Trascrizione intervento
In questi momenti, in queste ore stiamo cercando di capire che significato dare alle parole.
Sulla questione della guerra in Libia la prima parola da pronunciare, a cui dobbiamo ridare un senso è l'essere “contro la guerra”.
Dobbiamo dire “no alla guerra”, sempre e comunque come dato storico , strutturale profondamente legato ad un sistema di gestione del mondo, delle relazione che ha immediatamente a che fare con la vita che ci è imposta in termini globali. La guerra non è un fatto episodico in questo mondo, è connaturata alla assenza di sovranità dei popoli, è connaturata ad un elemento autoritario di governance, è connaturata alle ingiustizie su cui questo mondo si regge.
Il “no alla guerra” è sempre e comunque, anche in questo caso della Libia.
Tutte le disquisizioni sul fatto che la “no fly zone” si fa in un maniera o nell'altra sono considerazioni che lascerei agli strateghi militari. E' abbastanza ridicolo mettersi noi a discutere se una “no fly zone è giusta se sta ad una certa altezza o è sbagliata se parte da terra”.
I fatti ci parlano di guerra, cioè un intervento militare dispiegato che ha le caratteristiche di una guerra.
Vicino al nostro “no alla guerra” dobbiamo anche saper dire che è tutto diverso rispetto alle guerre che abbiamo conosciuto.
Non è la guerra dell'Iraq, non è la guerra del Kossovo. Ci sono differenze profondissime non fosse altro che per il fatto che siamo in un mondo oggi completamente diverso dal punto di vista della crisi. Questo è il mondo della crisi strutturale delle dinamiche capitalistiche dove è messa in gioco qualsiasi ipotesi di ordini mondiali presistenti o prefigurati.
E' diversa dalla guerra in Iraq o Kossovo perchè anche l'elemento di polizia internazionale o d i guerra preventiva o di guerra umanitaria è giocato in maniera totalmente diversa a partire dal fatto, per esempio, che questa intervento non era pianificato.
Gheddafi chi era?
Gheddafi era l'uomo dell'occidente, ed in particolare dell'Italia, sia per quanto riguarda il controllo di un'area di grande produzione petrolifera sia per quanto riguarda, soprattutto, il controllo del Mediterraneo dal punto di vista del flusso dei migranti.
Il più grande alleato dell'Occidente che faceva da argine alla dinamica fondamentalista islamica, che costruiva nella tortura e nel terrore la possibilità di governare e contenere i flussi migratori, che costituiva una garanzia economica nel mercato europeo, fino al punto di fargli investire grandi quote di denaro nelle proprietà pubbliche dei vari paesi occidentali.
Ancora una volta come nel caso, in questo senso, di Saddam ci troviamo di fronte ad un elemento che era assolutamente funzionale in questo momento al meccanismo di controllo economico e politico di un'area da parte dell'Occidente.
A differenza di Saddam Hussein qui ci troviamo in una condizione in cui nessuno aveva intenzione di attaccare Gheddafi fino ad un mese fa.
La situazione che si è creata è stata prodotta, non dimentichiamolo, dalla grande rivolta popolare egiziana, tunisina che ha portato ad una rivolta popolare anche in Libia.
Una rivolta popolare legata anche a condizioni storiche precedenti e non solo al fatto che siamo in presenza di una dittatura feroce, quella del clan dei Gheddafi all'interno di un panorama libico contraddistinto da una presenza tribale precisa e storicamente determinata.
In ogni caso è questa rivolta che ha costituito le premesse per un intervento militare dell'occidente nei confronti della Libia come quello sta avvenendo.
Questo è un primo dato di differenza sostanziale con ciò che accadeva nelle guerre precedenti. Si dirà che questo è accaduto anche nella dimensione del Kossovo, ma è completamente diversa la situazione. Non si può parlare di similitudine perchè, ad esempio, se andiamo a vedere gli interessi specifici, questa guerra il governo italiano non la voleva fare. Non voleva assolutamente intervenire nella “protezione degli insorti di Bengasi” come non voleva intervenire per determinare con i mezzi militari, cioè con la guerra, un cambio della guardia nella realtà libica o la riapertura delle possibilità che dentro la Libia si determini uno scontro interno (tipo la Cirenaica che combatte contro la Tripolitania, dividendo il paese in due).
Questa riflessione è determinante: questa guerra, a cui ripeto noi dobbiamo dire di no, è piena delle contraddizioni di questa fase di crisi della dinamica capitalistica.
Ed è piena anche del modo assolutamente non prevedibile, imprevisto d'azione di un quadro di stati, che non sono nemmeno la Nato, che è diviso al suo interno per le modalità e gli interessi d'intervento.
Quelli che dicono che questa, naturalmente, è una guerra per il petrolio, io credo dimentichino che il petrolio c'era già. Il petrolio libico era garantito dalla Libia, in maniera assolutamente assicurata.
A parte la presenza dell'Eni e di tutti gli interessi economici dell'occidente, mi sembra evidente l'importanza dell'elemento della rivolta popolare, che non era scontata. La rivolta partita dall'Egitto ( ieri ci sono state milioni di persone che hanno votato per la riforma costituzionale e bisognerà vedere cosa succederà), dalla Tunisia (dove la situazione è in continua evoluzione) è un elemento importante che dimostra come l'imprevedibilità, ciò che accade determina i passaggi che vengono gestiti poi in una maniera o nell'altra.
Ed anche questi passaggi vengono gestiti in assenza di una piano strategico di lungo periodo.
Naturalmente dal nostro punto di vista ci dobbiamo opporre alla gestione in termini di guerra e non di soluzione politica, di meccanismi che allontanino gli spettri di una carneficina di civili, caratteristica delle guerre contemporanee.
Ma è anche evidente che dobbiamo dissezionare, capire che cosa sta accadendo per non imbatterci in facili soluzioni che non convincono più nessuno.
Dire che la guerra ha delle implicazioni diverse da come classicamente pensiamo è, per esempio, osservare cosa avviene nel governo italiano. Il governo italiano era riluttante rispetto alla guerra, come lo poteva essere Obama rispetto ad un intervento, mentre più decisa era la Clinton anche dentro gli Stati Uniti stessi .
Dire che il petrolio non c'entra niente è sbagliato perchè questa guerra avviene nel pieno della crisi nucleare e guarda caso i paesi più produttori di energia nucleare hanno interesse il più possibile a garantirsi le fonti petrolifere. Ma dire che è solo per questo o è legato solo a questo, significa tratteggiare una dimensione organizzata di imperialismo o neo-imperialismo, che io credo sia insufficiente, sia sbagliato.
Siamo in presenza anche del fatto che gli accadimenti vanno dall'alto al basso e si mescolano.
Si mescolano anche all'interno della crisi globale di governance, di un progetto “unitario” del mondo dal punto di vista capitalistico.
Si mescolano con la crisi nucleare.
Si mescolano con il problema dei flussi migratorio. Un problema sempre più grande per un'Europa che non vuole fare i conti con una realtà diseguale che spinge ad un meccanismo di esodo. Un Europa che finchè poteva spingere l'arrivo di migliaia di uomini e donne nel riassorbimento delle dinamiche del mercato del lavoro lo gestiva in una certa maniera ma che invece oggi è ancora più preoccupata vista la sua caratteristica di fortezza dei possibili arrivi.
Questi elementi sono presenti ed anche nuovi in un quadro di crisi.
Questa guerra illustra il fatto che c'è un'assenza di possibilità e di protagonismo della politica in Europa. La guerra è il segnale che l'unico mezzo politico che si conosce o che viene praticato facilmente dagli stati e dai governi è quello militare.
C'è un'assenza di progetto politico in Europa. Si vorrebbe costruire l'Europa solo a partire dagli strumenti che possono essere usati in termini concreti: uno è la guerra, l'altro è la dinamica monetaria. Ma anche su quest'ultimo aspetto vediamo come tutto scricchiola all'interno della crisi finanziaria. Siamo in presenza di un Europa che tenta di costruire se stessa solo attraverso la guerra a cui noi dobbiamo opporci costruendo un'Europa che parla di soluzioni politiche e di alternative a quello che stiamo producendo. Dico producendo perchè Gheddafi è un prodotto interamente occidentale. Gheddafi nasce come ci hanno spiegato gli storici dentro un meccanismo post-coloniale ma l'utilizzo di un dittatore sanguinario come lui è stato fatto, soprattutto, negli ultimi anni in una chiave che è quella degli interessi occidentali. Una chiave che ha a che fare, per esempio, con il grande ruolo di Finmeccanica all'interno del quadro libico. In questo momento i missili occidentali stanno bombardando postazioni militari interamente di marca Finmeccanica. Su questo ci sono reportage ben documentati. Questo per dire che non è tutto prodotto della Cia, che peraltro appartiene ad un paese che è in grande difficoltà sia interna che esterna dal punto di vista internazionale. Se si dice che tutto è un grande disegno della Cia bisognerebbe leggere i reportage da Bengasi per capire quale è la realtà sotto assedio, sotto i bombardamenti e dove la gente è insorta e vuole l'autonomia da Tripoli, vuole la possibilità di decidere per sé stessa. Tutto questo è accaduto, sta accadendo.
Tutto questo apre dei grandi interrogativi perchè come abbiamo detto anche nei nostri appelli precedenti siamo contro i dittatori che sparano sulla folla che vuole democrazia come succede in Yemen, come succedeva in Egitto, in Tunisia, in Libia ma siamo anche contro la guerra come unica soluzione per creare la democrazia, perchè diventa ovviamente un'altra cosa.
E' evidente che dentro questo meccanismo c'entra il petrolio, la crisi nucleare ..
Quando è la guerra a decidere c'entra dentro tutto quello che noi conosciamo.
Dobbiamo costruire la nostra risposta in maniera diversa, sapendo che il quadro è completamente diverso da quello che abbiamo conosciuto fino ad adesso.
Le cose succedono e cambiano giorno per giorno.
Lo dimostra anche la questione nucleare. Chi mai avrebbe detto quindici giorni fa, che saremmo stati di fronte alla più grande crisi nucleare mai conosciuta anche dal punto di vista delle scelte strategiche dei piani energetici?
Stiamo parlando di un elemento imprevisto che però accade e non stiamo parlando degli tsunami. Dentro questa crisi qualsiasi cosa accade può determinare un cambiamento rapidissimo e un sommovimento enorme. In assenza di una dinamica strutturale di tenuta può succedere di tutto. Come può succedere di tutto in questo momento nella dimensione libica. Adesso mentre sto parlando dicono che si sono fermati i bombardamenti e potrebbe succedere che si apra una soluzione o che, avendo di fronte un pazzo sanguinario instabile, si apra l'ecatombe.
Questo nostro “no alla guerra” è storicamente determinato, perchè sappiamo che la guerra non può essere altro che una risposta data da un mondo sbagliato ai suoi problemi e che non può aprire prospettive positive.
Ma qual'è il nostro “no alla guerra”, che cosa possiamo declinare immediatamente, che cosa possiamo fare?
Dobbiamo stare qui una volta detto “no alla guerra” ad intervenire su quali sono le strategie militari migliori fatte dagli stati? Dobbiamo stare qui a vedere che cosa significa tecnicamente dire guerra o appoggio in difesa di una città? O dobbiamo preoccuparci di quale è il nostro ruolo, di quello che manca?
Questa guerra è stata fatta anche perchè nell'opinione pubblica non c'è possibilità di dare un'appoggio a un dittatore come Gheddafi . Ma quello che manca è che non si parla dell'elemento che è stato preso in ostaggio. E' stato preso in ostaggio il corpo e le vite di migliaia e migliaia di profughi di guerra che vengono dalla Tunisia, dal Maghreb e che vengono e verranno dalla Libia. Vengono presi in ostaggio da una dimensione che è quella di Lampedusa e poi dei campi di concentramento come quello di Mineo.
Credo che questo elemento dell'asilo politico europeo sia il nostro “no alla guerra”.
Sul piano concreto dobbiamo, anche a partire dalla prossima assemblea del 25 a Roma sullo sciopero, creare una sinergia immediata di riflessione perchè lo sciopero significa costruire un opposizione sociale per i diritti per la democrazia in questo paese che deve confrontarsi con quello che sta succedendo in Libia ed anche in Giappone. Sono cose correlate e bisogna costruire un'articolazione, un discorso .
Dentro questo quadro il nostro “no alla guerra” non può che declinarsi con il fatto che dobbiamo costruire azioni di massa di disobbedienza sociale e di azione concreta per tirare fuori i profughi e i richiedenti asilo da posti chiusi, per consentire loro di andare in Europa, dove vogliono.
Io credo che questo, come è stato fatto in termini di indicazione anche al Cie di Bologna , sia oggi l'indicazione del “no alla guerra”.
Non c'è bisogno di manifestazioni che difendano l'esistente in Libia o fare manifestazioni per dire “no alla guerra” senza dare risposte a chi si trova a Bengasi.
Io credo che oggi quello che possiamo fare e che restringe lo spazio della guerra, affermando una democrazia concreta, sia l'allargamento dell'asilo politico. Dobbiamo andare in Sicilia, fare una grande manifestazione a Mineo per tirare fuori la gente, portarla in Francia, in Germania.
Azioni che puntino a violare le frontiere.
Dobbiamo forzare l'elemento dell'asilo politico europeo rispetto a quello che accade in Egitto, in Libia, in Yemen.
Il quadro in cui ci muoviamo è quello della crisi che produce eventi imprevedibili.
Pensiamo anche al Giappone. Tsunami ne accadevano anche nel passato, ma non c'era il nucleare.. ma questo non è l'imprevisto. L'imprevisto è che non c'è una risposta possibile. Non è possibile riassorbire gli effetti in un piano strutturale di tenuta. Oggi si può mettere in discussione il nucleare ovunque, come dimostra il cambiamento repentino delle posizioni non solo europee ma anche del governo italiano o di personaggi come Veronesi.
Tutto questo ci fa dire che gli scenari sono aperti e possono essere agiti dal basso, come è successo nel Maghreb.
Siamo passati dai baciamano ai bombardamenti a Gheddafi. Ma questo perchè c'è stata la rivolta, se la popolazione libica non si ribellava non c'era il problema della guerra a Gheddafi, che era comprabile, comprato e funzionale. Quello che sta succedendo anche in Italia va poi letto anche con le dinamiche interne delle scontro contro Berlusconi se no come si spiega l'accanimento della sinistra contro Gheddafi che peraltro aveva buone relazioni anche sotto il governo Prodi? Gheddafi era un dittatore anche prima, quando è stato contestato alla Sapienza e quando già era utile per fermare i migranti.
Dobbiamo declinare il nostro “no alla guerra” in una forma matura, adeguata al momento.
“No alla guerra” significa porsi il problema della produzioni di armi in questo nostro paese. Un tema che riguarda anche migliaia di operai che ci lavorano dentro.
Dobbiamo cogliere il problema del nucleare anche per costruire una pratica per l'alterativa energetica. Non possiamo semplicemente affidarci ad una catastrofe, dobbiamo rovesciare la Shock Economy per dire che è ora di praticare un alternativa energetica. Il che vuol dire appoggiare i lavoratori dei settori della produzione alternativa di energia contro i tagli degli incentivi.
Dobbiamo noi stessi diventare produttori di energia all'interno dei nostri spazi occupati e liberati.
Oltre che vincere la battaglia contro il nucleare, dobbiamo già praticare l'alternativa al petrolio oltre che la messa in mora del nucleare.
In questo quadro anche il “no alla guerra” come dicevo deve porsi il problema dei profughi,.
Faccio un appello a tutti quelli che stanno dicendo “no alla guerra” per discutere come attaccare dal punto di vista civile i campi di concentramento e forzare le frontiere europee. Sono migliaia di persone che non possono essere trattate come un incidente di percorso da contenere.