ESERCITO ZAPATISTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE
Gennaio-Febbraio 2011
Per: Don Luis Villoro.
Da: Subcomandante Insurgente Marcos.
Dottore, La saluto.
Speriamo davvero che stia meglio in salute e che accolga queste righe non solo come uno scambio di idee, ma anche come un abbraccio affettuoso da noi tutti.
La ringraziamo per aver accettato di partecipare a questo scambio epistolare. Speriamo che da questo sorgano riflessioni che ci aiutino, qua e là, a tentare di comprendere il calendario che patisce la nostra geografia, il nostro Messico.
Mi permetta di iniziare con una specie di bozza. Si tratta di idee, frammentarie come la nostra realtà, che possono seguire una loro strada indipendente o intrecciarsi (l’immagine migliore che ho trovato per “disegnare” il nostro processo di riflessione teorica), e che sono il prodotto della nostra inquietudine per quanto sta attualmente accadendo in Messico e nel mondo.
E qui iniziano questi veloci appunti su alcuni temi, tutti loro in relazione con l’etica e la politica. O piuttosto su quello che noi riusciamo a percepire (e a patire) di loro, e sulle resistenze in generale, e la nostra resistenza in particolare. Come c’è d’aspettarsi, in questi appunti regneranno la schematicità e la riduzione, ma credo che bastino a tracciare una o molte linee di discussione, di dialogo, di riflessione critica.
E si tratta proprio di questo, che la parola vada e venga, scavalcando posti di blocco e pattugliamenti militari e di polizia, del nostro da qua fino al Suo là, anche se poi accada che la parola se ne vada da altre parti e non importa se qualcuno la raccoglie e la rilancia (è per questo che sono fatte le parole e le idee).
Sebbene il tema su cui ci siamo accordati sia Politica ed Etica, forse è necessaria qualche deviazione, o meglio, avvicinamenti da punti apparentemente distanti.
E, dato che si tratta di riflessioni teoriche, bisognerà iniziare dalla realtà, quello che gli investigatori chiamano “i fatti”.
In “Scandalo in Boemia“, di Arthur Conan Doyle, il detective Sherlock Holmes dice al suo amico, il Dottor Watson: “È un errore capitale teorizzare prima di avere dati. Senza rendersi conto, uno comincia a deformare i fatti affinché si adattino alle teorie, invece di adattare le teorie ai fatti“.
Potremmo cominciare dunque da una descrizione, affrettata e incompleta, di quello che la realtà ci presenta nella stessa forma, cioè, senza anestesia alcuna, e ricavare alcuni dati. Qualcosa come cercare di ricostruire non solo i fatti ma la forma con la quale prendiamo conoscenza di essi.
E la prima cosa che appare nella realtà del nostro calendario e geografia è una vecchia conoscenza dei popoli originari del Messico: La Guerra.
I.- LE GUERRE DELL’ALTO.“E in principio erano le statue”.
Così potrebbe iniziare un saggio storico sulla guerra, o una riflessione filosofica sulla reale genitrice della storia moderna. Perché le statue belliche nascondono più di quanto mostrano. Erette per glorificare in pietra la memoria di vittorie militari, non fanno altro che occultare l’orrore, la distruzione e la morte di ogni guerra. E le figure in pietra di dee o angeli incoronati con l’alloro della vittoria non solo servono affinché il vincitore abbia memoria del suo successo, ma anche per forgiare la smemoratezza del vinto.
Ma, attualmente questi specchi di roccia sono in disuso. Oltre ad essere seppelliti quotidianamente dalla critica implacabile di uccelli di ogni tipo, hanno trovato nei mezzi di comunicazione di massa un avversario insuperabile.
La statua di Hussein, abbattuta a Baghdad durante l’invasione nordamericana dell’Iraq, non è stata sostituita da una di George Bush, ma dai cartelloni pubblicitari delle grandi multinazionali. Benché il volto ebete dell’allora presidente degli Stati Uniti sarebbe stato adatto a promuovere cibo spazzatura, le multinazionali hanno preferito auto-erigersi l’omaggio di un nuovo mercato conquistato. All’affare della distruzione, è seguito l’affare della ricostruzione. E, benché si susseguano le perdite tra le truppe nordamericane, la cosa importante è che il denaro vada e venga come deve essere: con fluidità e in abbondanza.
La caduta della statua di Saddam Hussein non è il simbolo della vittoria della forza militare multinazionale che invase l’Iraq. Il simbolo sta nel rialzo delle azioni delle aziende sponsor.
“Nel passato erano le statue, ora sono le borse valori”.
Potrebbe essere questa la storiografia moderna della guerra.
Ma la realtà della storia (questo caotico orrore guardato sempre meno e in maniera sempre più asettica), compromette, presenta conti, esige conseguenze, domanda. Uno sguardo onesto ed un’analisi critica potrebbero identificare i pezzi del rompicapo e dunque ascoltare, come un macabro urlo, la sentenza:
“In principio era la guerra”.
La Legittimazione della Barbarie.
Forse, in qualche momento della storia dell’umanità, l’aspetto materiale, fisico, di una guerra è stata la cosa determinante. Ma, con l’avanzare della pesante e turpe ruota della storia, questo non è bastato. Così, come le statue sono servite per il ricordo del vincitore e la smemoratezza del vinto, nelle guerre i contendenti hanno dovuto non solo sconfiggere fisicamente l’avversario, ma anche servirsi di un alibi propagandistico, cioè, di legittimità. Sconfiggerlo moralmente.
In qualche momento della storia è stata la religione a conferire questo certificato di legittimità alla dominazione guerriera (benché alcune delle ultime guerre moderne non sembrano aver progredito molto in questo senso). Ma poi è stato necessario un pensiero più elaborato e la filosofia ha rilevato il testimone.
Ricordo ora alcune sue parole: “La filosofia ha sempre avuto un rapporto ambivalente col potere sociale e politico. Da un lato, ha preso il posto della religione come giustificazione teorica della dominazione. Ogni potere costituito ha tentato di legittimarsi, prima con un credo religioso, poi con una dottrina filosofica. (…) Sembrerebbe che la forza bruta che sostiene il dominio manchi di significato per l’uomo se non si giustificasse con un fine accettabile. Il discorso filosofico, che subentra alla religione, è stato incaricato di conferirgli questo senso; è un pensiero di dominio.” (Luis Villoro. “Filosofia e Dominio”. Discorso di ingresso nel Colegio Nacional. Novembre 1978).
In effetti, nella storia moderna quest’alibi è riuscito ad essere talmente elaborato come una giustificazione filosofica o giuridica (gli esempi più patetici li ha dati l’Organizzazione delle Nazioni Unite, ONU). Ma la cosa fondamentale era, ed è, munirsi di una giustificazione mediatica.
Se una certa filosofia (per seguire Lei, Don Luis: il “pensiero di dominio” in contrapposizione al “pensiero di liberazione”) ha sostituito la religione in questo compito di legittimazione, ora i mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito la filosofia.
Qualcuno ricorda che la giustificazione della forza armata multinazionale per invadere l’Iraq, era che il regime di Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa? Su questo si è costruita una gigantesca impalcatura mediatica che è stata il combustibile per una guerra che non è ancora finita, almeno in termini militari. Qualcuno ricorda che non si sono mai trovate queste armi di distruzione di massa? Non importa più se è stata una bugia, se c’è stato (e c’è) orrore, distruzione e morte, perpetrati con un falso alibi.
Si racconta che, per dichiarare la vittoria militare in Iraq, George W. Bush non aspettò i rapporti che dicevano del ritrovamento e distruzione di queste armi, né la conferma che la forza multinazionale controllava ormai, se non tutto il territorio iracheno, almeno i suoi punti nodali (la forza militare nordamericana era trincerata nella cosiddetta “zona verde” e non riusciva nemmeno ad avventurarsi nei quartieri vicini – si leggano gli stupendi reportage di Robert Fisk per il giornale britannico “The Independent” -).
No, il rapporto che ricevette Washington e gli permise di dichiarare finita la guerra (che di sicuro non è ancora finita), arrivò dai consulenti delle grandi multinazionali: l’affare della distruzione può cedere il passo all’affare della ricostruzione (su questo si vedano i brillanti articoli di Naomi Klein sul settimanale statunitense “The Nation“, ed il suo libro “La Dottrina dello Shock“).
Dunque, la cosa essenziale nella guerra non è solo la forza fisica (o materiale), è anche necessaria la forza morale che, in questi casi, è fornita dai mezzi di comunicazione di massa (come prima dalla religione e dalla filosofia).
La Geografia della Guerra Moderna.
Se l’aspetto fisico lo riferiamo ad un esercito, cioè, ad un’organizzazione armata, quanto più forte è (cioè, più potere di distruzione possiede), tante più possibilità di successo ha.
Se è l’aspetto morale ad essere riferito ad un organismo armato, quanto più legittima è la causa che lo anima (cioè, quanto più potere di convocazione ha), tanto maggiori sono le possibilità di raggiungere i suoi obiettivi.
Il concetto di guerra si è allargato: si tratta non solo di distruggere il nemico nella sua capacità fisica di combattimento (soldati ed armi) per imporre la volontà propria, ma è anche possibile distruggere la sua capacità morale di combattimento, benché abbia ancora sufficiente capacità fisica.
Se le guerre si potessero mettere unicamente sul terreno militare (fisico, poiché ci riferiamo a questo), è logico aspettarsi che l’organizzazione armata con maggiore potere di distruzione imponga la sua volontà all’avversario (tale è l’obiettivo dello scontro tra forze) distruggendo la sua capacità materiale di combattimento.
Ma non è più possibile collocare nessun conflitto sul terreno puramente fisico. È sempre più complicato il terreno su cui si svolgono le guerre (piccole o grandi, regolari o irregolari, di bassa, media o alta intensità, mondiali, regionali o locali).
Dietro quella grande ed ignorata guerra mondiale (“guerra fredda”, come la chiama la storiografia moderna, noi la chiamiamo “la terza guerra mondiale”), si può trovare una sentenza storica che segnerà le guerre a venire.
La possibilità di una guerra nucleare (portata al limite dalla corsa agli armamenti che consisteva, grosso modo, in quante volte si era capaci di distruggere il mondo) offrì la possibilità di “un altro” finale di un conflitto bellico: il risultato di uno scontro armato poteva non essere l’imposizione della volontà di uno dei contendenti sull’altro, ma poteva presupporre l’annullamento delle volontà in lotta, cioè, della loro capacità materiale di combattimento. E per “annullamento” mi riferisco non solo a “incapacità di azione” (dunque un “pareggio”), ma anche (e soprattutto), alla “scomparsa”.
In effetti, i calcoli geomilitari ci dicevano che in una guerra nucleare non vi sarebbero stati vincitori né vinti. E ancora, non ci sarebbe stato nulla. La distruzione sarebbe stata così totale e irreversibile che la civiltà umana avrebbe ceduto il passo a quella degli scarafaggi
L’argomento ricorrente tra le alte sfere militari delle potenze dell’epoca era che le armi nucleari non servivano per combattere una guerra, ma per inibirla. Il concetto di “armi di contenimento” si tradusse allora nel più diplomatico “mezzi di dissuasione”.
In sintesi: la dottrina “moderna” militare si sintetizzava così: impedire che l’avversario imponga la sua volontà (o “strategia”), equivale ad imporre la propria volontà (“strategia”), cioè, spostare le grandi guerre verso le piccole o medie guerre. Non si trattava più di distruggere la capacità fisica e/o morale di combattimento del nemico, ma di evitare che la usasse in uno scontro diretto. Invece, si cercava di ridefinire i teatri di guerra (e la capacità fisica di combattimento) dall’ambito mondiale all’ambito regionale e locale. Insomma: diplomazia pacifica internazionale e guerre regionali e nazionali.
Risultato: non c’è stata guerra nucleare (almeno non ancora, sebbene la stupidità del capitale sia tanto grande quanto la sua ambizione), ma al suo posto ci sono stati innumerevoli conflitti a tutti i livelli che hanno lasciato milioni di morti, milioni di profughi di guerra, milioni di tonnellate di materiale distrutto, economie rase al suolo, nazioni distrutte, sistemi politici fatti a pezzi… e milioni di dollari di profitti.
Ma era stata data la definizione delle guerre “più moderne” o “postmoderne”: sono possibili conflitti militari che, per la loro natura, siano irrisolvibili in termini di forza fisica, cioè, nell’imporre con la forza la propria volontà all’avversario.
Potremmo supporre dunque che si iniziò una lotta parallela SUPERIORE alle guerre “convenzionali”. Una lotta per imporre una volontà sull’altra: la lotta del potente militarmente (o “fisicamente” per transitare nel microcosmo umano) per impedire che le guerre si svolgessero su terreni dove non si potevano raggiungere risultati convenzionali (del tipo “l’esercito meglio equipaggiato, addestrato ed organizzato sarà potenzialmente vittorioso sull’esercito peggio equipaggiato, addestrato ed organizzato”). Potremmo supporre, quindi, che al contrario, c’è la lotta del militarmente (o “fisicamente”) debole per fare che le guerre si svolgano su terreni dove il predominio militare non sia un fattore decisivo.
Le guerre “più moderne” o “postmoderne” non sono, quindi, quelle che mettono sul terreno le armi più sofisticate (e qui includo non solo le armi come tecnica militare, ma anche quelle considerate tali negli organigrammi militari: la fanteria, la cavalleria, i blindati, etc.), bensì quelle che sono portate su terreni dove la qualità e la quantità del potere militare non è il fattore determinante.
Con secoli di ritardo, la teoria militare di quelli che stanno in alto scopriva che sarebbero possibili conflitti nei quali un concorrente terribilmente superiore in termini militari sia incapace di imporre la sua volontà su un rivale debole.
Sì, sono possibili.
Gli esempi nella storia moderna abbondano, e quelli che adesso mi vengono in mente sono di sconfitte della più grande potenza bellica al mondo, gli Stati Uniti d’America, in Vietnam e a Playa Girón. Anche se potremmo aggiungere alcuni esempi dai calendari passati e della nostra geografia: le sconfitte dell’esercito realista spagnolo da parte delle forze insorte nel Messico di 200 anni fa.
Tuttavia, la guerra è lì con la sua questione centrale: la distruzione fisica e/o morale del rivale per imporre la propria volontà, continua ad essere il fondamento della guerra di quelli che stanno in alto.
Allora, se la forza militare (o fisica, ripeto) non solo non è rilevante ma può essere prescindibile come variabile determinante nella decisione finale, abbiamo che nel conflitto bellico entrano altre variabili o alcune di quelle presenti come secondarie passano in primo piano.
Questo non è nuovo. Il concetto di “guerra totale” (sebbene non come tale) ha precedenti ed esempi. La guerra a tutti i costi (militari, economici, politici, religiosi, ideologici, diplomatici, sociali ed anche ecologici) è sinonimo di “guerra moderna”.
Ma, manca la cosa fondamentale: la conquista di un territorio. Ovvero, questa volontà si impone sì in un calendario preciso, ma soprattutto in una geografia delimitata. Se non c’è un territorio conquistato, cioè, sotto il controllo diretto o indiretto della forza conquistatrice, non è vittoria.
Benché si possa parlare di guerre economiche (come il blocco che il governo nordamericano mantiene contro la Repubblica di Cuba) o di aspetti economici, religiosi, ideologici, razziali, ecc. di una guerra, l’obiettivo continua ad essere lo stesso. E nell’epoca attuale, la volontà che vuole imporre il capitalismo è distruggere/spopolare e ricostruire/riordinare il territorio conquistato.
Sì, ora le guerre non si accontentano di conquistare un territorio e ricevere il tributo dalla forza vinta. Nella tappa attuale del capitalismo è necessario distruggere il territorio conquistato e spopolarlo, cioè, distruggere il suo tessuto sociale. Parlo dell’annichilimento di tutto quello che dà coesione ad una società.
Ma la guerra di quelli che stanno in alto non si ferma qui. Contemporaneamente alla distruzione ed allo spopolamento, si opera la ricostruzione di questo territorio ed il riordino del suo tessuto sociale, ma ora con un’altra logica, un altro metodo, altri attori, un altro obiettivo. Insomma: le guerre impongono una nuova geografia.
Se in una guerra internazionale questo complesso processo avviene nella nazione conquistata e si opera dalla nazione assalitrice, in una guerra locale o nazionale o civile il territorio da distruggere/spopolare e ricostruire/riordinare è comune alle forze in lotta.
Cioè, la forza attaccante vittoriosa distrugge e spopola il proprio territorio.
E lo ricostruisce e riordina secondo il suo piano di conquista o riconquista.
Anche se non ha un piano… “qualcuno” opera quella ricostruzione/riordino.
Come popoli originari messicani e come EZLN possiamo dire qualcosa sulla guerra. Soprattutto se si svolge nella nostra geografia ed in questo calendario: Messico, inizi del secolo XXI…
II – LA GUERRA DEL MESSICO DELL’ALTO.
“Io darei il benvenuto a qualsiasi guerra
perché credo che a questo paese ne serva una”.
Theodore Roosevelt
Ed ora la nostra realtà nazionale è invasa dalla guerra. Una guerra che non solo non è più lontana per chi era abituato a vederla in geografie o calendari distanti, ma incomincia a governare le decisioni e le indecisioni di chi pensava che i conflitti bellici erano solo nei notiziari o nei documentari di luoghi lontani come… Iraq, Afghanistan,… Chiapas.
Ed in tutto il Messico, grazie al patrocinio di Felipe Calderón Hinojosa, non dobbiamo ricorrere alla geografia del Medio Oriente per riflettere criticamente sulla guerra. Non è più necessario risalire il calendario fino al Vietnam, Playa Girón, sempre la Palestina.
E non dico il Chiapas e la guerra contro le comunità indigene zapatiste, perché si sa che non sono più di moda (per questo il governo dello stato del Chiapas ha speso un mucchio di soldi per far sì che i media non lo collochino sull’orizzonte della guerra, ma dei “progressi” nella produzione di biodiesel, nel “buon” trattamento degli emigranti, dei “successi” in agricoltura ed altre storielle ingannevoli passate a comitati di redazione che firmano come proprie le veline governative povere di forma e contenuti).
L’irruzione della guerra nella vita quotidiana del Messico attuale non arriva da un’insurrezione, né da movimenti indipendentisti o rivoluzionari che 100 o 200 anni dopo, si contendono la riedizione nel calendario. Viene, come tutte le guerre di conquista, dall’alto, dal Potere.
Questa guerra ha in Felipe Calderón Hinojosa il suo iniziatore e promotore istituzionale (e vergognoso).
Chi si è impossessato della titolarità dell’esecutivo federale per le vie di fatto, non si è accontentato del supporto mediatico ed è dovuto ricorrere a qualcosa di più per distrarre l’attenzione ed eludere la sua evidente mancanza di legittimità: la guerra.
Quando Felipe Calderón Hinojosa ha fatto suo il proclama di Theodore Roosevelt (alcuni attribuiscono la frase a Henry Cabot Lodge): “questo paese ha bisogno di una guerra”, ha ricevuto la sfiducia timorosa degli industriali messicani, l’entusiasta approvazione degli alti comandi militari ed il caloroso plauso di chi realmente comanda: il capitale straniero.
La critica a questa catastrofe nazionale chiamata “guerra contro il crimine organizzato” dovrebbe essere completata da un’analisi approfondita dei suoi sostenitori economici. Non mi riferisco solo al vecchio assioma che in epoche di crisi e di guerra aumenta il consumo superfluo. Nemmeno solo agli incentivi che ricevono i militari (in Chiapas, gli alti comandi militari ricevevano, o ricevono, un salario extra del 130% per essere in “zona di guerra”). Bisognerebbe cercare anche tra le licenze, i fornitori ed i crediti
internazionali che non rientrano nella cosiddetta “Iniciativa Mérida”.
Se la guerra di Felipe Calderón Hinojosa (benché si sia tentato, invano, di addossarla a tutti i messicani) è un affare (e lo è), manca la risposta alla domanda per chi o quale è l’affare, e a che cifra ammonta.
Qualche stima economica.
Non è poco quello che è in gioco:
(Nota: le cifre indicate non sono esatte poiché non c’è chiarezza nei dati governativi ufficiali. Per cui, in alcuni casi si è ricorsi a quanto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Federazione completando con dati forniti da enti e organi di informazione seri).
Nei primi 4 anni della “guerra contro il crimine organizzato” (2007-2010), i principali enti governativi incaricati (Segreteria della Difesa Nazionale – cioè: Esercito e Forza Aerea -, Segreteria della Marina, Procura Generale della Repubblica e Segreteria di Pubblica Sicurezza) hanno ricevuto dal Bilancio di Spesa della Federazione una somma superiore ai 366 mila milioni di pesos (circa 23 miliardi di Euro al cambio attuale). I 4 enti governativi federali hanno ricevuto: nel 2007 più di 71 mila milioni di pesos (4.366.070.000 Euro); nel 2008 più di 80 mila milioni (4.919.520.000 Euro); nel 2009 più di 113 mila milioni (6.948.820.000 Euro) e nel 2010 sono stati più di 102 mila milioni di pesos (6.272.390.000 Euro). A questo bisogna sommare oltre 121 mila milioni di pesos (7.440.770.000 Euro al cambio attuale) che riceveranno nel 2011.
Solo la Segreteria di Pubblica Sicurezza da 13 mila milioni di pesos di finanziamenti nel 2007, è arrivata a gestire uno degli oltre 35 mila milioni di pesos previsti nel 2011 (forse perché le produzioni cinematografiche sono più costose).
Secondo il Terzo Rapporto di Governo del settembre 2009, nel mese di giugno di quell’anno, le forze armate federali contavano su 254.705 elementi (202.355 di Esercito e Aereonautica e 52.350 dell’Armata).
Nel 2009 il bilancio per la Difesa Nazionale è stato di 43 mila 623 milioni 321 mila 860 pesos (2.682.570.000 Euro), ai quali si sono aggiunti 8 mila 762 milioni 315 mila 960 pesos (538.830.000 Euro, il 25,14% in più), in totale: più di 52 mila milioni di pesos (3.197.690.000 Euro) per l’Esercito e l’Aereonautica. La Segreteria della Marina: più di 16 mila milioni di pesos (983.904.000 Euro); Pubblica Sicurezza: quasi 33 mila milioni di pesos (2.029.300.000 Euro); e Procura Generale della Repubblica: più di 12 mila milioni di pesos (737.928.000 Euro).
Bilancio totale per la “guerra contro il crimine organizzato” nel 2009: più di 113 mila milioni di pesos (6.948.820.000 Euro).
Nel 2010 un soldato semplice federale guadagnava circa 46.380 pesos l’anno (2.852 Euro); un generale di divisione 1 milione 603 mila 80 pesos l’anno (98.575 Euro), ed il Segretario della Difesa Nazionale percepiva redditi per 1.859.712 pesos (114.317 Euro).
Se la matematica non mi difetta, con il bilancio bellico totale del 2009 (113 mila milioni di pesos per i 4 enti – 6.948.820.000 Euro) si sarebbero potuti pagare i salari annui di 2 milioni e mezzo di soldati semplici; o di 70.500 generali di divisione; o di 60.700 titolari della Segreteria della Difesa Nazionale.
Ovviamente, non tutto quello che è a bilancio viene speso per stipendi e prestazioni. C’è bisogno di armi, attrezzature, munizioni… perché quelle a disposizione non servono più o sono obsolete.
“Se l’Esercito messicano entrasse in combattimento contro qualsiasi nemico interno o esterno con le sue poco più di 150 mila armi e le sue 331,3 milioni di munizioni, il suo potere di fuoco sarebbe al massimo di 12 giorni di combattimento continuo, segnalano stime dello Stato Maggiore della Difesa Nazionale (Emaden) elaborate da ognuna delle armi dell’Esercito e dell’Aereonautica. Secondo le previsioni, il fuoco di artiglieria dei cannoni da 105 millimetri, per esempio, potrebbe combattere solo per 5,5 giorni sparando in maniera continuative 15 granate per ogni arma. Le unità blindate, secondo l’analisi, hanno in dotazione 2.662 granate da 75 millimetri.
Entrando in combattimento, le truppe blindate esaurirebbero tutte le munizioni in nove giorni. In quanto all’Aereonautica, si segnala che esistono poco più di 1,7 milioni di munizioni calibro 7.62 mm impiegate sugli aerei PC-7 e PC-9, e sugli elicotteri Bell 212 e MD-530. In un conflitto, questo 1,7 milione di cartucce si esaurirebbe in cinque giorni di fuoco aereo, secondo i calcoli della Sedena. L’ente rileva che i 594 equipaggiamenti per la visione notturna ed i 3.095 GPS usati dalle Forze Speciali per combattere i cartelli della droga, “hanno già concluso la loro vita di servizio”.
Le carenze e l’usura nelle file dell’Esercito e dell’Aereonautica sono palesi e raggiungono livelli inimmaginabili praticamente in tutte le aree operative dell’istituzione. L’analisi della Difesa Nazionale segnala che le maschere per la visione notturna ed i GPS hanno tra i cinque e i 13 anni di vita, ed “hanno ormai svolto il loro compito”. Lo stesso succede per i “150 mila 392 caschi antiframmentazione” in uso tra le truppe. Il 70% ha esaurito la sua vita utile nel 2008 ed i 41 mila 160 giubbotti antiproiettile lo faranno nel 2009. (…).
In questo panorama l’Aereonautica risulta il settore più colpito dal ritardo e dalla dipendenza tecnologica dall’estero, in particolare da Stati Uniti e Israele. Secondo la Sedena, nei depositi di armi dell’Aereonautica ci sono 753 bombe da 250 a mille libbre ognuna. Gli aerei F-5 e PC-7 Pilatus usano queste armi. Le 753 esistenti potrebbero combattere aria-terra per un giorno. Le 87 mia 740 granate calibro 20 millimetri per i jet F-5 potrebbero combattere contro nemici esterni o interni per sei giorni. Infine, la Sedena rivela che i missili aria-aria per gli aerei F-5 sono solo 45 pezzi, che significa solo un giorno di fuoco aereo.” Jorge Alejandro Medellín su “El Universal”, Messico, 2 gennaio 2009.
Questo è quanto noto per il 2009, due anni dopo l’inizio della cosiddetta “guerra” del governo federale. Lasciamo da parte la domanda ovvia di come sia stato possibile che il capo supremo delle forze armate, Felipe Calderón Hinojosa, si lanciasse in una guerra (“di lungo respiro”, dice lui) senza avere le condizioni materiali minime per sostenerla, non diciamo per “vincerla”. Allora domandiamoci: Quali industrie belliche beneficeranno dell’acquisto di armi, equipaggiamenti e munizioni?
Se il principale promotore di questa guerra è l’impero delle torbide stelle e strisce (a conti fatti, in realtà gli unici complimenti ricevuti da Felipe Calderón Hinojosa sono arrivati dal governo nordamericano), non bisogna dimenticare che a nord del Río Bravo non si concedono aiuti, ma si fanno investimenti, cioè, affari.
Vittorie e sconfitte.
Gli Stati Uniti vincono con questa guerra “locale”? La risposta è: sì. Tralasciando i guadagni economici e gli investimenti monetari in armi, munizioni ed equipaggiamenti (non dimentichiamo che gli USA sono il principale fornitore di tutto questo materiale alle due bande rivali: autorità e “criminali” – la “guerra contro la criminalità organizzata” è un affare per l’industria militare nordamericana -), il risultato di questa guerra è la distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino geopolitico a loro favore.
Questa guerra (persa dal governo in quanto concepita non come la soluzione di un problema di insicurezza, bensì di un problema di mancanza di legittimità), sta distruggendo l’ultima cosa che resta ad una Nazione: il tessuto sociale.
Quale migliore guerra per gli Stati Uniti che una che gli garantisca profitti, territorio e controllo politico e militare senza le imbarazzanti “body bags” [i sacchi neri in cui vengono messi i corpi dei soldati morti in guerra - N.d.T.] e gli invalidi di guerra che gli arrivavano dal Vietnam, prima, ed ora dall’Iraq e dall’Afghanistan?
Le rivelazioni di Wikileaks sulle opinioni dell’alto comando nordamericano circa le “deficienze” dell’apparato repressivo messicano (la sua inefficienza e la sua frequentazione con la criminalità) non sono nuove. In Messico questa è una certezza non solo tra la gente comune, ma tra le alte sfere del governo e del Potere. La barzelletta che questa è una guerra impari perché il crimine organizzato è organizzato mentre il governo messicano è disorganizzato, è una triste verità.
Questa guerra è iniziata formalmente l’11 dicembre 2006, con l’allora cosiddetta “Operazione Congiunta Michoacán”. 7 mila elementi dell’Esercito, della Marina e della Polizia Federale lanciarono un’offensiva (conosciuta come “el michoacanazo”) che, passata l’euforia mediatica di quei giorni, risultò essere un fallimento. Il comando militare era del generale Manuel García Ruiz ed il responsabile dell’operazione era Gerardo Garay Cadena della Segreteria di Pubblica Sicurezza. Dal dicembre del 2008 ad oggi, Gerardo Garay Cadena è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Tepic, Nayarit, con l’accusa di collusione con “el Chapo” Guzmán Loera.
Ad ogni passo di questa guerra, per il governo federale è sempre più difficile spiegare dove sta il nemico da sconfiggere.
Jorge Alejandro Medellín è un giornalista che collabora con diversi organi di informazione – la rivista “Contralínea”, il settimanale “Acentoveintiuno”, ed il portale di informazione “Eje Central”, tra gli altri – e si è specializzato sulle questioni del militarismo, forze armate, sicurezza nazionale e narcotraffico. Ad ottobre del 2010 ha ricevuto minacce di morte per un articolo in cui denunciava possibili legami del narcotraffico col generale Felipe de Jesús Espitia, ex comandante della V Zona Militare ed ex capo della Sezione Settima – Operazioni Contro il Narcotraffico – nel governo di Vicente Fox, e responsabile del Museo della Droga che si trova negli uffici della S-7. Il generale Espitia è stato rimosso dall’incarico di comandante della V Zona Militare per il clamoroso fallimento degli operativi ordinati da lui a Ciudad Juárez e per la risposta insufficiente data ai massacri compiuti nella città di confine.
Ma il fallimento della guerra federale contro la “criminalità organizzata”, il gioiello della corona del governo di Felipe Calderón Hinojosa, non è un dispiacere per il Potere in USA: è l’obiettivo da raggiungere.
Per quanto i mezzi di comunicazione di massa si sforzino di presentare come vittorie della legalità le scaramucce che tutti i giorni si verificano sul territorio nazionale, non riescono ad essere convincenti.
E non solo perché i mezzi di comunicazione di massa sono stati superati dalle altre forme di scambio di informazioni a disposizione della gran parte della popolazione (non solo, ma anche dalle reti sociali e dalla telefonia mobile), ma anche, e soprattutto, perché il tono della propaganda governativa è passato dal tentativo di inganno al tentativo di scherno (da “anche se non sembra stiamo vincendo”, fino alla definizione di “una minoranza ridicola”, passando per le battute da bar del funzionario di turno).
Su quest’altra sconfitta della stampa, scritta e radio e televisiva, tornerò in un’altra missiva. Per ora, e rispetto al tema di cui adesso ci occupiamo, basta ricordare che la dichiarazione “a Tamaulipas non succede niente” lanciata dai notiziari (marcatamente di radio e televisione), è stata sbugiardata dai filmati girati dalla gente con i cellulari e le video-camere portatili e diffusi in internet.
Ma torniamo alla guerra che, secondo Felipe Calderón Hinojosa, non ha mai detto essere una guerra. Non l’ho detto, non lo è?
“Vediamo se è guerra o non è guerra: il 5 dicembre 2006 Felipe Calderón disse: “Lavoriamo per vincere la guerra alla criminalità…”. Il 20 dicembre 2007, durante una colazione con del personale navale, il signor Calderón utilizzò per quattro volte in un solo discorso il termine guerra. Disse: “La società riconosce in maniera particolare l’importante ruolo dei nostri marinai nella guerra che il mio Governo guida contro l’insicurezza…”, “La lealtà e l’efficienza delle Forze Armate sono una delle più potenti armi nella guerra che stiamo portando avanti contro essa…”, “iniziando questa guerra frontale contro la criminalità, ho avvertito che questa sarebbe stata una lotta di lungo respiro”, “…le guerre, sono proprio così…”.
Ma ce n’è ancora: il 12 settembre 2008, durante la Cerimonia di Chiusura ed Apertura dei Corsi del Sistema Educativo Militare, l’autoproclamato “Presidente del lavoro”, si è lasciato andare pronunciando fino a una mezza dozzina di volte il termine guerra contro il crimine: “Oggi il nostro paese combatte una guerra molto diversa da quella che affrontarono gli insorti nel 1810, una guerra diversa da quella che affrontarono i cadetti della Scuola Militare 161 anni fa…” “… tutti i messicani della nostra generazione hanno il dovere di dichiarare guerra ai nemici del Messico… Per questo, in questa guerra contro la criminalità”… “È imprescindibile che noi tutti ci uniamo in questo fronte comune, passiamo dalle parole ai fatti e veramente dichiariamo guerra ai nemici del Messico…” “Sono convinto che vinceremo questa guerra…” (Alberto Vieyra Gómez. Agencia Mexicana de Noticias, 27 gennaio 2011).
Contraddicendosi, sfruttando il calendario, Felipe Calderón Hinojosa non si corregge né testualmente né concettualmente. No, il fatto è che le guerre si vincono o si perdono (in questo caso, si perdono) ed il governo federale non vuole ammettere che il punto principale della sua gestione è fallito militarmente e politicamente.
Guerra senza fine? La differenza tra la realtà… e i videogiochi.
Di fronte all’innegabile fallimento della sua politica guerrafondaia, Felipe Calderón Hinojosa cambierà strategia?
La risposta è NO. E non solo perché la guerra dell’alto è un affare e, come ogni affare, si tiene in piedi finché continua a produrre profitti.
Felipe Calderón Hinojosa, il comandante in capo delle forze armate; il fervente ammiratore di José María Aznar; l’auto-denominato “figlio disubbidiente”; l’amico di Antonio Solá; il “vincitore” della presidenza per mezzo punto percentuale di voti grazie all’alchimia di Elba Esther Gordillo; quello degli atteggiamenti autoritari che sfociano in collera (“o scendete o vi mando a prendere”); quello che vuole coprire con altro sangue quello dei bambini assassinati nell’Asilo ABC, di Hermosillo, Sonora; quello che ha accompagnato la sua guerra militare con una guerra contro il lavoro degno ed il salario giusto; quello del calcolato autismo di fronte agli omicidi di Marisela Escobedo e Susana Chávez Castillo; quello che etichetta come “membri del crimine organizzato” bambini e bambine, uomini e donne morti, che sono stati e vengono assassinati perché si trovavano nel calendario e nella geografia sbagliati, e non possono nemmeno essere nominati perché nessuno ne tiene il conto, né la stampa, né le reti sociali.
Lui, Felipe Calderón Hinojosa, è anche un fan dei videogiochi di strategia militare.
Felipe Calderón Hinojosa è il “gamer” “che in quattro anni ha trasformato un paese nella versione banale di The Age of Empire – il suo videogioco preferito -, (…) un amante – e cattivo stratega – della guerra” (Diego Osorno per “Milenio Diario”, 3 ottobre 2010).
È lui che ci porta a chiedere: il Messico è governato come un videogioco? (io credo di poter fare questo tipo di domande compromettenti senza il rischio che mi licenzino per mancato rispetto del “codice etico” che si regge sulla pubblicità a pagamento).
Felipe Calderón Hinojosa non si fermerà. E non solo perché le forze armate non glielo permetterebbero (gli affari sono affari), anche per l’ostinazione che ha caratterizzato la vita politica del “comandante in capo” delle forze armate messicane.
Rinfreschiamoci un po’ la memoria: A marzo 2001, quando Felipe Calderón Hinojosa era il coordinatore parlamentare dei deputati federali di Azione Nazionale, ci fu quel deplorevole episodio del Partito Azione Nazionale che negò ad una delegazione indigena del Congresso Nazionale Indigeno e dell’EZLN di utilizzare la tribuna del Congresso dell’Unione in occasione della “Marcia del colore della terra”.
Malgrado il PAN stesse dando l’immagine di un’organizzazione politica razzista ed intollerante (e lo è) volendo negare agli indigeni il diritto ad essere ascoltati, Felipe Calderón Hinojosa mantenne il rifiuto. Tutto gli diceva che era un errore assumere quella posizione, ma l’allora coordinatore dei deputati panisti non cedette (ed andò a nascondersi, insieme a Diego Fernández de Cevallos ed altri illustri panisti, in uno dei saloni privati della Camera a guardare in televisione gli indigeni che parlavano nel luogo che la classe politica riserva alle sue farse).
“Non m’importa dei costi politici”, avrebbe detto allora Felipe Calderón Hinojosa.
Ora dice la stessa cosa, benché oggi non si tratti dei costi politici che si assume un partito politico, ma dei costi umani che paga il paese intero per questa ostinazione.
Mentre concludevo questa missiva, ho trovato le dichiarazioni della segretaria della sicurezza interna degli Stati Uniti, Janet Napolitano, che speculava sulle possibili alleanze tra Al Qaeda ed i cartelli messicani della droga. Il giorno prima, il sottosegretario dell’Esercito degli Stati Uniti, Joseph Westphal, ha dichiarato che in Messico c’è una forma di insurgencia guidata dai cartelli della droga che potenzialmente potrebbero prendere il governo, cosa che implicherebbe una risposta militare statunitense. Ha aggiunto che non desiderava vedere una situazione in cui i soldati statunitensi fossero mandati a combattere un’insurrezione “alla nostra frontiera… o doverli mandare ad attraversare la frontiera” col Messico.
Nel frattempo, Felipe Calderón Hinojosa, presenziava ad un’esercitazione militare in un villaggio, a Chihuahua, e saliva su un aereo da combattimento F-5, si sedeva sul sedile del pilota e scherzava dicendo “fuori i missili”.
Dai videogiochi di strategia ai “simulatori di combattimento aereo” e “spari in prima persona”? Da Age of Empires a HAWX?
Il HAWX è un videogioco di combattimento aereo dove, in un futuro prossimo, le società militari private (“Private military company”), in molti paesi hanno sostituito gli eserciti governativi. La prima missione del videogioco consiste nel bombardare Ciudad Juárez, Chihuahua, Messico, perché le “forze ribelli” si sono impadronite della piazza e minacciano di avanzare in territorio nordamericano.
Non nel videogioco, ma in Iraq, una delle società militari private contrattate dal Dipartimento di Stato nordamericano e dalla CIA era la “Blackwater USA”, che poi ha cambiato nome in “Blackwater Worldwide”. Il suo personale ha commesso gravi abusi in Iraq, compreso l’assassinio di civili. Ora ha cambiato nome in “Xe Services LL” ed è il più grande appaltatore di sicurezza privata del Dipartimento di Stato nordamericano. Almeno il 90% dei suoi profitti provengono da contratti col governo degli Stati Uniti.
Lo stesso giorno in cui Felipe Calderón Hinojosa scherzava sull’aereo da combattimento (10 febbraio 2011), nello stato di Chihuahua una bambina di 8 anni moriva raggiunta da una pallottola vagante durante una sparatoria tra persone armate ed elementi dell’esercito.
Quando finirà questa guerra?
Quando sullo schermo del governo federale apparirà la scritta “game over” della fine del gioco, seguito dai nomi dei produttori e finanziatori della guerra?
Quando Felipe Calderón potrà dire “abbiamo vinto la guerra, abbiamo imposto la nostra volontà al nemico, abbiamo distrutto la sua capacità materiale e morale di combattere, abbiamo (ri)conquistato i territori che erano in suo potere?”
Da come è stata concepita, questa guerra non ha fine ed è persa.
Non ci sarà un vincitore messicano in queste terre (a differenza del governo, il Potere straniero ha un piano per ricostruire/riordinare il territorio) e lo sconfitto sarà l’ultimo ambito dell’agonizzante Stato Nazionale in Messico: le relazioni sociali che, dando identità comune, sono la base di una Nazione.
Ancora prima della presunta fine, il tessuto sociale sarà completamente distrutto.
Risultati: la Guerra in alto e la morte in basso.
Vediamo cosa dice il Segretario di Governo federale sulla “non guerra” di Felipe Calderón Hinojosa:
“Il 2010 è stato l’anno più violento del sessennio con 15.273 omicidi legati al crimine organizzato, il 58% in più dei 9.614 registrati nel 2009, secondo con i dati diffusi questo mercoledì dal Governo Federale. Da dicembre 2006 alla fine del 2010 sono stati registrati 34.612 crimini, dei quali 30.913 sono casi indicati come “esecuzioni”; 3.153 sono definiti “scontri” e 544 rientrano nel capitolo “omicidi-aggressioni”. Alejandro Poiré, segretario tecnico del Consiglio di Sicurezza Nazionale, ha presentato il database ufficiale elaborato dagli esperti che a partire da ora mostrerà “informazioni disgregate mensili, a livello statale e municipale” sulla violenza in tutto il paese.” (Periodico “Vanguardia”, Coahuila, Messico, 13 gennaio 2011)
Domanda: Di questi 34.612 assassinati, quanti erano criminali? E gli oltre mille bambini e bambine assassinati (che il Segretario di Governo “ha dimenticato” di estrapolare dal suo conto), erano anche loro “sicari” del crimine organizzato? Quando nel governo federale si proclama che “stiamo vincendo”, a quale cartello della droga si riferiscono? Quante altre decine di migliaia fanno parte di quella “ridicola minoranza” che è il nemico da sconfiggere?
Mentre là in alto cercano inutilmente di sdrammatizzare con le statistiche i crimini che la loro guerra ha provocato, è necessario segnalare che si sta distruggendo anche il tessuto sociale in quasi tutto il territorio nazionale.
L’identità collettiva della Nazione sta per essere distrutta e soppiantata da un’altra.
Perché “l’identità collettiva non è altro che l’immagine che un popolo si crea per riconoscersi come appartenente a quel popolo. Identità collettiva sono quei tratti in cui un individuo si riconosce come appartenente ad una comunità. E la comunità accetta questo individuo come parte di essa. Questa immagine che il popolo si crea non è necessariamente la conservazione di un’immagine tradizionale ereditata, ma generalmente se la crea l’individuo che appartiene ad una cultura, per consolidare il suo passato e la sua vita attuale con i progetti che ha per questa comunità.
Dunque, l’identità non è un semplice lascito che si eredita, ma è un’immagine che si costruisce, che ogni popolo si crea, e pertanto è variabile e può cambiare secondo le circostanze storiche”. (Luis Villoro, novembre 1999, intervista con Bertold Bernreuter, Aachen, Germania).
Nell’identità collettiva di buona parte del territorio nazionale non esiste, come si vuole far credere, la contesa tra l’inno nazionale e il narco-corrido (se non si appoggia il governo allora si appoggia la criminalità, e viceversa).
No.
C’è invece l’imposizione, con la forza delle armi, della paura come immagine collettiva, dell’insicurezza e della vulnerabilità come specchi nei quali si riflette questa collettività.
Che relazioni sociali si possono mantenere o tessere se la paura è l’immagine dominante con la quale un gruppo sociale si può identificare, se il senso di comunità si rompe al grido di “si salvi chi può”?
Da questa guerra non solo ne verranno migliaia di morti… e lucrosi guadagni economici.
Ma anche, e soprattutto, ne verrà una nazione distrutta, spopolata, irrimediabilmente spezzata.
III.- NIENTE DA FARE?
A chi trae le sue meschine somme e sottrazioni elettorali da questo conteggio mortale, ricordiamo che:
17 anni fa, il 12 gennaio 1994, una gigantesca mobilitazione cittadina (attenzione: senza capi, comandi centrali, leader o dirigenti) qui fermò la guerra. Di fronte all’orrore, la distruzione e le morti, 17 anni fa la reazione fu quasi immediata, contundente, efficace.
Ora è lo shock, l’avarizia, l’intolleranza, la meschinità che lesina appoggi e convoca all’immobilismo… e all’inefficienza.
La lodevole iniziativa di un gruppo di lavoratori della cultura (“NON PIU’ SANGUE”) è stata screditata fin dall’inizio per non “essersi piegata” ad un progetto elettorale, per non aver rispettato il mandato di aspettare il 2012.
Ora che hanno la guerra nelle loro città, per le strade, nelle proprie case, che cosa hanno fatto? Dico, oltre a “piegarsi” davanti a chi ha “il progetto migliore”.
Chiedere alla gente di aspettare il 2012? Che bisogna tornare a votare per il meno peggio, perché allora si rispetterà il voto?
Se si contano più di 34 mila morti in 4 anni, sono oltre 8 mila morti all’anno. Cioè, bisogna aspettare altri 16 mila morti per fare qualcosa?
Perché si metterà al peggio. Se gli attuali candidati alle elezioni presidenziali del 2012 (Enrique Peña Nieto e Marcelo Ebrard) governano le entità con maggior numero di cittadini, non dobbiamo aspettarci che lì aumenterà la “guerra contro la criminalità organizzata” con la sua scia di “danni collaterali”?
Che cosa faranno? Niente. Proseguiranno sulla stessa strada dell’intolleranza e della demonizzazione di quattro anni fa, quando nel 2006 tutto quello che non era a favore di López Obrador era accusato di fare gli interessi della destra. Quell@ che allora ci attaccarono e calunniarono, ora seguono la stessa strada nei confronti di altri movimenti, organizzazioni, proteste, mobilitazioni.
Perché la presunta grande organizzazione nazionale che si prepara perché alle prossime elezioni federali vinca un progetto alternativo di nazione, non fa qualcosa adesso? Dico, se pensano di poter mobilitare milioni di messicani affinché votino per qualcuno, perché non mobilitarli per fermare la guerra e il paese sopravviva? O è un calcolo meschino e vile? Che il conto dei morti e delle distruzione sottragga punti al rivale e ne aggiunga al favorito?
Oggi, in mezzo a questa guerra, il pensiero critico viene di nuovo rimandato. In primo luogo: il 2012 e le risposte alle domande sui “galletti”, nuovi o riciclati, per quel futuro che già da oggi si sta gretolando. Tutto deve essere subordinato a questo calendario ed ai suoi passaggi: prima, le elezioni locali in Guerrero, Bassa California Sud, Hidalgo, Nayarit, Coahuila, Stato del Messico.
E mentre tutto precipita, ci dicono che la cosa importante è analizzare i risultati elettorali, le tendenze, le possibilità. Invitano a resistere fino al momento di tracciare il segno sulla scheda elettorale, e poi di aspettare che tutto si sistemi e si torni ad innalzare il fragile castello di carta della classe politica messicana.
Si ricordano che si burlavano ed attaccavano chi nel 2005 invitava la gente ad organizzarsi secondo le proprie esigenze, storia, identità e aspirazioni, e non scommettere su qualcuno là in alto che risolvesse tutto?
Ci siamo sbagliati noi o loro?
Chi nelle principali città può dire di uscire di casa tranquillo se non all’alba, almeno al tramonto?
Chi fa suo quel “stiamo vincendo” del governo federale e guarda con rispetto, e non con paura, soldati, marinai e poliziotti?
Chi sono quelli che adesso si svegliano senza sapere se saranno vivi, sani o liberi al termine della giornata che comincia?
Chi non riesce ad offrire alla gente una via d’uscita, un’alternativa, che non sia aspettare le prossime elezioni?
Chi non riesce a lanciare un’iniziativa che davvero attecchisca localmente, non diciamo a livello nazionale?
Chi è rimasto solo?
Perché alla fine, chi rimarrà sarà chi resisterà; chi non si sarà venduto; chi non si sarà arreso; chi non avrà tentennato; chi avrà compreso che le soluzioni non vengono dall’alto, ma si costruiscono in basso; chi non avrà scommesso né scommette sulle illusioni che vende una classe politica vecchia che appesta come un cadavere; chi non avrà seguito il calendario di chi sta in alto né adeguato la sua geografia a quel calendario trasformando un movimento sociale in una lista di numeri di schede elettorali; chi non sarà rimasto immobile di fronte alla guerra, aspettando il nuovo spettacolo di giochi di prestigio della classe politica nel circo elettorale, ma avrà costruito un’alternativa sociale, non individuale, di libertà, giustizia, lavoro e pace.
IV.- L’ETICA E LA NOTRA ALTRA GUERRA.
Prima abbiamo detto che la guerra è inerente al capitalismo e che la lotto per la pace è anticapitalista.
Lei, Don Luis, prima ha detto anche che “la moralità sociale costituisce solo un primo livello, pre-critico, dell’etica. L’etica critica incomincia quando l’individuo si allontana dalle forme di moralità esistenti e si pone domande sulla validità delle sue regole e comportamenti. Ci si può rendere conto che la moralità sociale non obbedisce alle virtù che proclama”.
È possibile portare l’Etica nella guerra? È possibile farla irrompere nelle parate militari, tra i gradi militari, posti di blocco, operativi, combattimenti, morti? È possibile portarla a mettere in discussione la validità delle regole e dei comportamenti militari?
O l’ipotesi della sua possibilità non è altro che un esercizio di speculazione filosofica?
Forse l’inclusione di questo “altro” elemento nella guerra sarebbe possibile solo come paradosso. Includere l’etica come fattore determinante di un conflitto avrebbe come conseguenza un’ammissione radicale: il rivale sa che il risultato della sua “vittoria” sarà la sua sconfitta.
E non mi riferisco alla sconfitta come “distruzione” o “abbandono”, bensì alla negazione dell’esistenza come forza belligerante. È così, una forza fa una guerra che, se la vince, significherà la sua scomparsa come forza. E se la perde è lo stesso, ma nessuno fa una guerra per perderla (beh, Felipe Calderón Hinojosa sì).
E qui sta il paradosso della guerra zapatista: se perdiamo, vinciamo; e se vinciamo, vinciamo. La chiave sta nel fatto che la nostra è una guerra che non vuole distruggere il rivale nel senso classico.
È una guerra che vuole annullare il terreno della sua realizzazione e le risorse dei contendenti (noi compresi).
È una guerra per smettere di essere quello che ora siamo e così essere quello che dobbiamo essere.
Questo è stato possibile perché riconosciamo l’altro, l’altra, l’altro che, in altre terre del Messico e del Mondo, e senza essere uguale a noi, soffre le stesse pene, sostiene resistenze simili, che lotta per un’identità molteplice che non annulli, assoggetti, conquisti, e che anela ad un mondo senza eserciti.
17 anni fa, il 1 gennaio 1994, si è resa visibile la guerra contro i popoli originari del Messico.
Guardando la geografia nazionale su questo calendario, noi ricordiamo:
Non eravamo noi, gli zapatisti, i violenti? Non ci accusavano di voler dividere il territorio nazionale? Non si diceva che il nostro obiettivo era distruggere la pace sociale, minare le istituzioni, seminare il caos, promuovere il terrore e distruggere il benessere di una Nazione libera, indipendente e sovrana? Non si segnalava fino alla nausea che la nostra richiesta di riconoscimento dei diritti e della cultura indigeni minava l’ordine sociale?
17 anni fa, il 12 gennaio 1994, una mobilitazione civile, senza definita appartenenza politica, ci chiese di tentare la strada del dialogo per ottenere le nostre richieste.
Noi abbiamo obbedito.
Più e più volte, nonostante la guerra contro di noi, abbiamo insistito con iniziative pacifiche.
Per anni abbiamo resistito ad attacchi militari, ideologici ed economici, ed ora al silenzio su quello che sta accadendo qua.
Nelle condizioni più difficili non solo non ci siamo arresi, né ci siamo venduti, né abbiamo tentennato, ma abbiamo anche costruito migliori condizioni di vita nei nostri villaggi.
Al principio di questa missiva ho detto che la guerra è una vecchia conoscenza dei popoli originari, degli indigeni messicani.
Più di 500 anni dopo, più di 200 anni dopo, più di 100 anni dopo, ed ora con questo altro movimento che reclama la sua molteplice identità comune, diciamo:
Siamo qua.
Abbiamo un’identità.
Abbiamo il senso della comunità perché non abbiamo aspettato né sospirato che le soluzioni di cui necessitiamo e che meritiamo arrivassero dall’alto.
Perché non sottomettiamo il nostro cammino a chi guarda verso l’alto.
Perché, mantenendo l’indipendenza della nostra proposta, ci relazioniamo con equità con l’altro che, come noi, non solo resiste, ma ha costruito un’identità propria che gli dà appartenenza sociale, e che ora rappresenta anche l’unica solida opportunità di sopravvivenza al disastro.
Noi siamo pochi, la nostra geografia è limitata, non siamo nessuno.
Siamo popoli originari dispersi nella geografia e nel calendario più lontani.
Noi siamo un’altra cosa.
Siamo pochi e la nostra geografia è limitata.
Ma nel nostro calendario non comanda l’insicurezza.
Noi solamente teniamo a noi stessi.
Forse è poco quello che abbiamo, ma non abbiamo paura.
Bene, Don Luis. La saluto e che la riflessione critica animi nuovi passi.
Dalle montagne del Sudest Messicano.
Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, Gennaio-Febbraio 2011