Lo sviluppo di un islam intollerante e bellicoso, nel Sahel, non spunta fuori come un coniglio dal cappello.
di Anne-Cécile Robert - traduzione di Geraldina Colotti *
Deciso «d'urgenza», per «combattere il terrorismo», l'intervento francese in Mali ha il sapore delle cose già viste. Torna in mente soprattutto l'Afghanistan e il discorso brandito dal presidente George Bush con il ben noto successo, visto che le truppe occidentali si ritirano oggi penosamente da quel paese. Con tutta evidenza, non è accettabile che gruppi estremisti portatori di violenza e distruzione avanzino verso la capitale di un paese africano, pena la destabilizzazione ulteriore di una sub-regione già in preda a ogni genere di traffico. Devono essere fermati. Tuttavia, una riflessione costruttiva non può limitarsi a queste considerazioni, per quanto vere. Si correrebbe infatti il rischio di mal interpretare gli avvenimenti e, soprattutto, di consentirne la ripetizione, lì o altrove.
Lo sviluppo di un islam intollerante e bellicoso, nel Sahel, non spunta fuori come un coniglio dal cappello. Prospera sul crollo degli stati della regione, sull'impoverimento dei loro servizi pubblici e del loro esercito, e sull'impoverimento delle loro popolazioni. Le potenze come la Francia non possono evitare di assumersi le proprie responsabilità a questo riguardo. Da decenni, promuovono e impongono, direttamente o attraverso le Istituzioni finanziarie internazionali (Ifi), politiche economiche ultraliberiste che distruggono pezzo per pezzo le società africane.
Le privatizzazioni, e il sostegno accordato alle imprese private predatrici, hanno smembrato il tessuto sociale ed esacerbato le disuguaglianze. In Mali, lo smantellamento della filiera cotonifera decisa dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, e quello sistematico della vecchia rete ferroviaria sono stati il simbolo di una ideologia cieca di cui Parigi vanta costantemente i meriti. La vigorosa ed esemplare protesta dei contadini e lo sciopero dei lavoratori delle ferrovie sono purtroppo passati inosservati, e a volte sono stati repressi con violenza dalle autorità. In Niger, l'arroganza della compagnia francese Areva, che sfrutta l'uranio per alimentare le centrali nucleari, colpisce da tempo le popolazioni locali e contribuisce a derubare i tuareg. Dopo aver messo in atto, negli anni '50, una originale politica di sviluppo, le Comunità europee, oggi l'Unione europea, si sono allineate sulle Ifi. L'Unione ha specificamente soppresso i fondi Stabex e Sysmin, che permettevano di stabilizzare i prezzi delle materie prime, altalenanti sui mercati mondiali. Per numerosi paesi africani, la cui economia poggia spesso sull'esportazione di una sola di queste materie prime, la variazione dei corsi costituisce una catastrofe poiché impedisce ogni previsione seria delle entrate nazionali e sottomette l'economia locale a brutali e imprevedibili soprassalti. Nel 2000, per soddisfare le esigenze dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che giudicava questi meccanismi un attentato al libero-scambio, l'Unione ha messo fine agli Stabex e Sysmin con gli accordi di Cotonou. Dal canto loro, le Ifi hanno intonato il ritornello delle privatizzazioni finendo di destabilizzare intere filiere economiche, come quella del cacao in Costa d'Avorio. Parigi non ha avuto niente da obbiettare a queste misure distruttrici e oggi finge di stupirsi delle conseguenze. Il regime decrepito di Bamako è stato tenuto in vita da Parigi e dalla «comunità internazionale» fino a che un colpo di stato ha squarciato il velo dei bei discorsi «sull'esemplare democrazia maliana». Da tempo, i maliani denunciavano la corruzione e l'incuria dei dirigenti, così lontani dalle loro preoccupazioni quotidiane, e incapaci di accorgersi che il Nord del paese costituiva l'anello debole di una regione destabilizzata. La nomina di Sheikh Diarra, un ex di Microsoft, come primo ministro ha sintetizzato fino all'inverosimile l'incapacità di comprendere il rifiuto verso gli eccessi dell'economia di mercato. Un secondo colpo di stato, alla fine del 2012, ha riportato tutti alla realtà. La Francia, come l'insieme delle altre potenze, naviga a vista e in base all'emergenza, senza analizzare le dinamiche di fondo che minano la sub-regione. La ribellione tuareg, stanca di aspettare una soluzione alle sue rivendicazioni - espresse a partire dalle indipendenze, nel 1960 -, ha scelto di allearsi con i gruppi islamisti le cui idee, tuttavia, non condivide. Il Niger e il Mali, con l'approvazione della «comunità internazionale», si accontentano da decenni di canalizzare, con accordi parziali e poco rispettati, le aspirazioni dei tuareg. Era senz'altro prevedibile che gli «uomini del deserto» avrebbero finito per riprendere le armi e per cercare aiuto dove potevano trovarlo. Non è forse tempo di studiare seriamente, per esempio con una conferenza delle Nazioni unite, il progetto di federazione proposto dai tuareg? Certo, la Francia può vincere militarmente la battaglia ingaggiata con i gruppi islamisti, facendo bella figura. Ma cosa succederà poi? L'instabilità politica del Mali sarà per questo risolta? Le popolazioni ritroveranno prospettive di futuro? Parigi cesserà di sostenere regimi corrotti e predatori, come quello del Ciad, chiamato alla riscossa dall'esercito francese? Le istituzioni finanziarie internazionali riconosceranno la loro responsabilità nell'impoverimento delle popolazioni e nel crollo degli Stati? L'Unione europea rimetterà in questione la sua obbedienza alle prescrizioni distruttrici dell'Organizzazione mondiale del commercio? Essendo le risposte a queste domande tutte negative, c'è da scommetterci che la «comunità internazionale» continuerà ancora per molto tempo a giocare al pompiere piromane.
* ( traduzione di Geraldina Colotti ) * Responsabile delle edizioni internazionali di Le Monde diplomatique