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venerdì 27 maggio 2016

Turchia - Alla deriva verso un fascismo postmoderno

Intervista a Faysal Sariyildiz, parlamentare HDP per il distretto di Cizre/Şirnak. In Europa per raccontare il massacro compiuto dall'esercito turco nella città di Cizre. A rischio arresto dopo la revoca dell'immunità parlamentare.
di Giansandro Merli
La revoca dell'immunità ai parlamentari colpirà esponenti di tutti i partiti politici. L'AKP di Erdogan, come l'HDP dei curdi, fino ai nazionalisti del MHP e ai kemalisti del CHP hanno diversi esponenti sotto inchiesta. Perché dite che si tratta di una misura per far fuori le opposizioni, e in particolare quella curda?
Questa misura è contro le opposizioni e soprattutto contro l'HDP perché nonostante l'immunità viene revocata a tutti i parlamentari, non tutti saranno trattati allo stesso modo o arrestati. Si tratta di una decisione per far arrestare i deputati curdi e per cancellare l'area politica dell'HDP. In Turchia non esiste una magistratura indipendente. I giudici sono subalterni ad Erdogan. Pensate che quando abbiamo raccolto i cadaveri a Cizre, alcuni esponenti della magistratura hanno detto che quei corpi non erano umani, ma erano corpi di animali. L'immunità è stata revocata per eliminare l'HDP e imprigionare tutti i deputati che cercano di lavorare per la democrazia. Hanno già iniziato ad aprire i processi contro di noi, accusandoci di essere parte di un'organizzazione terroristica [il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, PKK, n.d.r.]. In questo momento, stanno attaccando, anche militarmente, tutte le forze democratiche e i singoli deputati. Tribunali, polizia e AKP collaborano per farci fuori dal Parlamento.
C'è differenza tra le accuse penali rivolte ai parlamentari dell'HDP e quelle che riguardano gli esponenti delle altre forze politiche?
Sì, le indagini contro di noi riguardano interventi in pubblico e dichiarazioni politiche. Ci accusano di fare propaganda per un'organizzazione terroristica. Si tratta quasi esclusivamente di reati d'opinione. A parte il mio caso, che è un'eccezione. Io sono accusato di aver fatto entrare delle armi nella città di Cizre, durante l'assedio, nascondendole all'interno di una bara. Perfino la stampa ha negato questa accusa: ci sono foto che dimostrano che trasportavo un cadavere, ma senza alcuna bara. Per tre mesi sono stato l'unico deputato a poter entrare nella città. In quel periodo, sono successe cose orrende. Una volta sono stati uccisi tre anziani e quando hanno portato i loro corpi all'obitorio gli hanno messo delle pistole nelle mani, sostenendo che fossero terroristi.
Per quanto riguarda le inchieste contro i parlamentari dell'AKP, si tratta principalmente di accuse di corruzione (corruzione che riguarda anche dei ministri). Gli esponenti del CHP, invece, sono accusati per la maggior parte di reati connessi all'oltraggio verso il Presidente della Repubblica. Anche per quanto riguarda i numeri ci sono grandi differenze. Il CHP ha 51 parlamentari indagati in 179 processi. L'AKP, 27 parlamentari in 46 processi. L'MHP, 7 parlamentari in 17 cause. L'HDP, 49 parlamentari in 354 processi. Anzi, scusate... proprio mentre parlavo i parlamentari sotto indagine sono diventati 53. Su 59 presenti in Parlamento.
Perché alcuni parlamentari del CHP hanno votato a favore di questa riforma?
Quello che abbiamo letto sulla stampa è che i militari hanno esercitato forti pressioni sul partito, partecipando anche a una riunione del comitato centrale. Non tutto il partito ha votato a favore della revoca dell'immunità, ma solo il suo esecutivo. Ritengono l'HDP un pericolo e vogliono “proteggere lo Stato”, anche sostenendo Erdogan. Hanno detto sin dall'inizio che avrebbero votato per la revoca, nonostante questa misura contraddica il dettato costituzionale. Ormai la popolazione turca sta scivolando rapidamente verso uno sciovinismo sempre più estremo, per cui nessun partito si assume la responsabilità di proteggere l'HDP. E non dimentichiamo che il CHP è una formazione politica fortemente inserita all'interno degli apparati dello Stato turco. È una vergogna che questa organizzazione sia ancora membro del Partito Socialista Europeo! [di cui fa parte il PD e, per la Turchia, lo stesso HDP, n.d.r.].
Quale sarà la risposta dell'HDP e del movimento curdo nel caso in cui i parlamentari vengano arrestati?
Non è ancora stato deciso. Noi vogliamo condurre una lotta democratica e politica all'interno della Turchia. Ma ovviamente ci sono delle variabili. Il nostro co-presidente ha detto che se questa misura verrà portata fino in fondo, come partito saremo rispettosi delle decisioni del popolo. Ci saranno assemblee regionali per scegliere le forme di lotta. Anche perché la situazione nel Kurdistan turco continua ad essere molto tesa. A Şirnak ci sono scontri continui e l'esercito turco sta subendo molte perdite. Nonostante non vogliano ammetterlo e per non far crollare il morale dei soldati nascondano perfino i corpi dei militari caduti.
La revoca dell'immunità ha provocato alcune reazioni a livello internazionale. Il Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz ha condannato questa decisione. Mentre Angela Merkel ha minacciato di fermare la liberalizzazione dei visti se la Turchia non rispetta la democrazia, cioè «un sistema che si basa su una magistratura indipendente, una stampa indipendente e un parlamento forte». Tre pilastri già abbondantemente crollati nel paese di Erdogan. Dopo tutto quello che è accaduto in questi mesi, l'accordo sui rifugiati, il silenzio sul massacro di Cizre, secondo l'HDP il processo di integrazione europea può ancora essere un fattore di democratizzazione dello Stato turco oppure no?
L'Europa ha i suoi principi e noi crediamo che possa spingere la Turchia verso una democratizzazione dello Stato. Con questo obiettivo, abbiamo sempre sostenuto il fatto che l'applicazione dei principali protocolli internazionali sui diritti umani fosse prerogativa per l'ingresso nell'UE. E questo sarebbe un bene, perché tutti sappiamo che la Turchia vive una pericolosa deriva verso una forma di fascismo postmoderno. In queste settimane ho girato tanto in Europa e ho incontrato esponenti di numerosi partiti: tutti sanno bene che Erdogan ha costruito un governo autoritario e fascista. Il problema è che continuano a perseguire un pragmatismo miope. E questa miopia diventa ancora più grave nel momento in cui la Turchia affonda a causa dell'autoritarismo di Erdogan. Se non cambia la prospettiva, l'Europa rischia di subire conseguenze molto pesanti: Erdogan sta usando tutte le armi a sua disposizione, dal sostegno a Daesh ai flussi migratori provenienti dalla Siria. La realpolitik europea fa finta di non vedere chi ha mandato camion pieni di armi ai terroristi di Daesh (fatto documentato da foto e articoli di giornalisti turchi) o chi è responsabile della produzione di flussi migratori dalla Siria e all'interno della stessa Turchia. Inoltre, le politiche europee di sostegno a Erdogan stanno fomentando le diverse forze fasciste della società turca. In questi giorni, si parla molto del genocidio degli armeni, della loro deportazione in massa. Oggi in Turchia c'è chi chiede le stesse misure nei confronti dei curdi. Lotteremo e resisteremo affinché al popolo curdo non tocchi la stessa sorte.


Tratto da Dinamo
Quest'intervista è stata pubblicata in forma più breve su Il Manifesto del 27/05/2016, a pag. 8., con il titolo «L’Ue chiude gli occhi sullo sciovinismo turco».

giovedì 26 maggio 2016

Kurdistan - Lo Stato turco sta per compiere un massacro a Nusaybin

La guerra sporca e genocida dello Stato turco contro il popolo curdo si sta intensificando ogni giorno. Secondo le ultime notizie che abbiamo ricevuto dalla città di Nusaybin a Mardin, decine di civili sono stati gravemente feriti dal fuoco di carri armati turchi. Non viene consentita l’assistenza medica per soccorrere i feriti e le loro postazioni sono ancora sotto il bombardamento dell’esercito turco. Oltre 35 civili, di cui alcuni in modo grave, sono intrappolati e se i soccorsi non li raggiungeranno presto, saranno massacrati.
Secondo una dichiarazione della Associazione per i Diritti Umani (IHD), se non viene aperto un corridoio umanitario, un orribile massacro è più che probabile. Hanno chiesto l’apertura urgente di un corridoio per evacuare i civili dall’area colpita. Il parlamentare dell’HDP Ali Atalan ha detto che la gioventù curda resistente (YPS) a Nusaybin si è ritirata dalla città e che sono rimasti solo civili. Inoltre organizzazioni curde e l’Iniziativa del Popolo Curdo hanno fatto appelli alle istituzioni internazionali perché intervengano e fermino lo Stato turco per salvare le vite di molti civili sui quali incombe la minaccia di un massacro.
Il governo dell’AKP e lo Stato turco stanno cercando di massacrare civili in particolare nell’area di ‘Alika’ di Nusaybin usando le capacità militari a sua disposizione, compresi i jet da combattimento. L’AKP e lo Stato turco hanno già commesso orrendi massacre a Cizre, Sirnak, Sur, Silopi e Yuksekova sotto gli occhi e nel silenzio del mondo. L’AKP, incoraggiato dal silenzio del mondo nelle precedenti occasioni, sta per commettere un massacro simile a Nusaybin.
Fermare il fascismo dell’AKP significa salvare le vite di molti civili innocenti. Chiediamo in particolare alle forze democratiche del mondo, alle organizzazioni della società civile, Amnesty International, HWR, all’ONU,all’UE, al Parlamento e al Consiglio Europeo di muoversi per impedire un massacro a Nusaybin.
Chiediamo a queste istituzioni di compiere azioni immediate contro la Turchia, di fare dichiarazioni urgenti e di inviare delegazioni nell’area colpita.
Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia

mercoledì 27 aprile 2016

Turchia - Il Presidente del Parlamento chiede una Costituzione islamica

Il Presidente del Parlamento turco Ismail Kahraman con la sua richiesta di sostituire la Costituzione finora laica del Paese con una islamica, ha scatenato proteste. “Il concetto di laicismo non dovrebbe essere nella nuova Costituzione”, così è stato citato il politico del partito di governo islamico-conservatore AKP dall’agenzia stampa statale Anadolu a Istanbul. “Siamo un Paese Islamico. Per questo dobbiamo creare una Costituzione religiosa.”
Fin ad ora la separazione tra Stato e religione è radicata nella Costituzione turca. “Sentimenti religiosi non devono assolutamente avere alcun ruolo nelle questioni dello Stato e della politica, come è previsto dal principio del laicismo “, recita il preambolo. Nonostante questo il governo dell’AKP del capo di Stato Recep Tayyip Erdogan negli anni passati ha assegnato alla religione uno valore sempre maggiore nella vita pubblica. Erdogan prevede di modificare la Costituzione scritta dai militari dopo il loro colpo di stato nel 1982. Anche se l‘AKP ha la maggioranza assoluta in Parlamento, questa non basta per poter modificare la Costituzione.
Anche se esponenti di spicco hanno preso le distanze dall'avanzata del loro amico di partito, martedì diverse centinaia di persone sono scese in piazza contro Kahraman davanti al Parlamento di Ankara. La polizia turca li ha dispersi con l’uso di lacrimogeni.
Sempre martedì la Corte Europea per i Diritti Umani a Strasburgo ha stabilito che Ankara lede la libertà di religione dei circa 20 milioni di aleviti nel Paese. Senza giustificazione oggettiva e ragionevole sarebbero trattati in modo diverso dalla maggioranza di musulmani sunniti, così martedì hanno deciso i giudici. Con questo una protesta di oltre 200 aleviti ha avuto successo. Volevano ottenere tra le altre cose che i loro luoghi di preghiera e funzioni religiose fossero riconosciuti a livello ufficiale. Il governo di Ankara nel 2005 aveva rifiutato una richiesta di questo tipo da parte della comunità religiosa islamica.

venerdì 25 marzo 2016

Spunti di riflessione sul rapporto tra religioni, islam e donne

La foto ritrae una donna scappata dai territori controllati dall’Isis
Per comprendere quel che sta succedendo nel nostro caotico presente bisogna dotarsi di bussole e quadranti che ci permettano di approfondire la realtà, fuori da schematismi e luoghi comuni.
Per questo vogliamo provare ad offrire degli spunti, a partire da una prima bibliografia da arricchire, contenuti nelle riflessioni di molti donne e uomini che si interrogano sull'Islam e sulle religioni in assoluto. Lo fanno a partire da un’incessante ricerca al fine di rafforzare la tesi che è importante considerare la fede religiosa come qualcosa di privato e non la base su cui strutturare una società.
Nei nostri articoli di cronaca abbiamo più volte raccontato vicende emblematiche dal mondo musulmano di chi prova ad aprire un cammino verso la libertà, oltre gli autoritarismi e gli integralismi, a volte coppie gemelle.
Sono queste pensatrici e pensatori, queste attiviste ed attivisti che combattono, a proprio modo. una battaglia che va sostenuta, senza paura che il pensiero critico possa essere scambiato e attaccato come islamofobico e razzista. Sono queste le persone alle quali ci piace dare voce e lo facciamo avendo ben presente la storia di lotta ed emancipazione che le donne, e non solo, hanno combattuto e combattono anche a casa nostra, in nome della libertà e del laicismo, contro la religione "nostrana". Lo facciamo perché come diceva un classico pensatore se "la religione è l’oppio dei popoli", in questo momento storico in parte l’Islam ne è la cocaina.
Nota a margine: i testi che proponiamo, le autrici e gli autori che segnaliamo sicuramente possono essere criticati, a volte sono controversi ma, se non si assumono in forma di stimolo e ricerca gli spunti che ci offrono e si resta in attesa di trovare un testo, un autore, capaci di incastrare tutti i pezzi in maniera perfetta nel caotico puzzle della contemporaneità, si resta incapaci di comprendere e dunque di agire.
Costruire un pensiero all'altezza del presente significa indagare nuovi campi, senza paura dell’eresia.
Per prima cosa vi proponiamo un libro di Martine Gozland intitolato "I ribelli di Allah".

martedì 6 ottobre 2015

Arabia Saudita - Ali al Nimr, 20 anni, condannato a decapitazione, crocifissione e putrefazione del corpo


"E’ una vicenda che ho seguito con apprensione e dolore, la comunità internazionale deve fare di tutto per ottenere la liberazione dell’attivista saudita. Mi rendo conto che spesso ci sono interessi in gioco, ma la promozione dei diritti umani deve essere sempre anteposta a tutto".

Lina Ben Mhenni, blogger tunisina



Ali al-Nimr ha vent'anni.
E’ stato condannato alla decapitazione, crocifissione e putrefazione del corpo.

I giudici di appello della Corte penale speciale e della Corte suprema dell’Arabia Saudita hanno confermato la sentenza di condanna a morte emessa dal tribunale penale speciale di Gedda per la “partecipazione a manifestazioni antigovernative” a Qatif, cittadina nella parte orientale del regno, quando Ali aveva appena diciassette anni.

La condanna è frutto di una confessione estorta al ragazzo sotto tortura.


Ali è nipote di un eminente religioso sciita indipendente e oppositore del regime dell’Arabia Saudita, Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, arrestato l’8 luglio del 2012 e anch'egli condannato a morte, il 15 ottobre del 2014.


Può essere messo a morte appena il re Salman ratifica la condanna.

In tutto il mondo ci si sta mobilitando per chiedere che questa ennesima barbarie, in un paese che viola sistematicamente i diritti umani, la libertà delle donne, venga bloccata.
Ma si sa i capitali ingenti dell’Arabia, accumulati sui profitti dell’oro nero ed oggi ramificati in tutti i settori della finanza, ne fanno un partner intoccabile. Per questo nessun paese si sta muovendo per stigmatizare, anzi neppure vagamente criticare, la violenza sistemica del regime saudita.


Anzi, con macabro tempismo intanto le Nazioni Unite hanno nominato l’ambasciatore saudita, Faisal bin Hassan Trad, a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu nel 2016,

Amnesty International ha lanciato un appello che è possibile firmare, per  rompere il silenzio e chiedere l’annullamento della sentenza.

Segui le mobilitazioni in twitter

Stiamo parlando di un paese che detiene il record mondiale delle esecuzioni capitali, che tranquillamente è considerato un alleato dell’occidente e non solo.

Da Amnesty International
LA PENA DI MORTE IN ARABIA SAUDITA

L’Arabia Saudita è tra i paesi che eseguono il più alto numero di sentenze: dal 1985 al 2005 sono state messe a morte oltre 2200 persone; da gennaio ad agosto 2015, almeno 130 esecuzioni.
Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni.
Spesso i processi per reati capitali sono tenuti in segreto e sono sommari e iniqui, senza l’assistenza e la rappresentanza legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, coercizione e raggiri.

Le tensioni tra la comunità sciita e le autorità saudite sono cresciute dal 2011, quando sono cresciute le manifestazioni contro gli arresti e le vessazioni di sciiti che svolgevano preghiere collettive e violavano il divieto di costruire moschee sciite.
Le autorità saudite hanno risposto con la repressione di chi era sospettato di partecipare o sostenere o esprimere opinioni critiche verso lo stato. I manifestanti sono stati trattenuti senza accusa e in isolamento per giorni o settimane e sono stati segnalati maltrattamenti e torture.
Dal 2011, quasi 20 persone collegate alle proteste sono state uccise e centinaia incarcerate.

sabato 25 luglio 2015

Kurtistan - Cosa bolle al confine tra Siria e Turchia, mentre la polizia di Erdogan uccide Günay Özarslan


Quanto sta succedendo al confine tra Siria e Turchia, dopo la brutale strage di Suruc, costata la vita a 27 ragazzi che si trovavano al Amara Cultural Center, si inserisce in pieno nella contraddittoria situazione, densa di interessi contrapposti che si gioca nell’intero scacchiere dell’area. Intanto la polizia di Erdogan carica ancora i manifestanti, scesi in piazza dopo che nelle proteste contro il massacro della cittadina al confine con Kobane, è stata uccisa Günay Özarslan durante le "operazioni antiterrorismo fatte dal governo che provocatoriamente mette insieme i barbari di Isis e i militanti curdi del PKK. 
Segui gli aggiornamenti da Uiki Onlus e gli aggiornamenti in diretta twitter di Ivan Grozny.
"Erdogan e il gioco delle tre carte" di Ivan Grozny
Mercoledì 23 luglio a Dyerbaykir c’era ancora nell’aria l’odore acre dei gas CS che era sera. Come in tutte le città curde di Turchia ci sono state mobilitazioni che hanno visto scendere in strada migliaia di manifestanti sull’onda di quanto accaduto a Soruc dove hanno perso la vita 32 giovani. Domandarsi poi come allo stesso tempo l’indomani lo stesso governo che ha represso brutalmente le manifestazioni decida il via libera a raid aerei contro le postazioni ISIS è quantomeno lecito.
Nella giornata di giovedì le tv turche non hanno fatto che raccontare di questa incredibile svolta, mostrando anche immagini di scontri sul confine che era qualche settimana che veniva presidiato ancora più che di solito dai soldati di Ankara. Circa ventimila uomini di reparti scelti erano stati inviati lì dall’inizio di luglio. Schierati sul confine con la Siria e ora pronti ad entrare in azione. Sono stati arrestati anche due presunti complici degli attentatori del Amara Center, notizia cui i media in Turchia hanno dato molto risalto. Non bisogna mai fermarsi alle apparenze, soprattutto in questi casi. Lasciando da parte le complicate analisi geopolitiche su quanto accade in quest’area, non si può non notare che le vittorie di YPJ e YPG in Rojava preoccupano non poco il governo di Erdogan.

giovedì 16 luglio 2015

Iran - I diritti negati ai curdi in Iran

I diritti negati ai curdi in Iran
“Ci sono dodici milioni di curdi in Iran che sono costretti a vivere in condizioni molto difficili, sia per quanto riguarda l’aspetto economico che quello dei diritti umani. Sono impegnati solo in mestieri umili, quelli che riescono a trovare un impiego. Molti lavorano la terra e sono impiegati nelle campagne ma pensare di fare carriera o occupare posti di rilievo è impensabile. 

Il PJAK (Free Life Party of Kurdistan) è l’unica forza politica che è impegnata nel difendere i diritti dei curdi, ma naturalmente è un partito illegale. La Repubblica Islamica giudica tutti coloro che portano avanti le vertenze dei curdi come dei traditori e questo implica che molti attivisti politici siano stati rinchiusi nelle carcere e sottoposti a torture. Chi viene giudicato un traditore viene giustiziato senza un giusto processo. Ci sono circa 1260 detenuti politici curdi in Iran. 

Lo stesso rischio lo corrono anche tutti coloro che osano parlare di quest’argomento e mettere in discussione l’autorità. Ci sono anche molti giornalisti rinchiusi nelle galere iraniane anche solo perché hanno osato parlare di diritti umani negati. E non sono tutti necessariamente di origine curda. Chiunque anche solo osi mettere al centro certe questioni rischia non solo la reclusione ma addirittura la vita”. 

A pronunciare queste parole è Shirzad Kamangar, tra gli uomini di spicco del partito curdo iraniano. Costretto all’esilio, vive la maggior parte del suo tempo a Bruxelles dove lo abbiamo incontrato.

Ma com’è la situazione di chi sceglie di lottare per i diritti in Iran?
“Chi ha scelto di fare politica è costretto a uscire dal Paese e questo implica l’impossibilità di rientrare perché messo piede sul suolo iraniano la conseguenza immediata sarebbe l’arresto. Il problema poi si presenta per i familiari che rimangono perché il governo impossibilitato ad arrestare chi vive all’estero e quindi se la prende con loro. Io sono stato in prigione diverse volte e dopo l’ultima volta ho scelto di abbandonare la mia terra e le persone a me care. Non potere rientrare è ovvio che è un dolore. Ma la cosa più difficile da accettare sono le ritorsione che subiscono i cari dei fuoriusciti. Mio fratello ad esempio era un insegnante di scuola elementare ed è stato arrestato e giustiziato dopo un processo sommario solo perché era mio fratello. Non era certo un attivista politico, eppure ha pagato con la vita il solo fatto di essere mio fratello”.


Che ruolo ha a tuo parere l’Iran con Is?
“Il ruolo dell’Iran nella questione Is è quello di supporto al Califfato. Chiaro che non lo dichiara apertamente ma è un fatto. Un po’ come fa la Turchia. Nessuno lo dice chiaramente ma la questione è per noi molto chiara. E non si tratta solo di una questione ideologica, ma anche pratica che però nessuno ha voglia di affrontare. Mi riferisco alla comunità internazionale. Il problema è anche che è molto complicato fare uscire notizie dall’Iran, impossibile poi anche solo fare un lavoro di inchiesta o di denuncia sulla questione. Credete sia possibile anche per un giornalista straniero, occidentale, entrare in Iran e raccogliere testimonianze sulla condizione dei curdi o sui rapporti di questa grande potenza e Daesh? 

Chiunque anche solo volesse provarci, sarebbe immediatamente tacciato di attività spionistica. La conseguenza immediata sarebbe la carcerazione.”

Che prospettive ci sono secondo te per il futuro? “Quello che pensiamo come comunità curda intesa nella sua quasi totalità è che è sui diritti che dobbiamo concentrare la nostra battaglia. Per questo siamo uniti alla lotta in Rojava ma anche sostegno al partito turco curdo HDP che è una bella spina nel fianco di Erdogan. Diversa è la questione nel Kurdistan iracheno ma quelle sono problematiche interne alla nostra comunità e di più facile soluzione. Oggi dobbiamo essere tutti compatti per fare si che i curdi sparsi nei vari territori ottengano finalmente il rispetto non solo dei diritti umani ma anche sul piano della libertà di espressione. Senza il raggiungimento di questi elementi, il popolo curdo non sarà mai libero, che si trovi a vivere in Iran, in Turchia, in quel che rimane della Siria o in Iraq”.


di Ivan Compasso, Articolo21

venerdì 8 febbraio 2013

Tunisia - Nella giornata di sciopero generale, migliaia di persone partecipano ai funerali


Fin dalla mattina molte persone si sono concentrate a Djebel Jelloud, quartiere alla periferia per partecipare ai funerali di Chokri Belaid.
A Tunisi la gente comincia ha riempito le strade attraverso cui passa il corpo di Chokri per raggiungere il Cimitero.Ampissima la partecipazione per dire che non si torna indietro, che il cambiamento iniziato due anni fa non si può fermare.
Continuano le denunce sulle coperture date all'omcidio visto che l'esponente laico aveva denunciato più volte le minacce nei suoi confronti. Questo non gli aveva impedito di continuare a denunciare il ruolo di Ennadha al governo nel contrastare le vere riforme che la popolazione chiede.
Oggi è sciopero generale convocato dalle forze d'opposizione e dal sindacato UGT. I negozi sono chiusi e i voli in arrivo e partenza dal paese sono bloccati. Avenue Bourghiba è deserta con decine di esercizi commerciali e di caffè con le saracinesche abbassate.
La polizia presidia in particolare oltre alla capitale le città di Zarzis, Gafsa e Sidi Bouzid. Sono le città dove le proteste sono state più forti durante queste giornate in cui i manifestanti stanno dimostrando quanto forte sia la richiesta di libertà, democrazia e giustizia sociale nel paese.

mercoledì 28 novembre 2012

Egitto - La rabbia del Cairo non si ferma


Piazza Tahrir si riempie di nuovo, questa volta in protesta contro il presidente Morsi. Decine di migliaia hanno affollato le strade della capitale
Fortissime anche ieri le proteste contro il giro di vite attuato da Morsi. Tre cortei nel centro della capitale sono confluiti in Piazza Tahir, ad Alessandria ci sono stati scontri con i sostenitori del Governo e a Mahalla, nel Delta, ci sono stati gravi incidenti.
Le opposizioni denunciano come il decreto del Presidente, non a caso emanato dopo essersi accreditato anche internazionalmente con la mediazione su Gaza, che accentra i poteri nelle sue mani, si configura come un golpe strisciante. Le piazze piene, soprattutto di giovani attestano come la transizione in Egitto sia un processo tutto da definire ed anche che il vento di libertà della primavera araba non ha ancora smesso di alimentare la protesta.
Tahrir, il «giorno dei milioni»
 La piazza fa il dissenso.Lo sanno bene gli attivisti egiziani. Sono le strade a formare le coscienze di chi si oppone a imposizioni autoritarie. Ed è tanto più vero dopo la manifestazioni di ieri, nella grande protesta contro il decreto presidenziale: la dichiarazione pigliatutto di Morsi che ha spaccato il paese. Tra i vicoli dei centri urbani, così come nelle campagne del Delta del Nilo, è montato il risentimento contro chi nulla concede alla piazza. Se le riforme costituzionali di Mubarak erano opposte da un timido dissenso, le decisioni del presidente «rivoluzionario» sono sottoposte al vaglio delle strade e non ci sono sconti.
Migliaia di manifestanti si sono raccolti ieri a Tahrir partendo da vari punti della città. Decine di partiti e movimenti della società civile hanno partecipato alle manifestazioni: Khaled Ali, l'unico candidato comunista alle passate elezioni presidenziali, è arrivato in piazza guidando un corteo che è partito nell'area industriale e operaia del nord del Cairo. «Pane, libertà, abbasso l'Assemblea costituente», urlavano questi attivisti. Altri più avanti gridavano: «Loro (i Fratelli musulmani, ndr) dicono che siamo una minoranza, noi facciamo la marcia dei milioni».
I giovani del movimento 6 aprile e i socialisti del Tagammu si sono incontrati nel pomeriggio intorno alla moschea Fatah, nel centro della città, per iniziare la loro marcia verso Tahrir. Sugli striscioni si leggevano dure frasi di opposizione alla dichiarazione costituzionale. I liberali si sono dati appuntamento invece nei pressi dell'università di Ayn Shamps insieme a decine di studenti. L'esponente del partito degli egiziani liberi, Mohamed al-Koumy, ha detto: «costringeremo il regime alle dimissioni, ci prepariamo ad un sit-in e allo sciopero generale». Durante la marcia verso Tahrir, è arrivata la notizia della morte di Fathy Gharib. Il sessantenne è stato ucciso dopo aver respirato gas lacrimogeni negli attacchi contro i manifestanti che hanno avuto luogo la mattina di martedì avanti al ministero dell'interno in via Sheykh Rihan al Cairo. «Morsi è Mubarak. Anche lui ordina di sparare contro la folla», ha detto Mohamed Shaaban, un avvocato che prendeva parte al corteo. Tuttavia, gli islamisti hanno negato ogni responsabilità nelle violenze. «Le forze dell'ordine - ha fatto sapere, Usama Ismail, dirigente del ministero degli interni - hanno in dotazione solo gas lacrimogeni e le direttive del ministro sono per la massima moderazione».
In piazza Tahrir, sono arrivati anche i leader laici da Amr Moussa a Mohammed el-Baradei. Hanno preso parte alle manifestazioni la quasi totalità dei giudici e dei pubblici ministeri egiziani. Mentre si teneva una riunione straordinaria del consiglio della magistratura per valutare il prossimo passo nell'opposizione al decreto. «Ha più poteri lui (Morsi, ndr) di un faraone, è una presa in giro della rivoluzione che lo ha portato al potere», ha insistito Mohammed el-Baradei. Il leader liberale ha difeso poi tutti i politici (30 su 100) che si sono ritirati dall'Assemblea costituente in segno di protesta contro il decreto Morsi. «Temiamo che i Fratelli musulmani vogliano far passare un documento che marginalizzi i diritti delle donne e delle minoranze religiose», ha accusato el-Baradei. Tra la folla di Tahrir, c'era anche il presidente della giuria del festival internazionale del cinema del Cairo, Marco Muller. L'apertura del festival è stata spostata a oggi a causa delle proteste, ma molti cineasti egiziani hanno deciso di ritirare i loro film in segno di critica verso la decisione del presidente.
Manifestazioni simili a quella del Cairo si sono svolte a Suez, Luxor, Beni Suif e nelle città del Delta. A Tanta e Mahalla ci sono stati scontri fra sostenitori dei Fratelli musulmani e oppositori di Morsi. Secondo testimoni, nel governatorato di Gharbeya un fitto lancio di bottiglie incendiarie ha reso lo scontro cruento, causando decine di feriti. Tranne alcuni giovani del movimento, sostenuti dal vicepresidente del movimento Essam el-Arian, i Fratelli musulmani non sono scesi in piazza e hanno sminuito la portata delle proteste. Ma la piazza ha fatto la sua parte e ha motivato gli egiziani a non arrendersi ad un nuovo autoritarismo.

Nuove proteste a Piazza Tahrir
Decine di migliaia di persone stanno di nuovo protestando al Cairo contro le riforme approvate il 22 novembre dal presidente egiziano Mohamed Morsi. I manifestanti, riuniti in piazza Tahrir, accusano il presidente e il suo partito, i Fratelli musulmani, di aver tradito la rivoluzione dello scorso anno.
Violente proteste erano già scoppiate il 23 novembre, riempiendo il centro della capitale egiziana. La polizia ha reagito sparando dei lacrimogeni e un uomo è morto per un attacco di cuore dopo aver respirato il gas. Il popolo contesta il decreto costituzionale di Morsi, che estende i poteri del presidente impedendo a qualsiasi tribunale di contrapporsi alle sue decisioni. Una riforma che di fatto lo sottrae al potere di controllo della magistratura.
“Non vogliamo una nuova dittatura. Il regime di Mubarak era una dittatura. Abbiamo fatto una rivoluzione per ottenere giustizia e libertà”, ha dichiarato un manifestante. Le proteste sono in corso anche ad Alessandria d’Egitto. Il resoconto della Bbc.
“Non esistono dittatori temporanei. Tutte le leggi autoritarie vengono imposte con la pretesa che siano temporanee, ma alla fine prendono il potere per sempre. Se permetti a un dittatore di sospendere la legge per un giorno, sarà un dittatore per sempre”, ha commentato lo scrittore Alaa al Aswany. Il link all’articolo completo, in arabo.

martedì 30 ottobre 2012

Siria - Soffiano venti di guerra

Qui, in Siria, la Primavera araba ha perso, più che mai, l’alone sociale e romantico del riscatto sociale, di lotta per le libertà, ed è stata trasfigurata in guerra per il potere interno e sull’intero quadrante medio orientale.

Le elezioni negli USA e il conflitto sociale in Europa possono essere discriminanti.

Le elezioni negli USA e il conflitto sociale in Europa possono essere discriminanti.
La Siria, già da un anno, compare quotidianamente nei notiziari con un elenco di vittime, civili e militari, con distruzioni a catena, in questa o quella città. Le informazioni sulla carneficina che ci giungono sono viziate dalla propaganda delle parti in conflitto: oltre 25.000 vittime e 100.000 profughi in Turchia, Libano e Giordania secondo i ribelli; 7.000 morti e 20.000 sfollati a detta dei governativi. Aldilà dell’aspetto quantitativo sconcertante, in Siria è in corso una guerra civile su cui tutti gli Stati di peso glissano e tengono un profilo basso, all’ONU e nelle sedi istituzionali deputate gli schieramenti politici internazionali sono formali e altalenanti; in Siria gli Stati chiave dell’area medio orientale si sfidano per interposte fazioni di combattenti, dove, non è difficile immaginare, sono all’opera i top gun  dei servizi di intelligence di mezzo mondo.
Per districarci nel ginepraio siriano, dobbiamo, quantomeno, fare una carrellata su quanto è avvenuto nell’area mediterranea e medio orientale, in questi ultimi tempi. La Primavera Araba ha determinato un ricambio nella gestione delle Istituzioni dall’Egitto al Marocco, in alcuni Stati in maniera significativa e sostanziale [Libia], altrove superficialmente [Tunisia], in altri solo di facciata [Marocco]. Questo a livello istituzionale, nella gestione del potere economico-politico, se si esclude – per alcuni versi – la Libia, tutto è rimasto nelle mani delle lobby locali e internazionali consolidate. Un cambiamento, profondo invece, è  avvenuto a livello sociale, in particolare negli strati urbani, acculturati, giovanili, femminili della popolazione, dove l’aspetto insurrezionale, di piazza, comunicativo - con o senza social network -, del vogliamo tutto e subito, ha connotato i comportamenti politici dei moti in tutto il bacino mediterraneo e non solo. Una mutazione sociale antropologica, nel dna di quelle popolazioni urbane, che non ha avuto – per ora – sbocco, ne politico ne istituzionale ma che cova sotto la cenere e il sale che i vincitori stanno spargendo su quelle società, che è capace di riemergere quando il Potere prova – spudoratamente - a mettere il burka alle conquiste sociali [diritti civili] date per acquisite.
Quello che è mancato alle giovani generazioni ribelli arabe, non è tanto diverso da quello che si fa sentire anche nei movimenti occidentali, è un orizzonte ideale chiaro e condiviso. Una spinta alla rivolta che non ha uno skyline definito, a cui tendere, a cui ispirarsi, se non la sperimentazione, qui e ora, di una modello di vita, spesso, ha la durata effimera di una rivolta, è destinata ad afflosciarsi su se stessa.
Di fronte a questo buco nero e disperato ecco che riemergono tutti i dogmatismi, che, in quanto tali, per definizione, non abbisognano di concretezza quotidiana e sociale: la grande presa del fondamentalismo coranico nei paesi della Primavera araba trova qui la sua ripartenza, così come le varie sfaccettature religiose, mistiche o settarie, la trovano in Occidente.
In Siria la Primavera araba ha fatto capolino in ritardo e si ha la netta impressione che vi sia stata importata e/o sospinta da forze, da orientamenti esterni che hanno fatto leva su quelle latenti problematiche etnico-religiose, sempre controllate o soffocate, dal potere familistico, tribale, religioso degli Assad. A chi dava e da fastidio un solido e stabile Regime bahatista [di ispirazione socialista e panarabo, simile a quello realizzato nell’IRAQ di Saddam] siriano, che esercita, da sempre una sorta di protettorato sul Libano e, di conseguenza, anche una forte influenza nelle vicende palestinesi? Certamente ad Israele, agli Emirati Arabi, ma anche alla Turchia per una questione di acque e di Kurdi: dietro a questi attori di prima linea, ritroviamo tutto lo schieramento occidentale, implicato più o meno intensamente. A sostegno del Regime degli Assad apertamente si sono schierati l’IRAN, la Russia e, in maniera un po’ defilata, la stessa Cina. Nella geopolitica internazionale, tanto più in Medio Oriente, ciascuno fa il suo sporco gioco di interessi palesi e nascosti, diretti o incrociati, senza badare a spese e, soprattutto, incurante del numero delle vittime civili [sicuramente oltre 20 mila] e militari. Qui, in Siria, la Primavera araba ha perso, più che mai, l’alone sociale e romantico del riscatto sociale, di lotta per le libertà, ed è stata trasfigurata in guerra per il potere interno e sull’intero quadrante medio orientale.
Lo possiamo  evincere da episodi riportati marginalmente dalle cronache: un drone iraniano intercettato ed abbattuto, forniture militari russe bloccate, responsabili dei servizi di sicurezza siriani e libanesi saltati per aria, attentati ed uccisioni nei quartieri wahabiti, cristiani e drusi nelle città siriane e, ora, anche in Libano, cannoneggiamenti oltre confine in Libano e, ripetutamente, in Turchia: sono tutti episodi - quest’ultimo di gran lunga quello più significativo - che ci segnalano la possibilità, dietro l’angolo, di una internazionalizzazione del conflitto siriano, nato come appendice della Primavera Araba.
Erdogan, infatti, subitamente, ha fatto votare, dal suo Parlamento, il via libera per una risposta anche offensiva agli sconfinamenti e ai bombardamenti dell’esercito siriano, ma soprattutto ha invocato l’art. 4 dello Statuto della NATO, di cui la Turchia è parte integrante, quale bastione orientale nei confronti della Russia e dei nemici asiatici; articolo 4 che implica una solidarietà attiva per tutti gli Stati membri dell’Alleanza Atlantica, a cui è connesso il 5, che obbliga gli Alleati, in solido, alla partecipazione diretta alla difesa/offesa del Paese soggetto ad un attacco[quello usato per la missione in Afghanistan, tanto per capirci]. È di questi giorni il giro di ricognizione per le capitali arabo-mediterranee della Clinton che si concluderà nei Balkani.
Purtroppo le premesse per un allargamento del conflitto ci sono tutte; probabilmente, sono solo questioni di opportunità politiche ed economiche, che frenano o rallentano il precipitare della guerra civile siriana in una resa dei conti medio orientale.
La prossima rielezione di Obama o quella di Romney, in questo contesto, non è indifferente:  Obama ha sempre dichiarato di aver subito, mai di aver condiviso, l’impegno bellico USA, deciso da Bush, ma che ne avrebbe e ne ha onorato gli impegni; altra cosa è l’esposizione muscolare di Romney, espressione, anche, dell’apparato militare e del gotha degli armamenti. Così come non è indifferente il dipanarsi  della crisi economico-finanziaria e del conflitto sociale che attanagliano gli Stati europei: l’essere, attraverso la Nato, impegnanti in un nuovo conflitto, con il corollario di dispendio economico, con una lotta sociale montante, può essere un ulteriore motivo di instabilità politica e di perdita potere contrattuale tra Istituzioni internazionali.

giovedì 13 settembre 2012

Libia - Ombre sull'attacco di Bengasi


di Luca Salerno
Una fonte anonima dell'intelligence USA ha definito l'attacco "troppo cordinato e professionale per essere spontaneo". Funzionari americani ed europei ha dichiarato che mentre molti dettagli circa l'attacco sono tutt'ora poco chiari, gli assalitori sembravano organizzati, ben addestrati e pesantemente armati, e sembravano avere almeno un certo livello di pianificazione anticipata. I funzionari hanno detto che vi erano indicazioni che i membri di una fazione militante che si fa chiamare Ansar al Sharia - Sostenitori della Legge Islamica - sono state coinvolti nell'organizzazione l'attacco al Consolato degli Stati Uniti. "È raro che un RPG7 (un'arma portatile anticarro, ndr) sia presente in una protesta pacifica" hanno affermato fonti ufficiali americani. Ma i funzionari ritengono che sia troppo presto per dire se l'attacco fosse collegato all'anniversario dell'attacco alle Twin Towers, anche se questa ricostruzione sembra non convincere gli esperti.

martedì 11 settembre 2012

Medio Oriente - Lavoro e sfruttamento nel Golfo


I lavoratori stranieri costituiscono nel Golfo la maggioranza della popolazione. Nelle terre dei petrodollari i loro diritti negati li portano, a volte, alla morte. 

di Giorgia Grifoni

A morire di lavoro in Medio Oriente, soprattutto nei paesi del Golfo, si fa presto. Sono storie già sentite e raccontate: narrano di colf filippine picchiate per aver chiesto la debita paga, di cameriere etiopi suicide per le troppe umiliazioni subite, di collaboratrici domestiche immediatamente espatriate perché sospettate di essere uomini. Ma la vicenda accaduta la scorsa primavera a Doha, capitale del Qatar, è una novità: un'agenzia di collocamento ha pubblicato un annuncio in cui si richiedeva una colf di origine qatariota, come riporta Globalist, e si è scatenato il finimondo. Accuse di oltraggio, di attentato alla dignità della persona, appelli di professori, editorialisti e persino di una candidata alle elezioni politiche perché venga avviata un'inchiesta sull'accaduto. L'annuncio, spiegano, va contro i valori e le tradizioni del Qatar. "Se mai una donna dovesse rispondere all'inserzione - ha dichiarato Abdul Aziz al-Mulla, professore nel piccolo emirato - dovremmo indagare sulle ragioni che l'hanno spinta a farlo e darle tutto il supporto finanziario di cui ha bisogno".

Cittadini di serie A.
Che nella penisola arabica, come in altre parti del Medio Oriente, ci fossero cittadini di serie a e di serie b non era un mistero. A quella spicciolata di nativi degli Emirati Arabi, del Qatar, del Bahrain e dell'Arabia Saudita spettano condizioni di vita a dir poco principesche. Dalla scoperta del petrolio e del gas nella prima metà del secolo scorso, queste distese di sabbia si sono trasformate in moderni paradisi capitalisti: non a caso, secondo la rivista Forbes, in testa c'è il piccolo Qatar, che con il suo Pil pro capite di 88.000 dollari è il paese più ricco del mondo. Al sesto posto, con 47.500 dollari, troviamo gli Emirati Arabi Uniti, mentre il Kuwait si ferma al dodicesimo gradino.

Il Golfo e la crisi.
Una situazione che non risente della crisi economica che ha colpito il mondo occidentale, anzi: secondo le stime di Les Cahiers, trimestrale d'informazione di Fashion Marketing, nel 2011 il Pil del Qatar è cresciuto del 20%, quello dell'Arabia Saudita del 7,5%, in Kuwait del 5,3% e negli Emirati del 3,3%. Un successo dovuto essenzialmente all'iniziativa privata, veicolo della famiglia reale e figlia di una classe media che cinquant'anni fa, tra tribù e sceicchi, ancora non esisteva. Parte del merito va anche ai mercati internazionali, che hanno visto enormi quantità di finanziamenti provenire dagli emirati del Golfo. Con le rivoluzioni arabe alle porte e - in alcuni Paesi - anche in casa, l'iniziativa privata sembra destinata a ridimensionarsi, almeno in primo momento, per favorire l'impiego pubblico e placare qualsiasi forma covata di malcontento. Così, nei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo verranno creati due milioni di posti di lavoro nel settore pubblico, che vanno ad aggiungersi ai circa 7 milioni creati tra il 2000 e il 2010.

Egitto - La Rivoluzione è viva.

Intervista al collettivo hip hop alessandrino Revolution Records

L'autore dell'intervista è Lorenzo Fe autore di "In ogni strada. Voci di rivoluzione dal Cairo."
L'Egitto post-rivoluzionario è stretto nel braccio di ferro tra il Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf) e il movimento islamista moderato dei Fratelli Musulmani (Fm), che è riuscito a ritagliarsi sostanziali spazi di autonomia all'interno dello stato. Tramite questo conflittuale matrimonio di convenienza, l'Egitto sembra aver evitato l'Algeria, ovvero una sanguinosa guerra civile tra militari e islamisti, per avviarsi verso la Turchia, cioè un regime semi-democratico con forti tratti autoritari in cui la destra conservatrice scende a compromessi con il potere extra-elettorale delle gerarchie militari.
Il vero sconfitto della transizione è la gioventù rivoluzionaria, in particolare le sue componenti liberali o di sinistra, represse dall'intesa tra esercito e islamisti configuratasi nei mesi immediatamente successivi alle dimissioni di Mubarak. Non resta che chiedersi come, dati gli attuali rapporti di forza, la gioventù rivoluzionaria possa mantenere ed espandere gli spazi di libertà finora conquistati. Ne parliamo con Revolution Records, il collettivo di produttori e MC hip hop raccolti attorno all'omonima etichetta, esponenti di spicco del rap politico egiziano, noti soprattutto per il loro singolo Kazeboon [Bugiardi], in cui denunciano le stragi di stato perpetrate dall'esercito ai danni del movimento rivoluzionario. Hanno partecipato all'intervista Ahmed Rock, TeMraz, Czar e Rooney.
Domanda: Come vi siete avvicinati alla cultura hip hop?
Revolution Records: Eravamo semplicemente dei ragazzi appassionati di musica, all'inizio ascoltavamo pop arabo, non c'era altro a portata d'orecchio. Ma non sopportavamo che l'unico tema fossero le storie d'amore, così ci avvicinammo alla musica straniera, e arrivammo all'hip hop. Era un genere sconosciuto in Egitto, ma parlava delle lotte della vita vera, ci innamorammo del suo realismo.
D: Come nasce Revolution Records?
RR: Nel 2001 Ahmed Rock e TeMraz si incontrarono alle superiori e cominciarono a rappare. Registrarono il primo pezzo solo nel 2005 e da lì nacque l'idea di formare un collettivo di MC e produttori ribelli nell'anima. L'etichetta esordì ufficialmente nel 2006, tutto autoprodotto. Parlavamo già di politica, ma dopo la rivoluzione la libertà d'espressione è aumentata significativamente e noi abbiamo potuto urlare più forte. Ora i nostri pezzi sono in TV e siamo in grado di fare arrivare il nostro messaggio a testate locali e internazionali.

D: Come esprimevate la vostra opposizione al regime prima della rivolta del 25 Gennaio 2011?
RR: Cercavamo di motivare la gente, e di diffondere un pensiero e uno stile di vita rivoluzionari. Come molti altri egiziani, consideravamo inaccettabile il regime di Mubarak. Dovevamo alzare la testa contro l'oppressione e le canzoni erano il nostro canale per farlo, per esempio Waqt Al Thawrageya [Il tempo dei ribelli] e Mamnu' men El taghyeer [Proibito cambiare]. Ma non era facile fare delle critiche esplicite e dirette, saremmo stati arrestati.

D: Cosa avete fatto tra il 25 Gennaio e il giorno delle dimissioni di Mubarak?
RR: Siamo stati nelle piazze e nelle strade dal primo giorno della rivoluzione, come tutta la gioventù in lotta del paese. Sentimmo che il tempo delle canzoni era finito, era ora di passare ai fatti.

D: Come giudicate la condotta di Scaf e Fm dopo le dimissioni di Mubarak?
RR: Lo Scaf ovviamente ha tentato di uccidere la rivoluzione e di proteggere i simboli del vecchio regime fin dall'inizio. Dopo Mubarak, i vari gruppi politici, e gli egiziani in generale, hanno cominciato a dividersi sulla direzione da prendere e ci sono state varie campagne diffamatorie intestine. Questo ha contribuito alla vittoria degli islamisti alle parlamentari e alle presidenziali. Gli islamisti hanno tradito la vera anima della rivoluzione, portando avanti una politica del compromesso estremo. Hanno indebolito la volontà di lottare della gente e la loro vittoria è stata una profonda ferita allo spirito della rivoluzione.

D: Il ballottaggio delle presidenziali ha visto Morsy, candidato Fm, contro Shafik, di fatto l'uomo dei militari. Ne è risultato un forte dibattito interno alla gioventù rivoluzionaria per decidere se sostenere il male minore dei Fm o opporsi indiscriminatamente a islamisti tanto quanto a esercito. Quali sono le vostre posizioni?
RR: La questione era inevitabile e decisiva, e ha creato innumerevoli divisioni interne. Gli uni sostenevano il boicottaggio delle elezioni come l'unico modo per continuare la rivoluzione, perché essendo state organizzate e influenzate dall'esercito ne sancivano la posizione dominante e perché i Fm si erano dimostrati una forza contro-rivoluzionaria. Gli altri erano a favore dell'appoggio a Morsy, perché i Fm si erano comunque schierati dalla parte dei ribelli prima delle dimissioni di Mubarak e perché la vittoria di un candidato del vecchio regime sarebbe stata la fine più rovinosa per la rivoluzione. Nemmeno noi abbiamo potuto mantenere una posizione unitaria, alcuni della RR hanno boicottato, altri hanno votato.

D: Come può la gioventù rivoluzionaria continuare la lotta per i diritti nel modo più efficace?
RR: Che piaccia o no a Scaf, Fm e rimasugli del vecchio regime, la rivoluzione è viva. Tutti coloro che si sono trovati faccia a faccia con la morte o che hanno perso dei cari non abbandoneranno mai il loro diritto alla libertà. Probabilmente la strategia migliore sarebbe quella di raccogliersi attorno a un partito o una coalizione rivoluzionaria in grado di opporsi ai partiti che cercano solo il potere per se stessi. Unità è la parola chiave per recuperare lo spirito e gli obiettivi della rivoluzione.

D: In che modo la vostra musica si inserisce in queste lotte?
RR: Manterremo viva la coscienza dei nostri diritti e la memoria della rivoluzione, dei martiri e di tutte le ingiustizie. Il nostro unico scopo è questo: la rivoluzione deve continuare finché tutti i suoi obiettivi saranno stati raggiunti.

giovedì 6 settembre 2012

Siria - L'Unhcr-Onu: 100mila profughi solo in agosto

Il 12 settembre la «Conferenza per salvare la Siria» del Comitato di coordinamento nazionale (Ccn) che si oppone a un intervento militare internazionale e ingerenze straniere.

In una giornata ancora caratterizzata da violenti scontri militari ad Aleppo e nei sobborghi di Damasco, si aggrava l'emergenza umanitaria in Siria: oltre 100mila siriani sono fuggiti nei Paesi vicini in agosto, il numero più alto mai registrato in un solo mese dallo scoppio della crisi in Siria.
Lo ha affermato oggi a Ginevra l'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). Il numero totale di rifugiati siriani registrati o in attesa di essere registrati è ora salito a 235.368. In particolare - precisa l'Unhcr - 77mila sono giunti in Giordania, più di 59 mila in Libano, 18 mila in Iraq e 80 mila in Turchia. Anche su questo si è svolto ieri un «positivo» incontro a Damasco tra il presidente del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr) Peter Maurer ed il capo di Stato siriano Bashar al-Assad. «Le domande del Cicr hanno ricevuto impegni positivi», ha detto un portavoce dell'organizzazione umanitaria.
Tra i temi discussi «la protezione della popolazione civile durante le ostilità, con l'accesso alle cure sanitarie, l'accesso al cibo ed altri beni essenziali e la visita alle persone detenute». Sul piano politico e umanitario va segnalato l'annuncio di una «conferenza per salvare la Siria» rivolta «a tutte le anime dell'opposizione in patria e all'estero», organizzata all'ombra di una «tregua» militare tra forze governative e ribelli: è il progetto del Comitato di coordinamento nazionale (Ccn), principale piattaforma dell'opposizione in patria, presentato dal suo segretario Raja Nasser in un'intervista di ieri sul quotidiano libanese As Safir.
La «conferenza per la salvezza della Siria» è convocata a Damasco per il 12 settembre prossimo, almeno secondo gli auspici del Ccn, che si oppone a un intervento militare straniero e di cui fanno parte, tra gli altri, dissidenti storici ed esponenti di sigle curde che rifiutano il sostegno della Turchia.
«Ogni cittadino in Siria può essere ucciso o arrestato. Chiediamo dunque il minimo: che i partecipanti prima, durante e dopo la conferenza non vengano presi di mira», ha detto Nasser. La premessa per la conferenza del 12 settembre è, per i membri del Ccn, l'entrata in vigore di una tregua militare tra le forze governative e l'Esercito libero. «I ribelli non abbandoneranno le armi e l'esercito del regime non si ritirerà dai territori che controlla», afferma Nasser, secondo cui oltre a sospendere l'uso delle armi ci sarà uno scambio totale di prigionieri tra le parti: «Decine di migliaia sono in mano al regime, mentre decine o centinaia sono in mano ai rivoluzionari». «Così facendo - conclude Nasser - si potranno soccorrere gli sfollati e quelli colpiti dalle violenze, che sono ormai sei milioni nel Paese».
Arriva invece dall'esterno, da Berlino, un summit di diversi leader dell'opposizione siriana appoggiati dalla diplomazia Ue. L'obiettivo è quello di «prepararsi al dopo-Assad», suggerisce anche l'ospite, il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle, che ha invitato la comunità internazionale a prepararsi a fornire aiuti economici alla Siria, in vista di un'imminente caduta di Assad.
Secondo Westerrwelle il popolo della Siria deve capire che «c'è un'alternativa credibile al regime». Intanto il governo di Pechino ha riconosciuto che la situazione peggiora, ma ha ripetuto che è assolutamente contraria a qualsiasi intervento armato esterno. «La soluzione politica rimane l'unica via d'uscita per la Siria, e più la situazione peggiora, maggiore unità è necessaria», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei, alla vigilia dell'arrivo del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton.
tratto da Nena news

martedì 28 agosto 2012

Israele - "Rachel Corrie morì per sbaglio"

Rigettata l'accusa di omicidio: Rachel Corrie morì per uno "spiacevole incidente" avvenuto in "attività di combattimento". Per i genitori e' una sentenza-farsa

Israele non è colpevole. Questa la sentenza emessa oggi dal tribunale di Haifa che ha così rigettato l'accusa di negligenza mossa contro lo Stato israeliano per l'omicidio dell'attivista americana Rachel Corrie. Israele si auto-assolve. A muovere l'accusa contro Tel Aviv erano stati i genitori di Rachel, secondo i quali Israele andava riconosciuto colpevole di omicidio e di aver condotto un'inchiesta incompleta e parziale. Di diverso parere la corte di Haifa: il giudice Oded Gershon ha stabilito che lo Stato non è responsabile per "nessun danno causato" perché si è trattato solo di "uno spiacevole incidente". Insomma, secondo il tribunale Rachel Corrie è morta per sbaglio ed ne è la sola responsabile perché "non ha lasciato l'area come qualsiasi persona di buon senso avrebbe fatto". Ma non solo. La corte di Haifa ne ha approfittato per sottolineare un'altra clausola, fondamentale per la legge israeliana:l'esercito è assolto da ogni accusa perché l'evento evento si è verificato "in tempo di guerra". Si è trattato, cioè, di "un'attività di combattimento", conseguente ad un fantomatico attacco subito da Israele poche ore prima nella Striscia di Gaza. Ventitré anni, residente ad Olympia e attivista dell'International Solidarity Movement, Rachel è morta il 16 marzo 2003, schiacciata da un bulldozer militare israeliano. Un Caterpillar D9-R guidato da un soldato israeliano l'ha uccisa mentre manifestava pacificamente contro la demolizione di case palestinese a Rafah, nella Striscia di Gaza. Nel 2005, a due anni dalla morte di Rachel, due anni trascorsi senza risposte da parte dello Stato israeliano, la famiglia Corrie ha deciso di muoversi. E ha fatto causa a Tel Aviv.

giovedì 19 luglio 2012

Siria - Ucciso il Ministro della difesa in un attentato


In un attentato kamikaze contro il palazzo di sicurezza è stato ucciso, ieri mattina, il Ministro siriano della Difesa, Dawoud Rajiha. La notizia è stata data dalla tv di stato siriana, che ha affermato che "Una bomba messa dai terroristi è esplosa all'interno di un edificio di sicurezza a Damasco dov'era in corso una riunione tra alcuni ministri e responsabili della sicurezza, uccidendo il ministro della Difesa e ferendo diverse persone, alcune delle quali sono in condizioni critiche".
Intanto continuano per il quarto giorno consecutivo i combattimenti nel cuore della capitale siriana, all'interno della guerra civile nel paese.
Le agenzie riportano le dichiarazioni dei membri della missione Onu a Damasco: "da ieri udiamo esplosioni, continue sparatorie, anche se non si tratta di una vera e propria battaglia", precisano le fonti. Gli osservatori dell'Onu dicono anche "di non essere stati finora coinvolti anche se a Damasco tutti sono in pericolo, è ovvio".
Sono diventati intanto 20 gli ufficiali che hanno abbandonato l'esercito ufficiale siriano, secondo quanto dichiarato da un funzionario del ministero degli esteri della Turchia, dove i militari si sono rifugiati insieme ad altri siriani in fuga.
Proprio oggi il premier turco Erdogan arriverà a Mosca per incontrare  Putin, mentre si attende il dibattito sulla risoluzione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

mercoledì 18 luglio 2012

Siria - La battaglia di Damasco


Continuano gli scontri nella capitale siriana.
Da più di tre giorni i portavoce dell'Esercito libero siriano (Esl) hanno dichiarato di aver iniziato "la battaglia per la liberazione" di Damasco. In particolare  Kassem Saadeddine, come esponente del Esl, ha dichiarato: "andremo avanti fino alla vittoria. Gli scontri a Damasco riguardano diverse zone e i carramati si muovono nelle vie del centro.
Fonti giornalistiche riportano la morte del vice capo della polizia di Damasco durante gli scontri della giornata di ieri e la notizia data dall?Esl dell'abbattimento di un elicottero dell'esercito di Assad.le dichirazioni volte a mettere in guardia il presidente siriano dall'utilizzare armi chimiche. Mentre ancora non ci sono dichiarazioni ufficiali sull'incontro avvenuto tra Kofi Annan e Vladimir Putin a Mosca. L'inviato dell'Onu e della Lega araba Kofi Annan ha solo laconicamente dichiarato che la situazione è a un bivio. Si aspetta mercoledì la riunione del  Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che dovrà discutere e votare la risoluzione sulla Siria.

martedì 17 luglio 2012

Palestina - L'apartheid dell'acqua


di Gideon Levy (*)

Avi fa il coordinatore delle ispezioni per conto dell'amministrazione civile, cioè - parlando senza eufemismi -dell'organizzazione che gestisce l'occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Presumibilmente ama il suo lavoro. Forse ne va perfino fiero. Non si disturba a precisare il suo cognome sul modulo che firma. E perché mai dovrebbe? La sua firma - "Avi", con uno svolazzo - è sufficiente a rendere operativi i suoi ordini. E quelli di Avi sono tra i più brutali e disumani mai imposti da queste parti. Avi confisca i serbatoi d'acqua che servono a centinaia di famiglie palestinesi e beduine che abitano nella valle del Giordano.
Per queste persone, i serbatoi sono l'unica fonte d'acqua. Nelle ultime settimane Avi ne ha confiscati una quindicina, lasciando decine di famiglie con bambini soffrire la sete nella calura spaventosa della valle del Giordano. I moduli che si preoccupa tanto di compilare in stile fiorito dicono: "Vi è motivo di sospettare che costoro si siano serviti degli articoli citati per commettere un reato". A quanto sostengono i capi di Avi, il "reato" è il furto d'acqua da una conduttura. Ecco perché i serbatoi vengono confiscati: senza indagini, senza processo. Benvenuti nel paese dell'illegalità e della malvagità. Benvenuti nel paese dell'apartheid. Israele non permette a migliaia di sventurati di allacciarsi alle condutture idriche. Quest'acqua è solo per gli ebrei. Neanche i più abili propagandisti israeliani potrebbero negare la separazione nazionalista e diabolica che viene realizzata qui.
L'asse del male si trova a circa un'ora di auto dalla casa di molti israeliani, ma essendo emotivamente distante e lontano dal cuore, non suscita nessuna "protesta sociale". Ed è quanto di peggio vi sia sulla scala della malvagità israeliana. Puntellato da formulari e burocrazia, applicato da ispettori apparentemente non violenti, non comporta una goccia di sangue, ma non lascia neanche una goccia d'acqua.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!