C’è un dramma particolare nella tragedia libica. Si svolge in silenzio, lontano dalle telecamere e dalle equazioni politiche consumate tra le cancellerie occidentali e il Consiglio di sicurezza dell’Onu. È il dramma di migliaia di migranti africani rimasti bloccati nel paese nordafricano dal crollo del regime di Gheddafi. Secondo l’emittente panaraba Al Jazeera, sono decine i migranti morti, uccisi tanto dagli oppositori del regime quanto dalle forze ancora legate al colonnello Gheddafi e al suo clan. I primi sospettano indistintamente tutti i non libici di far parte dei famigerati reparti di mercenari che sarebbero stati lanciati contro le manifestazioni anti-regime. Le forze legate a Gheddafi, invece, sparano sui migranti o li abbandonano nei campi in mezzo al deserto dove sono stati ammassati, in alcuni casi per anni, a causa del blocco costiero delle partenze verso l’Europa. Tra i migranti presi a bersaglio dalle due parti in lotta, ci sono migliaia di lavoratori impiegati in diversi settori produttivi del paese, dall’industria petrolifera alle costruzioni, abbandonati dalle aziende di sub-appalto che li avevano fatti arrivare in Libia.
Secondo alcune stime, i lavoratori stranieri in Libia sarebbero un milione e mezzo. Le notizie frammentarie che arrivano dal confine tra Libia e Tunisia, per esempio, dicono che ci sono centinaia di migranti, molti dei quali sarebbero egiziani, in attesa di passare il confine per tentare un rocambolesco ritorno a casa. L’Egitto ha cercato di organizzare un ponte aereo per evacuare i lavoratori rimasti bloccati in Libia, ma l’evacuazione procede molto lentamente. Il caos che regna in Libia rende difficile, se non impossibile, viaggiare. Così chi è rimasto bloccato cerca di raggiungere il più vicino posto di frontiera, via terra. Il lungo confine tra Libia ed Egitto, però, è in gran parte ancora minato dalla Seconda Guerra mondiale e solo il valico di Sallum rimane aperto. Da lì sono passati nei giorni scorsi 14 lavoratori filippini: un gruppetto sparuto, se si pensa che, secondo i dati del ministero degli esteri di Manila, sono almeno 26 mila i filippini che lavorano in Libia. Lunedì mattina a Nairobi, in Kenya, è riuscito ad arrivare un aereo con circa centocinquanta persone, una novantina di kenyani e oltre sessanta cittadini di diversi stati africani, dal Sud Sudan all’Uganda, dal Congo al Sudafrica. Uno dei passeggeri, ha raccontato all’agenzia di stampa Reuters che ci sono stati molti episodi di attacchi contro i migranti africani, sospettati di essere mercenari pagati da Gheddafi per sedare le rivolte. I feriti sarebbero stati così terrorizzati da rinunciare alle cure mediche negli ospedali già saturi. Un bilancio delle vittime è per ora impossibile, ma si teme che i morti possano essere decine, se non centinaia. Un capitolo ulteriore di questo dramma è quello dei profughi di altri paesi africani, specialmente dall’Eritrea e da altri stati dell’Africa orientale, imprigionati nei centri di detenzione allestiti dalla polizia e dall’esercito libico in mezzo al deserto. Molti di loro si trovano in Libia solo di passaggio, nella speranza di trovare prima o poi un modo per raggiungere l’Europa. Sono vittime due volte: della situazione dei paesi da cui scappano e della collaborazione tra le autorità libiche e quelle europee (italiane innanzi tutto) nella politiche di controllo delle frontiere. I messaggi che riescono a filtrare lungo il tam tam dei contatti personali dicono che in alcuni campi le persone sono state semplicemente abbandonate, senza alcuna assistenza, dai reparti di polizia o dell’esercito che sono fuggiti. Per la loro vita, le equazioni diplomatiche rischiano di essere risolte fin troppo tardi.
Secondo alcune stime, i lavoratori stranieri in Libia sarebbero un milione e mezzo. Le notizie frammentarie che arrivano dal confine tra Libia e Tunisia, per esempio, dicono che ci sono centinaia di migranti, molti dei quali sarebbero egiziani, in attesa di passare il confine per tentare un rocambolesco ritorno a casa. L’Egitto ha cercato di organizzare un ponte aereo per evacuare i lavoratori rimasti bloccati in Libia, ma l’evacuazione procede molto lentamente. Il caos che regna in Libia rende difficile, se non impossibile, viaggiare. Così chi è rimasto bloccato cerca di raggiungere il più vicino posto di frontiera, via terra. Il lungo confine tra Libia ed Egitto, però, è in gran parte ancora minato dalla Seconda Guerra mondiale e solo il valico di Sallum rimane aperto. Da lì sono passati nei giorni scorsi 14 lavoratori filippini: un gruppetto sparuto, se si pensa che, secondo i dati del ministero degli esteri di Manila, sono almeno 26 mila i filippini che lavorano in Libia. Lunedì mattina a Nairobi, in Kenya, è riuscito ad arrivare un aereo con circa centocinquanta persone, una novantina di kenyani e oltre sessanta cittadini di diversi stati africani, dal Sud Sudan all’Uganda, dal Congo al Sudafrica. Uno dei passeggeri, ha raccontato all’agenzia di stampa Reuters che ci sono stati molti episodi di attacchi contro i migranti africani, sospettati di essere mercenari pagati da Gheddafi per sedare le rivolte. I feriti sarebbero stati così terrorizzati da rinunciare alle cure mediche negli ospedali già saturi. Un bilancio delle vittime è per ora impossibile, ma si teme che i morti possano essere decine, se non centinaia. Un capitolo ulteriore di questo dramma è quello dei profughi di altri paesi africani, specialmente dall’Eritrea e da altri stati dell’Africa orientale, imprigionati nei centri di detenzione allestiti dalla polizia e dall’esercito libico in mezzo al deserto. Molti di loro si trovano in Libia solo di passaggio, nella speranza di trovare prima o poi un modo per raggiungere l’Europa. Sono vittime due volte: della situazione dei paesi da cui scappano e della collaborazione tra le autorità libiche e quelle europee (italiane innanzi tutto) nella politiche di controllo delle frontiere. I messaggi che riescono a filtrare lungo il tam tam dei contatti personali dicono che in alcuni campi le persone sono state semplicemente abbandonate, senza alcuna assistenza, dai reparti di polizia o dell’esercito che sono fuggiti. Per la loro vita, le equazioni diplomatiche rischiano di essere risolte fin troppo tardi.
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