di Angel Luis Lara
1. Migliaia
di persone hanno marciato per le strade di Manhattan il 1 maggio
2012. La pacifica invasione di colori e gesti ha dipinto la città di
cristallo di una novità inusitata: anche i più vecchi del luogo non
ricordavano una mobilitazione così ampia e così partecipata in una
data storicamente evaporata dall'immaginario collettivo di New York.
Occupy
a volte si trasforma in una energia senza padrone capace di operare
questo tipo di miracolo. Ma si è parlato appena della magia
multitudinaria di questo 1 maggio nella città. Le storie di quel
giorno non esisteranno per la Storia. Quasi tutte loro parlano
dell'allegria di stare insieme e la sorpresa di essere tanti e tante.
Tutti ci siamo sorpresi di vederci così coinvolti. Tra tutte
le bellissime immagini prodotte da quella giornata, ce n'è una che
sopravvive nella mia retina sopra tutte le altre: in mezzo ad un
nutrito gruppo di donne migranti spiccava una anziana dai tratti
asiatici. Sopra la sua testa, le sue mani magre sostenevano un
cartello dove si poteva leggere: “Per tutti, tutto, niente per
noi”. Sotto la frase scritta in castigliano c'erano quattro
lettere: “EZLN”.
2. Louis Althusser ci ha lasciato un testo bellissimo prima di soccombere al dolore irrimediabile della sua follia: La corrente sotteranea del materialismo dell'incontro. In questo scritto ha preso in prestito da Epicuro il concetto di clinamen: la deviazione casuale di un atomo dalla sua traiettoria genera la nascita di nuove ed inaspettate causalità. Althusser ha proposto questo potente concetto come vettore di una forza materialista capace di debordare per complessità la tradizione razionalista e deterministica. Che una anziana asiatica si riconosca nelle strade di Manhattan nella ribellione di un popolo maya del sudest del Messico è un puro clinamen. Prova che le comunità zapatiste stanno dando vita ad un vero materialismo dell'incontro, capace non solo di resistere contro vento e maree, ma di durare nella Storia senza lasciare di circolare nelle storie.
Quest'inverno
gli zapatisti sono riapparsi davanti ai nostri occhi in maniera
inaspettata, come fanno quasi sempre. Sono, probabilmente, la
maggiore delle deviazioni e il più bel principio di
indeterminazione: puro clinamen. Forse è per questo che quelli che
si mostrano incapaci di spogliarsi del determinismo della certezza
sono determinati a non capirli. Chi dice che il passato dicembre è
stato il mese della resurrezione zapatista si sbaglia. Per
resuscitare bisogna prima morire. Gli zapatisti hanno deciso di
morire il primo gennaio di diciannove anni fa, però sono vissuti. Da
allora non hanno smesso di costruire nei loro territori quello che fa
capo a divenire l'esperienza collettiva di emancipazione più degna e
duratura della nostra storia recente. John Berger dice della figura
migrante nel suo libro Un
settimo uomo:
“la naturalità con la quale la gente, le istituzioni, le norme
quotidiane di etichetta della metropoli, gli argomenti e le frasi
fatte, decretano la loro inferiorità non sarebbe tanto complessa ed
inequivoca se la loro azione e il conseguente status inferiore
fossero nuovi. E' stato qui fin dal principio.” Gli zapatisti non
ritornano, perchè non se ne sono mai andati.
3. Questo ultimo autunno abbiamo ricevuto a New York la visita degli amici argentini del Colectivo Situaciones. Nelle nostre conversazioni presto è affiorato un paradosso che ci risultava certamente comune: il prolungato silenzio delle comunità zapatiste ci aveva lasciato in una specie di stato come da orfani, mentre nello stesso tempo abbiamo letto nei nuovi movimenti e abbiamo respirato nelle piazze, di Puerta del Sol a Madrid o nel distretto finanziario newyorchino, una potente risonanza di una qualità nettamente zapatista. In agosto, il dirigente contadino peruano Hugo Blanco si era già diretto al movimento #YoSoy132 per segnalargli l'importanza di queste risonanze. Tre mesi dopo, in un incontro con la gente di Occupy Wall Street, Amador Fernández-Savater, uno degli amici che hanno compreso meglio l'entità e ha raccontato il movimento 15M, segnalava lo zapatismo come uno dei materiali imprescindibili per la costruzione di una geneologia possibile del movimento in Spagna. Sono tratti di una geometria comune che osserva nelle nuove dinamiche di movimento l'esistenza di una specie di incosciente collettivo zapatista, precisamente nel senso nel quale Deleuze e Guattari proponevano pensare l'incoscente: come una macchina di decodificazione e deterritorializzazione.
Come
ha segnalato Don Pablo González Casanova pochi giorni fa, tra le
numerose e potenti decodificazioni realizzate dallo zapatismo, spicca
l'aver situato l'azione politica e il desiderio di emancipazione più
in là della dicotomia sinistra/destra. Questo è, precisamente, uno
degli esercizi di deterritorializzazione che caraterizza i movimenti
di nuovo tipo come #YoSoy132 o 15M. Inoltre, la preoccupazione
sincera e profonda per una democrazia vera, la difesa della
differenza, la distanza irriconciliabile con i partiti e con quelli
che dall'alto sono il malgoverno, così come il progetto di
sprivatizzazione della politica per farla diventare patrimonio di
chiunque, costituiscono ugualmente elementi della linfa che
attraversa i nuovi movimenti, affrattelandoli incoscientemente con
delle comunità zapatiste che finora avevano vissuto nella pelle
dello spoiler:
ci hanno anticipato quello che sarebbe successo negli episodi che
ancora non abbiamo visto. Gli zapatisti hanno sempre avuto questo
problema di disubicazione storica: ci hanno raccontato il futuro da
quasi due decadi. Ora questo futuro non esiste più, perchè si è
fatto presente. L'incosciente zapatista dei nuovi movimenti e la sua
connessione con i desideri multitudinari di una nuova vita espressi
da tanti e tante nelle piazze di mezzo mondo, suggeriscono che la
disubicazione storica è sparita. Questo è, definitivamente, il
tempo degli zapatisti.