Kobane è libera, ma deve fare i conti con la ricostruzione.
L’80% della città è distrutta e su 525,000 abitanti, solo 25,000 sono rimasti sul territorio, gli altri sono dispersi tra i campi profughi della Turchia e degli altri paesi limitrofi. Per aiutarli a tornare a casa è necessario bonificare la città e ricostruirla.
Per questo il governatore Enwer Muslim ha rivolto un appello alla comunità internazionale, affinché vengano inviati gli aiuti necessari (le coordinate per gli aiuti sono: Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus. IBAN: IT63P0335901600100000132226. Causale: Ricostruzione Kobane).
Nel frattempo, i tre volontari italiani che dalla Sicilia hanno raggiunto il Rojava, dopo diversi giorni di attesa nel territorio di Kobane, sono riusciti a incontrare le donne curde combattenti, i cui volti rimbalzano nei media di tutto il mondo. Di seguito, riportiamo la conversazione svolta nella base operativa delle YPJ con cinque combattenti:
Perché hai fatto questa scelta di entrare nelle YPJ?
“Perché le donne sono sofferenti. Vediamo la sofferenza delle donne non solo qui ma anche nei vostri Paesi. Noi lottiamo per tutte le donne del mondo. Io in particolare sono nata in Germania, sono stata in giro per l’Europa e in uno di questi Paesi ho fatto giorni di reclusione in prigione per motivi politici. Poi ho deciso di venire qui in Kurdistan e anche le mie amiche sono tutte venute qui. Ho letto gli scritti di Öcalan e dopo ciò ho assunto uno sguardo più globale riguardo la situazione politica in generale e delle donne in particolare”.
Perché sei venuta in Kurdistan?
“Perché voglio la rivoluzione”.
Cosa intendi per rivoluzione e perché pensi che il Kurdistan sia particolarmente significativo da questo punto di vista?
“Conoscete forse qualche altro movimento nel mondo che chieda la libertà per il popolo curdo?”.
La tua famiglia?Come ha accolto questa scelta?
“Io ho 28 anni. Combatto da 7 anni. La mia famiglia è venuta con me quando ho deciso di partire e ora è qui”.
“Io in questo momento non ho nessun contatto con la mia famiglia. Ma quando ho preso questa decisione loro hanno approvato, perché era una scelta per tutte le donne e per una umanità sofferente”.
Ci sono donne non di Kobane nelle YPJ in questo momento?
“Tra le combattenti ci sono donne da tutta l’Europa: Germania, Inghilterra, Italia… Anche dalla Colombia. Ma in questo momento non combattono a Kobane”.
Come hai conosciuto le YPJ?
“Quando é iniziata la rivoluzione in Rojava ho saputo di questa parte speciale del movimento. Questa parte presente in tutto il movimento curdo. Anche lì dove ci sono i peshmerga, nonostante la loro presenza, li è persino più forte il movimento combattente femminile”.
Cosa pensi delle relazioni lesbiche? Come vivi il fatto di non avere relazioni?
“Se scegli di entrare nelle YPJ scegli di abbandonare le tue personali relazioni d’amore. Le relazioni lesbiche sono anch’esse relazioni d’amore. Se ami la persona con cui stai puoi anche scegliere di abbandonarla per amore dell’umanità tutta, per amore delle persone oppresse. Questa è la parte militare del movimento. Se scegli di combattere è impossibile farlo mentre pensi “Cosa farà la persona che amo se io muoio?”. Per questo stesso motivo la maggior parte di noi sceglie anche di non avere figli”.
Secondo voi perché tra le persone che attualmente combattono in Kurdistan ci sono più YPJ che YPG?
“Tra le donne c’è il sentimento materno. Vedere i bambini di tutto il mondo soffrire ci rende più forti e coraggiose, a differenza degli uomini che non possiedono questo specifico istinto”.
Hai mai avuto dubbi rispetto alla voglia di essere madre?
” No. Noi non abbiamo mai perso la voglia di essere madri, ma questa maternità questo amore, è per tutti i bambini, per l’umanità. Non è mai successo che una YPJ cambiasse idea, e avesse voglia di uscire dal movimento e avere dei figli. Oggi le donne in Kurdistan stanno scrivendo la storia, è importante fare domande su questo”.
Cosa pensate quando siete al fronte a combattere, insieme agli uomini?
“Noi al fronte non combattiamo solo contro il nemico, ma anche contro il dominio dell’uomo sulle donne e contro il capitalismo. Dunque siamo insieme agli YPG e se ci sono delle incomprensioni si risolvono dopo con dei meeting, non appena c’è l’opportunità”.
Avete percezione del fatto che ciò che fate è una spinta per il movimento femminile in tutto il mondo? “
Certamente”.
Ci sono particolari momenti nella vostra vita da combattenti al fronte di cui volete parlare?
“E’ difficile spiegare il nostro spirito quando si è al fronte. Noi non vogliamo uccidere persone. Ma, mentre combattiamo, sappiamo cosa fanno i daesh (nome curdo che indica le truppe dell’Isis) . Noi lottiamo per l’umanità. Sappiamo che se non li uccidiamo noi ci uccidono loro. Ma il momento della battaglia non si può descrivere a parole: solo standoci si può capire veramente cosa si prova. Conoscete il racconto delle quattro farfalle? Quattro farfalle volavano attorno al fuoco, la prima più distante capì che il fuoco era vita, e tornò dalle altre a riferirlo. La seconda, incuriosita, si avvicinò attratta dalla luce e scoprì che il fuoco dava luce, e tornò a riferirlo alle altre. Anche la terza andò verso il fuoco, sempre più vicino, e scoprì che dava calore; e lo riferì. La quarta voleva comprendere fino in fondo lo spirito del fuoco: si avvicinò, dunque, talmente tanto che morì arsa dalle fiamme”.
E’ mai capitato che parlaste col nemico nel momento del combattimento?
“No. E’ capitato che i daesh parlassero attraverso le ricetrasmittenti per tentare di deprimerci psicologicamente, ad esempio fingendo di avere tra le mani una nostra compagna e descrivendo gli abusi e le torture su di lei. La nostra risposta era: “Perderete”.
Avete visto daesh visibilmente drogati?
“Si, sappiamo che assumono extasy ma sulla linea del fronte, li abbiamo visti spesso iniettarsi in vena nelle braccia sostanze di cui non sappiamo l’origine. Il loro corpo, una volta morti, diventava come di plastica. Durante il combattimento è necessario colpirli più volte alla testa per ucciderli. Solitamente i loro corpi si decompongono molto più lentamente”.
Sospendiamo la conversazione: è ora di pranzo e alcune di loro hanno cucinato per tutti. Dunque mangiamo insieme e una volta finito continuiamo a conversare.
Cosa pensi della situazione politica e sociale in Europa? Pensi che sia possibile un movimento ugualmente forte anche lì?
” L’Europa sta attraversando un momento molto complesso. E’ urgente che anche lì sorga un movimento forte, ma non sarà mai uguale a quello curdo. Ogni movimento ha bisogno di rintracciare e scoprire una propria specifica identità’”.
A questo punto è una di loro a porre una domanda:
“Pensi che in questo momento le donne in Italia o in Europa siano libere?” No.
“Dunque è urgente e necessario che le donne si sveglino in tutto il mondo. Il patriarcato storicamente è stato ed è tutt’ora oppressione degli uomini sulle donne. Questo rafforza il sistema capitalistico. Dunque un movimento è forte se a risvegliarsi e a lottare inizia la parte oppressa. Il movimento contro il patriarcato è forte se a lottare sono le donne in prima linea. Ci siamo mai chiesti perché non ci siano state mai singole donne alla guida di un movimento o di una rivoluzione? Perché ogni qualvolta questo accadeva il potere le reprimeva. Per questo motivo è importante studiare e conoscere la storia dell’umanità, e delle donne come, ad esempio, Rosa Luxemburg… Per rendere un movimento forte e sempre in grado di migliorarsi, è necessaria la pratica dell’autocritica: criticare e autocriticarsi è fondamentale per costruire relazioni alla pari e superare i problemi che si pongono. Ricevere una critica non deve suscitare rabbia. Nel criticare e autocriticarsi riconosco i miei amici e questo mi aiuta ad essere una persona sempre migliore”.
In tutto questo, gli uomini cosa fanno?
“Se il movimento è forte ed è in atto una rivoluzione antipatriarcale, gli uomini “supportano”. Non bisogna mai credere nell'esistenza di una rivoluzione solo perché qualcuno lo dice. Così come non esiste vittoria senza dolore e sofferenza”.
Hai mai amato un uomo?
“Ho avuto varie relazioni quando ero più piccola ma nessuna rispondeva a quel che sentivo profondamente; fin quando ho deciso di abbandonare tutto questo e iniziare a combattere. In molti modi il capitalismo ci allontana dall’essere veramente noi stesse. Anche indossare accessori o piercing o cambiare il colore dei propri capelli è un modo per allontanarci da quello che siamo, perché se non ci fossero le fabbriche che producono i prodotti per il makeup, non sentiremmo questo tipo di esigenza”.
Ma talvolta uno stile strano può rappresentare, in certi contesti, una rottura degli schemi preimpostati, delle forme di immagine dominanti.
“Si, siamo consapevoli di questo. Esistono anche culture ancestrali come quella degli aborigeni, che usano molto agghindare il proprio corpo con oggetti di vario tipo, metalli o tatuaggi. Queste culture hanno un fortissimo legame con la terra e con la natura, vivono in armonia con essa: “con” e non “contro”. Ma il presidente australiano ha fatto un appello per la salvaguardia di questa popolazione aborigena che e’ in via di estinzione. Il capitalismo la sta piano piano distruggendo”.
Secondo voi è possibile uscire dal sistema capitalistico restando in un contesto urbano?
“No. E’ necessario ristabilire il contatto con la natura, dunque bisogna uscire dalla città, per poi anche tornarci. Ma è necessario recarsi nei luoghi della natura”.
di Eleonora Corace