continuare a combattere. Perché nessuno si aspetta che Gheddafi ritiri le sue truppe. E nessuno allo stesso tempo vuole l'entrata nel paese delle truppe straniere e l'occupazione militare stile Iraq o Afghanistan. Vogliono fare da soli. Questo è chiaro ed è scritto sui muri e sui volantini distribuiti in piazza dal movimento. Chiedono soltanto una copertura aerea per evitare i massacri dei civili. Anche perché nonostante la no fly zone e l'annunciato cessate il fuoco del regime, dalle notizie che arrivano coi telefoni satellitari da Misratah e da Ijdabiya, sul fronte si continua a combattere. Altri mezzi per informarsi non ce ne sono, perché da due giorni i telefoni cellulari sono fuori uso, e internet continua a non funzionare da tre settimane.


Tratto da:  

Crisi libica - Italia a rischio? Dopo tante menzogne i fatti si impongono


Isola Lampedusa

Dal trattato di amicizia al silenzio sulle violazioni dei diritti umani, dall’emergenza sbarchi allo stravolgimento del sistema di accoglienza

di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo

I ritardi delle scelte dell’Unione Europea e dell’intera comunità internazionale sulla crisi libica stanno accordando a Gheddafi quei successi militari che qualche settimana fa apparivano impensabili. E malgrado la No Fly Zone, la carneficina di civili rischia di proseguire per molto tempo ancora. Si rischia anche una situazione di guerra nel Mediterraneo perchè in queste settimane Gheddafi ha avuto tutto il tempo per riorganizzarsi, e grazie alle divisioni presenti a livello europeo e alle Nazioni Unite, il dittatore libico o i suoi figli, potrebbero restare ancora a lungo sulla scena politica internazionale. Per comprendere quello che potrà ancora succedere e per stabilire come, e soprattutto con chi, con quali forze, procedere nei successivi passaggi dei rapporti tra la Libia e l’Italia occorre fare un piccolo sforzo di memoria, anche per non ripetere gli errori del passato. 1. L’Italia è stata il paese che si è battuta maggiormente a livello europeo a partire dal 2003 per ottenere la revoca dell’embargo imposto alla Libia dopo la strage di Lockerbie, commissionata da Gheddafi, come si apprende adesso dai documenti di Wikileaks. Sotto la presidenza di Prodi l’Unione Europea ha avviato una serie di contatti con le autorità libiche in vista della stipula di un accordo globale che avrebbe dovuto sancire l’avvicinamento definitivo all’area di libero scambio dell’Unione Europea e il ruolo della Libia nella esternalizzazione dei controlli di frontiera e nel blocco dei migranti diretti verso l’Europa. Anche se erano note a tutti le violazioni dei diritti umani e gli abusi praticati in quel paese ai danni dei migranti, come emergeva anche in un rapporto del 2005 a cura del SISDE sulla Libia, a firma del generale Mori.
Nello stesso periodo procedevano i rapporti per concludere una serie di intese bilaterali tra Italia e Libia per fermare i migranti, in gran parte potenziali richiedenti asilo, che da quel paese cercavano di raggiungere le coste italiane. Nel dicembre 2007, dopo una missione di D’Alema a Tripoli nella primavera di quello stesso anno, il ministro Amato ed il capo della polizia Manganelli firmavano i Protocolli operativi che avrebbero dovuto regolare la collaborazione tra le autorità di polizia italiane e quelle libiche nel blocco e nei successivi respingimenti dei migranti in fuga dalla Libia. Per oltre un anno, tuttavia, quei protocolli restavano inattuati perché nel frattempo si verificava l’ennesimo cambio di governo e Gheddafi rialzava la posta , esigendo in cambio del suo impegno contro le emigrazioni clandestine un “Trattato di amicizia” di carattere globale, che riconoscesse la responsabilità dell’Italia per l’occupazione coloniale della Libia e un congruo risarcimento che ammontava a diversi miliardi di dollari. Nel frattempo un giro vorticoso di affari e commesse, anche militari, legava sempre più l’Italia alla Libia.
Il 30 agosto 2008, proprio a Bengasi, Gheddafi e Berlusconi firmavano il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”, nel quale si prevedeva, tra l’altro, l’investimento in Libia di 5 miliardi di dollari provenienti dall’erario italiano attraverso la realizzazione di opere pubbliche, e la collaborazione della Libia con l’Italia nella “lotta all’immigrazione clandestina”. In questo accordo non si prevedeva alcun impegno da parte della Libia alla ratifica e al rispetto della Convenzione ONU sui rifugiati del 1951, né si riconosceva all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati la possibilità di monitorare ed accogliere le richieste di protezione da parte dei migranti provenienti in Libia da paesi colpiti da conflitti armati o crisi umanitarie.
Nel Trattato di amicizia inoltre, all’articolo 3, si prevedeva che “Le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite”. Ed all’art. 4 si aggiungeva il principio di “non ingerenza negli affari interni”, con le previsioni che:
1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.
Nel successivo articolo 5 lo stesso trattato affermava il principio della “soluzione pacifica delle controversie”, in quanto “in uno spirito conforme alle motivazioni che hanno portato alla stipula del presente Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, le Parti definiscono in modo pacifico le controversie che potrebbero insorgere tra di loro, favorendo l’adozione di soluzioni giuste ed eque, in modo da non pregiudicare la pace e la sicurezza regionale ed, internazionale”.
Non si comprende come oggi nessuno senta la necessità di ricordare questi impegni, e nel quadro della pur condivisibile risoluzione dell’ONU sulla cd. no-fly zone per impedire altri massacri di civili, l’atteggiamento interventista e bellicista del governo italiano, dopo i ritardi iniziali e le dichiarazioni a favore di Gheddafi, rischia di aggiungere danno a danno. Ed è singolare come sia stata proprio l’Italia il principale fornitore di armamenti in favore della Libia. Per questa ragione l’Italia farebbe bene a mantenersi neutrale durante l’auspicato intervento militare per impedire a Gheddafi di infierire ancora sulla popolazione civile.
Il 4 febbraio 2009, all’indomani della ratifica del Trattato di Amicizia Italia-Libia da parte del Parlamento italiano, ratifica adottata a larga maggioranza con il voto favorevole del maggior partito di opposizione, il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, si recava Tripoli per incontrare il ministro dell’Interno libico, Abdulfatah Yunes El Abdei, e sottoscrivere il Protocollo di attuazione dell’Accordo Italia-Libia che prevede, tra l’altro, il contrasto dell’immigrazione clandestina attraverso il pattugliamento congiunto delle coste dell’Italia e della Libia. Per tutto il 2009 l’Italia applicava la politica dei respingimenti collettivi in acque internazionali, e per il più clamoroso di questi interventi, risalente al 7 maggio 2009 e documentato da immagini inconfutabili trasmesse dalla RAI, veniva denunciata alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo . Il 22 giugno del 2011 la Grande Camera della Corte di Strasburgo si occuperà del caso. Il 16 febbraio 2010, a Gaeta, l’Italia consegnava alla Libia tre motovedette della Guardia di Finanza per il pattugliamento delle acque del Mediterraneo, che si aggiungevano alle altre 3 consegnate nel maggio 2009. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni, presente alla cerimonia di consegna, ribadiva che «il contrasto all’immigrazione illegale ed alla criminalità organizzata che gestisce il traffico di uomini è l’obiettivo primario per Italia e Libia», ricordando che i frutti della fase operativa della collaborazione tra i 2 Paesi avviata nella scorsa primavera hanno superato «ogni più rosea aspettativa»: 90% in meno di sbarchi sulle coste italiane, risultato che rende «impraticabile una rotta redditizia per i trafficanti di uomini». A partire da quella data, per tutto il 2010 i respingimenti anche in acque internazionali venivano effettuati direttamente dalle motovedette italo-libiche sulle quali erano imbarcati militari italiani della Guardia di Finanza. In un caso una di quelle motovedette apriva il fuoco su un motopesca di Mazara del Vallo impegnato a raccogliere le reti. Un caso sul quale dopo pochi giorni calava la cortina del silenzio, con la rassicurazione fornita da Gheddafi che avrebbe punito i responsabili di quel tentativo di omicidio.
Intanto il 12 novembre 2010 La Libia respingeva a Ginevra le raccomandazioni, formulate in ambito di esame Onu, di adottare una legislazione sull’asilo e di firmare un’intesa sulla presenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) nel Paese. Tripoli ha respinto tra l’altro anche la raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire l’uguaglianza delle donne davanti alla legge e nei fatti. Le raccomandazioni su asilo e Unhcr erano state formulate all’Onu da Paesi quali gli Stati Uniti ed il Canada nell’ambito dell’Esame periodico universale della situazione dei diritti umani in Libia, martedì scorso a Ginevra. Tripoli ha anche rifiutato la raccomandazione di abolire la pena di morte, ma ha al tempo stesso rinviato la propria risposta alla richiesta di adottare una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena capitale. L’8 giugno 2010 la Libia aveva annunciato la chiusura dell’ufficio dell’Unhcr a Tripoli, successivamente la presenza dell’ Unhcr è stata accettata ma solo per occuparsi dei casi pregressi.
Dopo quella data le trattative tra l’Unione Europea e la Libia subivano un brusco rallentamento, ma neppure questa circostanza induceva il governo italiano a rivedere i suoi rapporti di collaborazione con Gheddafi, malgrado fossero universalmente note le gravi violazioni dei diritti umani delle quali il regime era responsabile nei confronti dei migranti in transito in quel paese, soprattutto se di fede cristiana, come gli eritrei, e nei confronti degli oppositori politici e dei giornalisti. E ancora oggi, malgrado il ritiro del nostro ambasciatore da Tripoli il Trattato di amicizia tra Italia e Libia è solo sospeso, e sembra che si voglia ripristinarlo non appena in quel paese si affermino nuove autorità statali, per fermare e respingere ancora una volta i “clandestini” in fuga da quel paese. Una fuga che, con la gigantesca repressione consentita a Gheddafi in questi giorni, si potrebbe trasformare, questa volta si, in un vero e proprio esodo di massa di cittadini libici che cercano di salvarsi dalle rappresaglie e dai rastrellamenti casa per casa.
2. Dopo lo scoppio delle insurrezioni popolari nei paesi del Nordafrica l’Italia ha mantenuto una posizione sostanzialmente attendista annunciando interventi umanitari ai confini tra Libia e Tunisia, interventi che nessuno ha visto concretizzarsi in quel campo di accoglienza per diecimila persone che era stato annunciato.
Nel frattempo le scelte del governo italiano, tra allarmi di “invasioni bibliche” e tentativi di nascondere l’inconsistenza del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, hanno reso insostenibile la situazione a Lampedusa, e stanno dimostrando come, di fronte ad una emergenza umanitaria, ancora una volta il governo Berlusconi sia capace soltanto di inviare reparti militari in missione di ordine pubblico e trattare la materia dei cd. sbarchi, in realtà salvataggi in alto mare, con i consunti strumenti della “lotta all’immigrazione clandestina”. Insomma una accoglienza dietro le sbarre o sotto la sorveglianza di pattuglioni di polizia in assetto antisommossa. I ritardi dell’Italia e dell’Unione Europea nel sostenere i processi democratici nelle regioni del Nord-africa e adesso la posizione interventista assunta dall’Italia, sia pure all’interno di una risoluzione delle Nazioni Unite che si prefigge sulla carta l’obiettivo della protezione delle popolazioni civili, stanno esponendo il nostro paese al rischio di una afflusso massiccio di migranti, anche perchè Gheddafi ha già minacciato gli stati europei e l’Italia in particolare di usare l’immigrazione come un’arma da rivolgere verso l’Europa. Eppure anche in presenza di questo gravissimo rischio, il comportamento del ministero dell’interno e dei Questori delle città maggiormente interessate, perché luogo di sbarco o sede di centri di detenzione, rimane quello classico del contrasto dell’immigrazione cd. “clandestina”.
Il 13 febbraio scorso il Questore di Torino ha emesso 35 decreti di respingimento “differito”con accompagnamento alla frontiera nei confronti di altrettanti tunisini sbarcati a Lampedusa.
Nei confronti delle stesse persone sono stati contestualmente emessi altrettanti decreti di trattenimento al CIE.
In questi decreti si fa riferimento alla direttiva rimpatri, citando l’art. 2, § 2, lett. a), laddove si stabilisce che gli Stati membri possono decidere di non applicare la direttiva ai cittadini di paesi terzi sottoposti a respingimento alla frontiera. Alla data del 21 febbraio la questura di Torino ha chiesto al consolato tunisino di Genova il rilascio di un lasciapassare cumulativo a nome dei 35 tunisini in attesa del quale i trattenimenti (già convalidati dal locale giudice di pace il 14.2) sono stati prorogati l’11 marzo. Come è stato osservato ( Savio), i decreti di trattenimento “illegittimamente richiamano l’art.2 § 2 lett. a della direttiva per la ovvia ragione che intanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicarla ai respinti, in quanto l’abbiano recepita. l’Italia non può avvalersi di una facoltà riconosciuta dalla direttiva se prima non l’ha trasposta nel diritto interno”.
Appare inoltre assolutamente opinabile che la Direttiva rimpatri si applichi a coloro che sono destinatari di un provvedimento di espulsione e non anche a chi riceve un provvedimento di “respingimento differito” emesso dal Questore. In entrambi i casi infatti la sorte è la stessa, si viene internati in ogni caso in un centro di identificazione ed espulsione e , se non è possibile eseguire immediatamente l’accompagnamento forzato in frontiera, sulla base di una normativa che oggi risulta in contrasto con la direttiva sui rimpatri, si viene rimessi in libertà con l’intimazione di lasciare entro 5 giorni il territorio nazionale.
Ad Agrigento sono stati iscritti nel registro degli indagati oltre 6.000 immigrati tunisini che nei primi mesi di quest’anno sono arrivati a Lampedusa, ritenuti dalla polizia colpevoli del reato di immigrazione clandestina. Toccherà adesso alla Procura ed al Tribunale di Agrigento verificare quanto le notizie di reato contenute nei verbali di polizia fossero fondate, e, soprattutto quanto e come sia applicabile in questi casi il reato di immigrazione clandestina. Il 24 dicembre 2010 è infatti scaduto il termine di attuazione della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, senza che l’Italia vi abbia dato attuazione. Per effetto del consolidato diritto comunitario, una volta scaduto il termine di attuazione, la Direttiva può comunque essere utilizzata dal giudice interno, che può disapplicare le norme che risultino contrastanti, costituendo un criterio prevalente di interpretazione della complessiva normativa previgente.
La Direttiva 2008/115/CE, nella maggior parte dei casi, impone agli organi competenti ( Prefettura e Questura) di considerare l’espulsione con invito a lasciare il territorio nazionale, il cd. rimpatrio volontario, prima di adottare provvedimenti di allontanamento forzato, che comunque possono essere assunti solo sulla base della considerazione individuale del singolo caso, senza quegli “automatismi” (accompagnamento forzato e trattenimento amministrativo) introdotti dalla legge Bossi-Fini n.189 del 30 luglio 2002. La nuova configurazione dell’espulsione con accompagnamento forzato - come ipotesi residuale - incide anche sulla fattispecie del reato di immigrazione clandestina che comporta un avvio automatico del procedimento penale sulla base della “notizia criminis” dell’ingresso irregolare e può avere come conseguenza l’espulsione con accompagnamento forzato. Su questi aspetti si registrano già numerosi interventi della giurisprudenza, e la materia sembra destinata ad acquistare una rilevanza ancora maggiore alla luce dell’aumento degli arrivi in Italia di migranti provenienti dalle zone di crisi del Nordafrica. Non appare sostenibile, sul piano del rispetto dei diritti fondamentali della persona, oltre che per i costi economici ed il prevedibile ingolfamento dell’apparato giudiziario, il mantenimento di una disciplina che considera come reato penale qualunque ipotesi di ingresso irregolare, persino nei casi nei quali venga presentata una istanza di protezione internazionale, fino al momento della conclusione positiva della relativa procedura. E il governo potrebbe approfittare adesso dell’ennesima emergenza creata anche dalle sue stesse scelte, per adottare una normativa di attuazione, magari un decreto legge, da approvare a colpi di fiducia, che tradisca nella sostanza l’equilibrio richiesto dall’Unione Europea tra l’effettività delle misure di accompagnamento forzato ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona.
3. Ma non bastava, a Maroni ed al suo governo, la criminalizzazione dei migranti che sono riusciti a raggiungere le coste siciliane in fuga da situazioni diffuse che comportavano il pericolo di un danno grave alla persona. E non bastavano neppure i ripetuti allarmi sulle infiltrazioni di “terroristi” tra i migranti in fuga dalla Tunisia. Si vuole stravolgere adesso il sistema nazionale per i richiedenti asilo piuttosto che implementare le strutture già esistenti dotandole di posti e risorse. Si sta tentando così l’ennesima operazione di facciata a costo zero con lo scopo di concentrare i richiedenti asilo nelle regioni meridionali, “sgravando” le regioni del nord da un onere di accoglienza che evidentemente queste dimostravano di non sopportare più. Ma soprattutto, con lo svuotamento di alcuni CARA si creano le condizioni per trasformare queste strutture in centri di detenzione chiusi nei quali trasferire i nuovi arrivati a Lampedusa. A Lampedusa si sta trasformando l’intera isola in un gigantesco campo di concentramento così da legittimare altri provvedimenti che si traducano nella detenzione a tempo indeterminato di coloro che sbarcano sulle nostre coste. Ancora una volta insomma si va verso un vero e proprio “stato di eccezione”.
Come ha affermato l’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) in suo recente comunicato “i trasferimenti forzati, iniziati dal CARA di Bari e che stanno avvenendo manu militari, senza alcun provvedimento individuale, oltre che comportare inutili ingentissime spese, pongono, come già sollevato da tutti gli enti di tutela e dall’UNHCR, rilevanti problemi di legittimità per lo sradicamento delle competenze in sede amministrativa e giurisdizionale. Nei trasferimenti forzati in corso non si rinviene alcun criterio di ragionevolezza ed utilità relativamente ad un esame equo e veloce delle istanze di asilo già depositate (anzi appare evidente come l’intera procedura venga fortemente rallentata) e comunque avvengono senza tenere conto delle condizioni di vulnerabilità psico-fisica di molti richiedenti (persone traumatizzate, vittime di tortura, disabili, famiglie con minori etc) che avevano già intrapreso percorsi di accoglienza e di cura presso i servizi socio-sanitari nei vari territori, che vengono così bruscamente interrotti. Mentre il sistema italiano di accoglienza, incapace di fare fronte un numero di arrivi significativo ma finora del tutto gestibile, sta velocemente sprofondando verso il caos, il commissario straordinario per l’emergenza Prefetto Caruso da una settimana ignora la richiesta di incontro urgente avanzata da tutti gli enti di tutela italiani (ASGI, ACLI, ARCI, Caritas Italiana, CIR, FCEI, Comunità di S. Egidio, Ass. Senza Confine) di concerto con l’UNHCR”.
Questa linea del silenzio e del rifiuto di incontri, adottata dal Prefetto Caruso, nominato dal governo Commissario all’emergenza immigrazione a Lampedusa, costituisce un fatto gravissimo.
Occorre che il Governo adotti un provvedimento di protezione temporanea ex art. 20 del D.Lgs 286/98 nei confronti di coloro che stanno arrivando dalla Tunisia e che potrebbero presto arrivare anche dalla Libia. La gestione dell’accoglienza dovrà avvenire con modalità diffuse su tutto il territorio nazionale, reperendo nuovi posti anche nelle regioni settentrionali, attraverso il Servizio per la Protezione dei richiedenti asilo ed evitando le concentrazioni in Sicilia e a Mineo in particolare (area che per la sua vicinanza alla base militare di Sigonella è altresì la più esposta a possibili ritorsioni militari da parte del regime libico).
Le deportazioni forzate dei richiedenti asilo dai vari CARA italiani devono essere immediatamente sospese.
L’isola di Lampedusa deve essere al più presto decongestionata con trasferimenti quotidiani verso altre strutture di accoglienza e con l’abbandono del folle progetto di allestire una tendopoli nell’area della Riserva naturale. Sembra in questi giorni che la stessa improvvisazione e la stessa incomunicabilità delle istituzioni con la società caratterizzino tanto la politica estera, che la politica interna in materia di immigrazione ed asilo. Di fronte a questa serie di comportamenti irresponsabili e deleteri dal punto di vista della coesione sociale non rimane che chiedere le immediate dimissioni del ministro Maroni e la costituzione di un comitato interministeriale di crisi nel quale siano ammesse a partecipare le organizzazioni non governative, per individuare soluzioni capillari su tutto il territorio nazionale, per fare fronte alle conseguenze devastanti che potranno essere prodotte tanto dalle scelte in tema di politica estera,che dalla prosecuzione della guerra ai migranti, sia alle frontiere esterne, che, una volta giunti sul territorio italiano.
Le scelte del governo in materia di politica internazionale, e le modalità meramente repressive di “gestione” di un emergenza sbarchi, creata ad arte con il concentramento di diverse migliaia di profughi in luoghi simbolo come Lampedusa e Mineo, ormai si potrebbe dire luoghi sulla linea di un fronte di guerra, stanno dimostrando in modo sempre più evidente come l’Italia sia governata da politici che badano solo al proprio vantaggio elettorale ed alla difesa di tutte le zone più ricche e di tutte le sacche di privilegio presenti in Italia, anche a costo di scatenare una “guerra tra poveri”. Contro questa classe di governo, che si avvantaggia di una opposizione parlamentare sempre più debole, occorre costruire giorno per giorno nuove reti di solidarietà dal basso, aprire nuovi canali di comunicazione e costruire soggetti politici che siano capaci di aggregare tutte le forze dell’opposizione sociale. Magari, per battere la rassegnazione alla sconfitta e il settarismo auto-consolatorio, bisognerebbe prendere ad esempio il coraggio delle popolazioni che sull’altra sponda del Mediterraneo non esitano ad affrontare i carri armati che invadono le loro città. Ogni giorno che passa, anche attraverso le scelte irresponsabili adottate a livello di politica internazionale e di controllo dell’immigrazione, è sempre più a rischio il nostro futuro, la nostra democrazia.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!