martedì 20 agosto 2024

Kurdistan - Quaranta anni fa il PKK iniziava la lotta armata

Così era cominciata….


di Gianni Sartori

Verso la fine degli anni sessanta, complice il clima di rivolta che si aggirava per l’intero pianeta, l’allora studente in scienze politiche all'università di Ankara, il curdo Abdullah Ocalan e alcuni studenti turchi decisero di organizzarsi con un programma politico di sinistra che però non contemplava la questione curda. Un colpo di Stato nel 1971 stroncò sul nascere le loro velleità: arresti quotidiani e uccisioni in massa (molti saranno impiccati) ridussero ai minimi termini l’area legata alla sinistra radicale turca. Anche Abdullah Ocalan viene arrestato; trascorre in carcere sette mesi durante i quali valorizza la sua identità curda approfondendo la storia della sua nazione. Quando esce, insieme a due turchi, Haki Karer e Kemal Pir, promuove una conferenza ad Ankara, propedeutica ad un successivo seminario ed esordisce affermando che, all'interno dello Stato nazione turco, sono presenti due nazionalità: quella turca e quella curda. I tre danno vita ad un movimento che fino al ‘75 si impegna nello studio della storia curda, nella formazione politica dei militanti e del loro inquadramento nell’organizzazione. Le autorità turche seguono con attenzione il movimento; di contro, le organizzazioni di sinistra turche negano ogni sostegno politico e finanziario. Nel 1975, tra i 40 e i 50 studenti decidono di rientrare in Kurdistan sparpagliandosi in 2-3 per città e paesi. I risultati non si fanno attendere e dopo circa tre anni, nel ‘78, parte della popolazione li sosteneva apertamente. Nel ‘77 il governo turco fa assassinare dai servizi segreti un esponente turco del movimento. Il messaggio è evidente: tutti i militanti sono a rischio. Il ‘78 vede la nascita del PKK. La repressione si fa più brutale e molti civili vengono massacrati dagli squadroni della morte. È storicamente confermato che colpo di Stato del 1980 venne attuato per colpire innanzitutto i curdi e, tangenzialmente, le organizzazioni della sinistra turca. Le autorità sono a conoscenza del fatto che nel frattempo il PKK sta allestendo basi per praticare la guerriglia e migliaia di militanti del PKK vengono arrestati. Nel 1982 la lotta si estende nelle carceri, condotta da 7-8 mila prigionieri politici. Solo 200 militanti, tra cui Ocalan, sfuggono alla repressione spostandosi in Libano. Intanto nel Kurdistan la repressione prosegue ad alti livelli di intensità. Libri scritti in curdo vengono bruciati, la popolazione è sottoposta quotidianamente a minacce e vessazioni; ma è sui numerosi prigionieri che si concentra la brutalità del governo che cerca di innescare dinamiche di “pentimento” e delazione. Alcuni fondatori del partito vengono rinchiusi nel carcere di Diyarbakir. Durante il capodanno curdo – Newroz – che cade il 21 marzo e che è stato vietato negli anni Venti dalla repubblica turca, Haki Karer, si dà fuoco per lanciare un segnale alla popolazione. Il medesimo gesto estremo verrà compiuto, in maggio, da altri quattro dirigenti. Un mese dopo, sempre nel carcere di Diyarbakir, Kemal Pir muore dopo 65 giorni di sciopero della fame, seguito da altri quattro militanti. Per tutto l’82 continua la preparazione alla guerriglia presso i campi palestinesi che offrono ai 200 militanti del PKK la possibilità di addestrarsi. Il PKK contraccambia partecipando alla guerra contro gli israeliani nella quale rimangono uccisi 20 curdi. Nel 1983 Ocalan indice la prima conferenza con la quale annuncia l’intenzione di tornare nel Kurdistan insieme a 200 guerriglieri per intraprendere la lotta armata, considerata come l’unica possibilità contro la politica etnocida del governo turco.

Il 15 agosto 1984 trentasei guerriglieri guidata dal comandante Egîd (Mahsum Korkmaz) attaccarono un commissariato della polizia militare a Eruh (Bakur, Kurdistan del Nord, entro i confini della Turchia). Nello scontro a fuoco persero la vita una guardia e un ufficiale turchi. Nessuna perdita tra i guerriglieri.

Subito dopo, da una moschea di Eruh, venne proclamata la dichiarazione delle Hêzên Rizgarîya Kurdistanê (HRK, Forze di Liberazione del Kurdistan; un esplicito riferimento alle originarie Unità per la Liberazione del Vietnam): “Le HRK hanno come obiettivo quello di lottare per l’indipendenza nazionale del nostro popolo, per una società democratica, la libertà e l’unità, dirette dal PKK armato contro l’imperialismo e il fascismo coloniale turco”.

Alla prima azione ne seguì immediatamente un’altra sotto il comando di Abdullah Ekinci (Ali) a Şemdinli. Dove venne attaccata, con lanciagranate, una caserma.

Con duri scontri tra guerriglieri e soldati turchi.

Inoltre, se pur per breve tempo, entrambe le città rimasero sotto il controllo della guerriglia.

Si trattava dei primi segnali di opposizione al regime dopo il golpe del 12 settembre 1980. Da allora il 15 agosto per molti curdi è considerato “giorno festivo”.

Nei suoi diari, resi noti solo successivamente, il comandante Egîd confessava di aver sofferto molto per i dolori alle gambe (probabilmente per una malattia congenita) che gli impedivano quasi di camminare durante la lunga marcia di avvicinamento. Problema che non rivelò ai suoi compagni preferendo stoicamente soffrire in silenzio. Inevitabile l’analogia con la situazione patita da Ernesto CHE Guevara sia a Cuba che in Bolivia a causa dell’asma.

Nel caso l’attacco non avesse avuto buon esito, il “piano B” prevedeva che i guerriglieri si ritrovassero ai piedi della montagna di Çirav.

Arrivati a Eruh verso le ore 21 del 15 agosto (dopo aver studiato a lungo da lontano l’obiettivo con i binocoli), i guerriglieri si divisero in tre unità. I primi spari colpirono il posto di guardia, poi con i lanciagranate venne abbattuto il piano superiore della gendarmeria. Mentre parte dell’edificio cadeva in mano ai combattenti curdi, (seminando il panico tra i soldati turchi) un’altra colonna invadeva la mensa ufficiali.

Mentre per diverse ore la città restava sostanzialmente sotto il controllo curdo, vennero distrutti l’ufficio postale, una banca, i veicoli dei militari…Inoltre molto materiale amministrativo (documenti) venne confiscato . Un camion intero non bastava a contenerlo per cui una parte venne trasportata con i muli.

Per il giorno 18 agosto l’unità guerrigliera era ritornata sana e salva alla base tra le montagne.

Una svolta storica, si diceva. Paragonabile a quella intrapresa dal PAC (Poqo) e dall’ANC (Umkhonto we Sizwe) dopo il massacro di Sharpeville (21 marzo 1960) in Sudafrica. Non tanto per aver imbracciato le armi dopo decenni di resistenza passiva (il che non impediva al regime turco di condannare all'impiccagione i dissidenti), ma soprattutto per aver “cominciato a riorganizzarsi, a riappropriarsi della propria identità, a rivendicare il diritto all'autodeterminazione” (come ha ricordato Besê Hozat, co-presidente del Consiglio esecutivo del KCK).

Un riferimento storico (all'epoca almeno) non solo per i curdi, ma per altri popoli. Sia maggioritari che minoritari, più o meno oppressi, sfruttati e marginalizzati. Ma che è costato immensi sacrifici: sarebbero almeno 50 mila i curdi caduti in questa lotta di liberazione. Una lotta, va ricordato, che comunque ha saputo evolversi, aggiornarsi. Approfondire, sviluppare tematiche che forse 40 anni fa non erano ancora così presenti alla consapevolezza di tutto il movimento (ecologia, femminismo…).

tratto da osservatorio repressione

sabato 6 luglio 2024

Italia - Appello - Basta violenza In Messico! Basta violenza in Chiapas!

 A seguito della crescente violenza in Chiapas e agli appelli dei centri dei diritti umani abbiamo pensato di attivarci per dare un segnale di vicinanza e provare ad ampliare le grida che dal sud - est messicano arrivano. 

Abbiamo ricevuto decine di adesioni all'appello e altre ancora si aggiungono.

Per chi volesse può scrivere alla mail: 

cooperazionerebeldenapoli@gmail.com

Terremo aggiornato il file delle adesioni che trovate al link 

https://tinyurl.com/2s4fpr7h

Saluti e grazie a tutt@
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Basta violenza in Messico!
Basta violenza in Chiapas!

Le elezioni 2024 hanno fotografato, e reso ancora più evidente, come la violenza in Messico sia un fattore sistemico. La guerra per il controllo del territorio ha svilito il valore della vita, si ammazza per pochi pesos in tutto il paese. Il Chiapas, oggi, è uno degli stati dove la violenza si è fatta feroce. 

Dal confine con il Guatemala a Palenque, passando per i territori d'influenza zapatista, morti, paura e fughe dalle comunità sono diventate una norma di una realtà dove il mai risolto fenomeno paramilitare si è incontrato con i gruppi del crimine organizzato e le logiche di estrazione di ricchezza dai territori. 

Così oggi a Pantelhò, Tila e Chalchihuitán le persone scappano e si accampano in posti di fortuna, al confine con il Guatemala i gruppi criminali si contendono lo sfruttamento delle rotte migratorie e il controllo del traffici – legali ed illegali – che attraversano la la frontiera e la Guardia Nazionale, stanziata in migliaia di unità guarda senza intervenire. 

La politica del governo di Andres Manuel Lopez Obrador “Abrazos, no balazos” è naufragata e nel suo sessennio si contano già oltre 130mila morti. 
La nuova presidenta Claudia Sheinbaum parla di continuità con le politiche fallimentari di AMLO e annuncia investimenti e finanziamenti alla Guardia Nazionale. 

In questo scenario che si può solo riassumere con il termine “guerra” nonostante le donne e gli uomini dell'EZLN propongono un ponte di coesistenza e convivenza provando a rompere le logiche proprietarie del territorio creando campi “comuni” da coltivare assieme a chi zapatista non è, una base di appoggio dell'EZLN, José Dìaz è costretto al carcere preventivo come altre decine di prigionieri politici (la maggior parte dei quali indigeni).

Diciamo basta alla violenza in tutto il Messico ed in Chiapas.

Basta alla criminalizzazione dei movimenti sociali ed indigeni del paese.

Per il rispetto dei diritti e della dignità dei popoli indigeni e non solo.

Militarizzazione, grandi opere, e politiche estrattive non sono soluzione alla violenza, sono parte del problema.

Promuovono:

Realtà collettive:
Associazione Ya Basta! Milano
Comitato Maribel - Bergamo
Cooperazione Rebelde - Napoli

Singoli:
Andrea Cegna - Giornalista freelance e lavoratore dello Spettacolo

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!