di Francesco Martone e Alberto Zoratti
Alla fine ce
l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato approvato a
colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del rasoio
(nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il “Doha Climate Gateway”.
Una porta di entrata per il futuro con l'estensione del protocollo di
Kyoto, il riconoscimento del risarcimento per danni causati dai
cambiamenti climatici e l'impegno dei paesi industrializzati di
stanziare per lo meno una somma pari alla media di quanto sborsato in
aiuti climatici negli ultimi 3 anni. Una
proposta di minima visto che troppi erano i gap da colmare. E' uno dei
tanti paradossi di questa Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici
che è conclusa sul filo del precipizio a Doha, città simbolo di
opulenza, immenso cantiere a cielo aperto, sede un incontro che
all'inizio si annunciava come un appuntamento di transizione. Così non è
stato. Le ultime fasi del negoziato del livello “ministeriale” si sono
protratte ben oltre i tempi previsti, tra mancanza di volontà politica
di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, (Stati Uniti in
particolare) e richieste insoddisfatte di un aumento dei fondi per
sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida industrializzazione verso
un'economia a basso contenuto di carbonio, – la Cina nello specifico, ma
non solo. Ed un ultimo colpo basso della Polonia con dietro le spalle
Russia ed Ucraina intenzionate a proteggere il loro diritto di vendere
alte quote di permessi di emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe
portato al fallimento totale della Conferenza. Così nella “land of
plenty” del Qatar, l' occasione per l'Emiro Hamad bin Khalifa al Thani di
proporsi al mondo come paladino dell'ambiente rischiava di sfumare per
una questione di quattrini, e per manifesta incapacità dei suoi
diplomatici. Se non fosse bastata la condanna
all'ergastolo per Mohammed al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di
"sovversione del sistema di governo" e "offesa all'emiro" per una sua
poesia dedicata alla “Tunisia dei gelsomini”. Anche qui a Doha si
riverberano gli effetti della “crisi” finanziaria in Europa, che a
Durban aveva messo assieme paesi poveri ed insulari salvando il
negoziato , e che poco dopo, vista l'incapacità di tener fede alle
promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il suo potere di
trattativa. La morsa del Fiscal Compact, e delle politiche di austerità
sostenute dalla BuBa e dalla Cancelliera Angela Merkel stanno così
avendo un effetto devastante anche sul profilo internazionale
dell'Unione già compromesso dalla posizione oltranzista di Varsavia.
A
Doha c'era da concludere il Piano di Azione di Bali su temi quali
adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie,
finanziamenti, strumenti di attuazione, il prossimo regime di riduzione
delle emissioni globali. Si è faticato fino all'ultimo secondo per poter
passare la palla al gruppo di lavoro creato a Durban che dovrà trattare
un accordo globale vincolante per tutti entro il 2015, per entrare in
vigore nel 2020. Fumo negli occhi di Todd Stern, negoziatore di
Washington. Un passo in avanti però c'è stato, si riconosce per la prima
volta il diritto dei paesi insulari al risarcimento per le “perdite e
danni”” per i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici. Fino
all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero come
reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi a Copenhagen
per il 2010-2012,
e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro il 2020.
A poco è servito che
l'Inghilterra annunciasse lo stanziamento di 2,2 miliardi di dollari,
seguito a ruota da altri paesi europei, (Germania, Francia, Olanda,
Svezia, Svizzera e UE) per un totale di 6,85 miliardi di dollari per i
prossimi due anni, un' aumento rispetto al biennio 2011-2012.
Inoltre i paesi donatori chiedevano di verificare come quei soldi
verranno spesi nei paesi in via di sviluppo, questi ultimi chiedono
invece che si faccia un verifica degli impegni di spesa dei primi.
L'onda lunga di questo gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel
negoziato sulle foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle
aspettative. Se ciò non bastasse. nonostante le
decine di morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non
sono riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15
gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali impegni
di riduzione. O il cosiddetto “ambition deficit”, ossia il differenziale
tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali
rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui
livelli di emissione del 1990. Temi che riemergeranno con virulenza nei
prossimi anni.
La COP18 riesce nonostante
tutto a rimettere faticosamente in carreggiata il Protocollo di Kyoto
confermando il "Second commitment period" cioè il secondo periodo di
impegni di taglio delle emissioni di gas climalteranti che i Paesi
industrializzati avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo
di basso profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico
Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1 gennaio 2013
inizierà Kyoto 2, ma vedrà li paesi parecipanti, quali Unione Europea,
la Svizzera, l'Australia e la Norvegia rappresentano solo il 15% delle
emissioni globali. La loro adesione a Kyoto, gli avrebbe permesso di
consolidare il mercato del carbonio (come il sistema ETS europeo o
quello australiano, che nei prossimi anni andranno a convergere) , uno
dei meccanismi flessibili di Kyoto particolarmente voluto dai Paesi
industrializzati, perchè permette una mitigazione a basso costo.Ed
invece uno dietro l'altro i paesi aderenti hanno annunciato
inaspettatamente di voler rinunciare all'acquisto di crediti di
emissione fino al 2020 quando terminerà Kyoto 2. Il rimanente 85%
delle emissioni, provenienti da Stati Uniti (con 17 tonnellate e passa
procapite all'anno di CO2) e Cina (con poco più di 7 tonnellate
procapite allo stesso livello dell'UE) verranno gestite all'interno del
percorso negoziale nato a Durban un anno fa, verso un regime non
vincolante ma di "pledge and review", impegni volontari da verificare
collettivamente. Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà
essere riempito di significato, di numeri e di percentuali.
La rigidità
di Stati Uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del
Canada, che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi
economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta ed al loro
sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato che,
secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni, sarebbe
dovuto arrivare naturalmente ad adottare un regime vincolante. D'altra
parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del G77 i suoi interessi di
potenza mondiale ormai emersa, non accetta alcun vincolo multilaterale
che metta in discussione il suo sviluppo impetuoso ancora fondato sullo
sfruttamento del carbone e del nucleare. Kyoto è necessario, ma non è
assolutamente sufficiente. Non lo era prima, tanto meno lo sarà oggi.
Il picco di emissioni di C02, dice il Panel di scienziati dell'IPCC,
dovrà essere raggiunto nel 2015 per poi decrescere. Questo poter sperare
di far rimanere la concentrazione di C02 sotto i 450 ppm e l'aumento
della temperatura media globale sotto i 2°C, che però può significare
+4°C - +6°C in altre parti del mondo, basti pensare all'Africa
subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona parte dei suoi
raccolti agricoli (con buona pace della sovranità alimentare) e alla
Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del tutto la sua calotta
glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa che, ironia della sorte
renderebbe assai meno costoso lo sfruttamento delle proprie risorse
petrolifere.
La prossima Conferenza delle Parti che si terrà a Varsavia
lascia poche speranze, vista l'ostinazione con la quale la Polonia ha
cercato di affossare il protocollo di Kyoto e con esso tutto il
negoziato. In molti stanno già guardando alla COP20 che si terrà a
Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà un'altra guida ed altre
ambizioni.
Pubblicato in Il manifesto 9 dicembre 2012
di Francesco Martone (SEL) e Alberto Zoratti (Fairwatch)
lunedì 10 dicembre 2012
Desinformémonos del lunedì
Reportajes
México
Marcela Salas Cassani y Juan Pablo Lozano
Gloria Muñoz Ramírez
Francisco López Bárcenas
Marcela Salas Cassani
Reportajes
Internacional
Adazahira Chávez
Joana Moncau, Suzi Soares, Cleber Arruda. Con la colaboración de
Jéssica Moreira
Traducción Waldo Lao
Fotos: EBC e Latuff
Traducción Waldo Lao
Fotos: EBC e Latuff
Jordi Pérez Colomé / Blog Obama World
Imagina
en Resistencia
Adazahira Chávez
Fotoreportaje
Fotografías:
Campaña “Ojo con tu ojo”
Texto:
Tomás Gisbert, Nicola Tanno, Desinformémonos
Música:
L’estaca Lluis Llach
Producción:
Desinformémonos
Video
Centro de Derechos Humanos Tlachinollan
Audio
Entrevistas: Marcela Salas Cassani y Sergio
Castro Bibriesca
Realización: Sergio Castro Bibriesca
Realización: Sergio Castro Bibriesca
venerdì 7 dicembre 2012
Egitto - Un pò di calore in questo inverno islamista
Contributo di Lorenzo Fe *
Gli sviluppi recenti
hanno pienamente confermato le riserve che si accompagnavano alla
grande gioia con cui era stata accolta l'ondata rivoluzionaria del
2011 nel mondo arabo. Ma se c'è un punto su cui non ci sono dubbi, è
che la Primavera Araba ha infranto il divide et impera della
tesi dello “scontro di civiltà”. Ma questa falsificazione è
avvenuta su due piani.
Da un lato abbiamo il
riemergere di un universalismo dal basso, l'universalismo della
libertà, della democrazia e della giustizia sociale. Il clima
culturale post-modernista, con la sua spesso unilaterale esaltazione
dei vari particolarismi, lo dava per spacciato. E invece eccolo
tornare con forza dove meno ce lo si aspettava.
Dall'altro lato però,
c'è l'universalismo dall'alto, che, dai tempi della rivoluzione
francese e dell'imperialismo, coopta le aspirazioni di libertà e
uguaglianza per trasformarle in facciata ideologica di rapporti di
forza tutt'altro che libertari. In questo caso l'universalismo
dall'alto si è manifestato nell'intesa tra interessi delle élite
occidentali e islamismo sunnita. Dopo un decennio di retorica di
guerra al terrore e di equazione tra Islam e terrorismo, tale intesa
sembrava addirittura inconcepibile. Eppure una riflessione storica
leggermente più ampia fa sembrare tale alleanza tutt'altro che
eccezionale. Stati Uniti e Arabia Saudita (paese che talvolta viene
buffamente designato come “moderato” dai media mainstream) sono
sempre stati in ottimi rapporti. La contemporanea cultura
dell'estremismo di destra sunnita, nonché la stessa Al Qaeda, è
stata forgiata nel corso della guerra santa contro l'invasione
sovietica dell'Afghanistan, che vedeva servizi segreti americani e
jihadisti uniti nella lotta. La guerra al terrore degli anni zero
sembra quindi una parentesi all'interno di un più ampio quadro di
collaborazione tra élite. Si ha la tentazione di descrivere gli
eventi in questi termini: negli anni '90, quando le sinistre
sembravano addomesticate o ridotte all'impotenza, le due destre hanno
pensato che fosse arrivato il momento di un regolamento di conti
interno. Ma con la crisi del neoliberismo e di fronte alla ribellione
popolare, i rapporti sono stati ricuciti in men che non si dica. Per
cui ecco gli Stati Uniti scommettere sull'islamismo moderato come
unico modo di mantenere il regime di governance finanziaria nella
regione.
Gli attuali allineamenti
stanno esacerbando il conflitto settario tra sciiti e sunniti interno
al mondo islamico. Gli islamisti sunniti, retorica a parte, sono
vicini all'occidente, e gli sciiti, sotto la guida quanto mai
deprecabile dell'Iran di Ahmadinejad e quel che resta della Siria di
Assad, in virulenta opposizione. I leader di entrambe le fazioni
giocano sul fanatismo religioso per autolegittimarsi. L'accentuarsi
del contrasto ha colpito chi ha la sfortuna di trovarsi in prossimità
delle trincee di questa guerra ideologica, in Siria, in Libano, e in
Palestina. In Siria l'insurrezione popolare e democratica sta
assumendo sempre di più le inquietanti sembianze di una guerra
etnico-religiosa tra la maggioranza sunnita e il regime sciita. In
Libano, Hezbollah è lacerata dalla contraddizione tra la sua
retorica populista e il suo fedele sostegno ad Assad. In Palestina,
Hamas è altrettanto indebolita dallo scontro tra la sua identità
sunnita e l'aiuto che ha ricevuto da Siria e Iran, cosa che sembra
aver reso la Palestina un bersaglio ancora più facile per
Nethanyahu.
All'interno della destra
sunnita, il contrasto si gioca invece tra la corrente più moderata
dei Fratelli Musulmani, che fa capo all'Egitto e al Qatar, e quella
salafita, che guarda invece all'Arabia Saudita. Negli anni '60 Egitto
e Arabia Saudita erano i due grandi concorrenti per l'egemonia sul
mondo arabo. Entrambi i regimi erano violentemente autoritari, ma
l'Egitto rappresentava una visione anti-imperialista, laica e
progressista dal punto di vista della distribuzione del reddito.
L'Arabia Saudita invece era ed è una monarchia religiosa fedele agli
interessi americani e a una sostanziale indifferenza verso la
questione palestinese. Con la fine di Nasser e l'avvento di Sadat, e
poi di Mubarak, l'Egitto ha ceduto sull'anti imperialismo, mantenendo
una qualche vestigia di parziale e relativo secolarismo (e l'immagine
della laicità è stata ovviamente alquanto danneggiata dalla sua
associazione con le dittature nord africane). La sfida
all'autoritarismo portata avanti dalla rivoluzione egiziana era anche
una sfida alle monarchie del golfo, ma l'opportunista avvento al
potere dei Fratelli Musulmani rappresenta un avvicinamento all'Arabia
dal punto di vista dell'islamismo sunnita e filo-Americano. Certo, i
salafiti, generosamente finanziati dai petroldollari sauditi, non
sono entrati nei governi a guida islamista moderata comparsi in
Marocco, Libia, Tunisia ed Egitto quando la polvere della ribellione
si è posata nuovamente al suolo. Ma si dimostrano sempre obbedienti
alleati quando si tratta di reprimere le mobilitazioni della
sinistra.
Il caso dell'Egitto è
emblematico anche per quel che riguarda le politiche degli islamisti
al potere. I Fratelli Musulmani sono da tempo un'organizzazione
potente, soprattutto dal punto di vista economico. La leadership
comprende diversi milionari e i quadri provengono dalla piccola e
media borghesia. Questa organizzazione si è rapidamente trasformata
in una formidabile macchina elettorale, che ha permesso al presidente
Morsy di venire democraticamente eletto nonostante gli intrighi dei
militari e dei rimasugli del vecchio regime. Ma Morsy non si è
dimostrato particolarmente incline a utilizzare il potere così
acquisito in modo altrettanto democratico. La libertà d'espressione,
per quanto più ampia che sotto Mubarak, è sta limitata rispetto al
periodo della transizione. L'assemblea costituente è stata
unilateralmente egemonizzata dagli islamisti. Le elezioni per il
nuovo parlamento sono state nuovamente posticipate. Morsy, che ha
temporaneamente anche i poteri del parlamento, ha recentemente varato
misure per mettere sotto controllo islamista anche il potere
giudiziario e i vertici del sindacato di stato. E soprattutto ha
garantito all'FMI, in cambio di un nuovo prestito, che il popolo
egiziano ripagherà il “debito dittatoriale” contratto sotto
Sadat e Mubarak. Le politiche neoliberiste che hanno portato al
crollo di Mubarak stanno per ripresentarsi sotto spoglie barbute.
Forti coi deboli e deboli coi forti, verrebbe da commentare. Di qui
la settimana di scontri della gioventù rivoluzionaria contro
islamisti e polizia, nello strenuo tentativo di far contare la forza
della mobilitazione più di quella del denaro. La gioventù
rivoluzionaria è determinata a far sì che il sangue e la memoria
dei caduti non vengano ripuliti dall'opportunismo islamista.
Egitto - Il discorso televisivo di Morsi fa allargare le proteste
Dopo la notte di scontri al Cairo tra oppositori e sostenitori del presidente Morsi che ha portato ad un bilancio di almeno sette morti, 350 i feriti e oltre 300 arresti eseguiti dalla polizia nella capitale la protesta è continua anche oggi con altri cortei dell'opposizione che hanno sfidato l'ordine della Guardia Repubblicana che aveva intimato di non fare manifestazioni in particolare nell'area del palazzo presidenziale.
C'era attesa in giornata, oggi, per il discorso televisivo del presidente Morsi. Il suo discorso ha ribadito che: "la minoranza deve accettare il volere della maggioranza". Il presidente nel confermare il referendum del 15 dicembre sulla costituzione, contestata dalle opposizioni, ha anche giustificato il decreto che gli concede ampi poteri e alla fine ha fatto un generico invito alle opposizioni per un incontro sabato.
La posizione del Fronte di Salvezza Nazionale, che comprende una buona parte dell'opposizione resta ferma: il presidente deve ritira il decreto con cui ha accentrato su di sè il potere e bisogna rinviare il referendum sulla costituzione proposta dagli islamici con contenuti di restringimento delle libertà individuali e collettive.
Per domani sono annunciate nuove proteste e un nuovo appuntamento di piazza.
In tarda serata è giunta la notizia che oltre alla sede centrale dei Fratelli Musulmani al Cairo è stato dato alle fiamme così come è successo anche in altre città del paese.
Sulle minacce lanciate verso chi manifesta si è pronunciato anche un esponente dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani: "La gente ha il diritto di protestare pacificamente e di non essere uccisa o ferita nel farlo. L'attuale governo è arrivato al potere col sostegno di simili proteste e per questo dovrebbe essere sensibile alla necessità di tutelare i diritti di libertà, di espressione e di riunirsi pacificamente dei manifestanti".
Intanto anche l’Università Al-Azhar, l’istituzione più prestigiosa del mondo islamico sunnita, ha chiesto al presidente di sospendere il decreto. In un comunicato, Al-Azhar ha inoltre chiesto a Morsi di avviare un dialogo senza condizioni con i l’opposizione.
RASSEGNA STAMPA
Nena News
Da Lettera 43
giovedì 6 dicembre 2012
Quatar - Climate change. Dati e riflessioni attorno al vertice sul clima di Doha
All’evidenza della crisi ambientale planetaria la risposta dei Governi sarà di ignorarla per continuare con questo modello di sviluppo
“Meno ghiaccio in
Artico: le navi cambiano rotta e risparmiano” titolava “Il
Sole 24ore” domenica 2/12/2012 nella prima pagina del
supplemento “Nòva24”. Con un certo compiacimento
l’articolista raccontava che, a causa del maggior scioglimento dei
ghiacci del Nord, dovuto all’aumento del riscaldamento del pianeta,
le rotte delle navi a Nord-Est restano aperte più a lungo che in
passato. Il risparmio per compagnie come la greca Dynagas,
che gestisce le rotte di carghi con gas naturale liquefatto per conto
di Gazprom dalla Norvegia al Giappone, è pari al 40% del
tragitto consueto. Questa “soddisfacente” notizia era conclusa
così: “Ogni viaggio sarà un caso a parte, ma il risparmio è
considerevole e la di gas dall’Artico cresce più del
livello dei mari per lo sciogliersi dei ghiacci polari, stimato
proprio questa settimana in 11 millimetri. Un’enormità se pensiamo
che l’acqua ricopre il 70% del pianeta”.
Questa notiziola dà la
misura di cosa ci si può aspettare dall’ennesimo Vertice sul clima
che si sta tenendo in questi giorni a Doha, nel Qatar: nulla di
concreto se non una schermaglia tra Nazioni il cui unico interesse
sarà, come lo è stato nei precedenti vertici, quello di trovare un
compromesso che consenta a tutti di poter continuare, imperterriti,
con questo modello di sviluppo, dissipando risorse naturali e
alterando l’ecosistema terrestre nel nome del profitto. Almeno sino
a quando l’irreversibilità dei cambiamenti climatici porrà tutti
di fronte ai suoi effetti più catastrofici.
La fantascienza inglese
degli anni 60 – appunto definita catastrofistica – aveva da tempo
prefigurato questo tipo di rischi per un pianeta sotto stress
ambientale com’è il nostro oggi. Basti ricordare gli splendidi
romanzi di James Ballard dedicati proprio alle peggiori
conseguenze possibili per l’uomo determinate da radicali
cambiamenti climatici: “Vento dal nulla”, “Deserto
d’acqua”, “Terra bruciata” e “Foresta di
cristallo”. In questi romanzi Ballard immaginava come potesse
essere l’esistenza umana di fronte a cambiamenti radicali quali
venti fortissimi persistenti; un aumento eccessivo della temperatura
e l’estensione di processi di desertificazione sui continenti;
forte siccità e incendi dovunque; ghiaccio nelle foreste. Ogni
romanzi tocca una di queste catastrofi.
Altrettanto realistico è
il romanzo di T. Coraghessan Boyle, “Amico della terra”,
pubblicato in Italia nel 2001, nel quale l’autore descrive la vita
di una famiglia di ecologisti militanti in una America del 2025
scossa da improvvisi e violenti cambiamenti climatici – anche qui
tempeste di vento fortissime e aumenti vertiginosi della temperatura
– che costringono gli umani ad una esistenza difficile e precaria
in balia delle forze naturali del pianeta.
Aderente alla realtà che
stiamo vivendo è anche “Il quinto giorno” di Frank
Schatzing che descrive cosa potrebbe accadere ai nostri fondali
marini e alla sua fauna – o meglio cosa probabilmente sta avvenendo
già ora – sottoposti allo stress dello sfruttamento intensivo
delle risorse contenutevi e all’utilizzo dissennato degli stessi
come ricettacolo dei peggiori e più pericolosi prodotti di scarto
delle produzioni industriali mondiali.
Letture che non sono più
semplicemente fiction e i dati forniti da innumerevoli studi
resi noti in occasione del Vertice Onu sui Cambiamenti Climatici di
Doha lo stanno a dimostrare. L’ultimo rapporto pubblicato a luglio
dal Joint Research Centre della Commissione Europea e
dell’Agenzia per l’ambiente olandese, “Trends in global CO2
emissions”, confessa che, nonostante la bassa crescita dovuta
alla crisi economica e per effetto di sforzi non certo vigorosi dei
paesi industrializzati, le emissioni di CO2 sono cresciute su
scala globale anche nel 2011 con un netto + 2,7%. Nell’ultimo
bollettino della World Meteorological Organization si attesta
che, tra il 1999 e il 2011, si è avuto un incremento del 30%
dell’influenza della CO2 antropica nell’atmosfera. La stessa
Banca Mondiale, nel rapporto “Turn Down the Heat”, si dice
preoccupata della prospettiva ormai concreta di un pianeta
avviato, nei prossimi anni, ad un aumento della temperatura di 4 °C,
che condanna le prossime generazioni a ondate di calore estreme,
scorte alimentari in forte calo, perdita di ecosistemi e
biodiversità, aumento del livello dei mari incompatibile con la
vita.
Secondo i dati
dell’Agenzia Onu per l’ambiente Unep, dal 2000 ad oggi le
emissioni sono aumentate del 20% anziché ridursi del 14% come
era necessario. A questo ritmo le emissioni di gas serra raggiungeranno i 58 miliardi di tonnellate nel 2020, superando
la soglia di 44 miliardi di tonnellate, ritenuta dagli esperti quella
limite per contenere il riscaldamento globale terrestre sotto i 2 °C.
L’indifferenza che dimostrano i Governi mondiali a questo problema
non è scalfita nemmeno dai costi economici che i cambiamenti
climatici determinano, stimati in un abbassamento del Pil mondiale
dell’1,6%, pari a 1200 miliardi di dollari, con trend di aumento
del 3,2% entro il 2030 e del 10% entro il 2100. Per loro si tratta
solo di costi necessari per mantenere l’attuale sistema di
sviluppo. Incredibile? No, è il capitalismo bellezza!
Anche l’acqua è a
rischio. Il quarto rapporto dell’Onu “World Water Development
Report” stima che un miliardo di persone hanno attualmente
difficoltà di accesso a questa risorsa – solo nell’Africa
sub-sahariana il 40% della popolazione. La difficoltà di accesso
all’acqua influirà anche nella produzione alimentare: entro il
2030, sempre secondo il rapporto Onu, Asia e Africa meridionale
saranno le regioni più vulnerabili per la scarsità di cibo.
L’Europa centrale e meridionale, invece, sopporteranno un
significativo stress idrico.
La terra scotterà di
più nel prossimo futuro. Gianfranco Bologna, Direttore
Scientifico del WWF, spiega come le 34 tonnellate di emissioni
prodotte nel 2011, il 3% in più rispetto al 2010, siano legate
esclusivamente alle attività dell’uomo e che “se i
trend attuali di emissioni dovessero continuare così come sta
avvenendo oggi, le emissioni cumulative causerebbero il sorpasso di
questo limite [1.000 – 1.500 tonnellate di emissioni cumulative
di CO2] entro i prossimi decenni”.
Per dare un’idea di
quanto i cambiamenti climatici influiranno sulle nostre abitudini di
vita, basti pensare che l’attuale maggior riscaldamento globale sta
mettendo a rischio in Canada lo stesso hockey su ghiaccio
all’aperto. Luoghi di culto di questo sport come il Rideau Canal
a Ottawa dovranno presto essere abbandonati a favore di luoghi al
coperto con ghiaccio artificiale. La rivista Envitonmental
Research Letters ha recentemente pubblicato uno studio che
attesta come gli inverni nelle regioni centrali e meridionali del
Canada siano sempre più miti e di minor durata, impendendo alle
temperature di scendere al punto da trasformare le gelate di acqua in
ghiaccio. I cambiamenti climatici in corso provocheranno, quindi,
sempre più frequentemente disastri ambientali e conseguenti fenomeni
di depauperamento delle vitali risorse naturali dell’ecosistema
terrestre.
“Se non invertirà
la tendenza in corso” hanno dichiarato gli scienziati dell’Onu
che studiano i cambiamenti climatici “ci aspettano inondazioni,
cicloni, tifoni, ondate di calore e siccità”, ricordando come
ormai tali fenomeni colpiscano un po’ dovunque nel pianeta: dalle
inondazioni italiane a quelle thailandesi, dalle emergenze siccità e
carestia che stanno devastando il Corno d’Africa all’emergenza
ciclone di New York e della costa occidentale degli USA e così via.
Il Vertice di Doha
si trova davanti questa situazione e vi si arriva con politiche
nazionali che nulla hanno fatto per rispettare l’impegno assunto
nel Vertice tenutosi nel 2011 a Durban di mantenere il riscaldamento
climatico entro i 2 °C. Un impegno frutto di un difficile
compromesso al ribasso, assunto con un documento esclusivamente di
intenti per poter garantire alle nazioni in forte crescita economica,
come Brasile, Cina, India e alle vecchie potenze mondiali, come USA e
Russia, nonché a nazioni fortemente industrializzate come il
Giappone o a quelle interessate all’estrazione di risorse fossili,
di continuare a mantenere i propri trend di sfruttamento delle
risorse e di produzione industriale inquinante, sostanzialmente
inalterati.
A Doha, in questi giorni,
i rappresentanti del BASIC – Brasile, Sud Africa, India e
Cina – sono determinati a fare fronte comune per non accettare
alcun vincolo ambientale che ne imbrigli la crescita. Nuova Zelanda e
Canada vi arrivano dopo aver persino ritirato la loro firma dal primo
accordo sul Clima, antecedente al compromesso di Durban. Il Giappone
non nasconde la propria contrarietà ad un possibile Kyoto-bis
e gli USA, già assenti alla ratifica del primo trattato, sembrano
decisi a non sottoscrivere impegni vincolanti. La Russia continua ad
eludere il problema. Solo l’Europa, con le sue tante contraddizioni
interne – si pensi alla posizione pro carbone della Polonia e degli
Stati dell’ex blocco socialista – e l’Australia sembrano
d’accordo per sottoscrivere qualche impegno volto almeno ad
attenuare le cause che stanno determinando i cambiamenti climatici.
Un quadro sconfortante
che ben fotografa il disinteresse dei Governi al cuore del problema
posto dall’emergenza climatica e ambientale in cui siamo immersi:
l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo e dei trend
di crescita industriale.
D’altra parte se i due
ultimi Vertici sul Clima si sono tenuti a Durban e a Doha, il primo
in Sud Africa, paese capitalistico emergente che non intende
rinuciare in nessun modo alla crescita economico-industriale in corso
e il secondo, in Qatar, uno dei massimi produttori di petrolio e tra
i capofila degli Stati che non intendono rinunciare al potere
conferitogli dalla presenza di risorse fossili nel proprio
sottosuolo, una ragione ci sarà pure. Ed è quella che il modello di
sviluppo capitalistico globalizzato e l’ideologia dominante
neoliberista non vanno messe in discussione da nessuna questione
ambientale, sia che si tratti di politiche di attenuazione degli
effetti negativi sul Clima e l’ambiente, sia, tanto meno, che si
tratti di cambiamenti radicali del sistema economico e produttivo
dominante.
Nell’agenda politica
degli Stati la questione ambientale è precipitata all’ultimo
posto; anche dove sono presenti partiti Verdi, ormai imbrigliati
nella matassa delle compatibilità delle politiche ambientali e della
green economy con il sistema produttivo, economico e
finanziario capitalistico. E la crisi finanziaria ed economica
mondiale rende ancora più evidente questa situazione,
marginalizzando qualsiasi politica o azione che ponga la necessità
di limiti a questo tipo di sviluppo o promuova modelli di produzione,
di consumo e di vita diversi da quelli dissipativi dominanti, ponendo
vincoli alla produzione e allo sfruttamento delle risorse naturali a
favore dell’ambiente e della salute.
La tanto sbandierata
green economy, che sembrava dovesse essere il motore della
ripresa targata Obama, si è presto arenata di fronte alla forza e ai
condizionamenti dei poteri basati sul possesso dei giacimenti di
risorse fossili. Segnali diversi non se ne vedono nel resto del mondo
e in Italia, prima si è cercato di frenarla con provvedimenti
fiscali e tagli ai finanziamenti, poi di “inquinarla”
ulteriormente con le manovre dei Ministri Passera e Clini volte a
rendere strategico il recupero energetico attraverso
l’incenerimento dei rifiuti, favorendo gli inceneritori e,
soprattutto, i cementieri, consentendo persino di produrre cemento
con i rifiuti speciali. L’importanza assegnata dagli ultimi Governi
al carbone è un ulteriore segnale che questo ceto politico non
intende affatto dare credito ai rischi ambientali evidenziati dagli
studi internazionali sui cambiamenti climatici.
L’indifferenza per le
condizioni ambientali del nostro territorio è evidente nella
mancanza di accenni a tale proposito del Primo Ministro Monti; nella
pervicacia con cui insiste insieme al Ministro Passera per
rilanciare, di fatto, tutte le Grandi Opere berlusconiane a partire
dalla Torino-Lione; nell’atteggiamento assunto da Clini e ora da
tutto il Governo sulla questione Ilva e dai pochi contraddittori
provvedimenti legislativi in materia ambientale assunti. Ecco allora
che situazioni come quelle determinatesi a causa delle recenti
perturbazioni metereologiche, dove si è evidenziato agli occhi di
tutti che la vera emergenza nel nostro Paese è quella del dissesto
idrogeologico, le risposte che ci si attenderebbe – un grande piano
di opere di messa in sicurezza del territorio, di riordino dei fiumi,
di razionalizzazione edilizia – non vengono neanche menzionate.
Legambiente, in
uno specifico dossier sull’argomento – “I costi del rischio
idrogeologico. Emergenza e prevenzione” – ci informano di
come, negli ultimi 60 anni, ogni anno almeno 4 regioni sono state
colpite da eventi metereologici che hanno causato frane e alluvioni,
spesso con conseguenze catastrofiche e come, negli ultimi 10 anni, la
frequenza di questi eventi è ulteriormente aumentata, con il
raddoppio ogni anno delle regioni colpite. Il momento – la crisi
economica e l’alto tasso di disoccupazione – sembrerebbe propizio
a “svoltare” decisamente pagina nel quadro delle priorità da
assegnare alle opere pubbliche necessarie, modulando verso interventi
utili per il territorio importanti settori industriali come, ad
esempio, quello edilizio. Invece nulla di tutto questo viene fatto.
Ma se il Governo dei “Tecnici” dimostra in tutti i sensi la sua
anima neoliberista non è che dai partiti del centro sinistra e dalle
grandi organizzazioni sindacali arrivino segnali migliori. Durante le
Primarie del Centro Sinistra Bersani ha parlato soprattutto di
lavoro e di crescita mentre le questioni ambientali sono state tutte
ricondotte ad un accenno alla green economy.. Da Renzi il
nulla assoluto mentre da Vendola qualche accenno in più
all’ambiente è arrivato ma solo ancorandolo alla questione del
lavoro, senza per altro neppure accennare a quale tipo di lavoro e a
quale modello di sviluppo. Di diverso modello di sviluppo non ha mai
accennato neanche la Fiom . Eppure, di fronte al caso Ilva,
alla crisi Fiat e alla chiusura delle miniere in Sardegna ci si
dovrebbe porre la questione di cosa, come e per quale scopo produrre
oltrechè la questione della salute e della sostenibilità
ambientale. Poteva essere finalmente il momento di un ravvedimento,
seppur tardivo, da un modello di sviluppo energivoro, dissipativo
delle risorse, inquinante per porsi il problema di come collocarsi di
fronte alla crisi ambientale avanzante. Invece nulla di tutto ciò.
A Doha si dovrebbe
parlare di risparmio energetico, di fonti rinnovabili, di nuove
infrastrutture legate a queste, di decarbonizzazione e piani di
riduzione drastica delle emissioni in atmosfera, di difesa delle
risorse naturali – in primo luogo dell’acqua – di biodiversità
e agricoltura sostenibile.
Non sarà così. Le
ricette per uscire dalla crisi dettate dal sistema finanziario e
bancario e dal neoliberalismo imperante vanno assolutamente in senso
contrario e il silenzio assegnato da tutti i media al Vertice di Doha
sta a dimostrare la residualità della questione ambientale e
climatica nelle agende politiche nazionali e internazionali.
Purtroppo anche per i
movimenti la questione ambientale sembra essere scesa nelle priorità,
compressi come sono dalla drammaticità della crisi, dall’erosione
dei diritti e dall’aggressività del Potere. Le giornate di Seattle
e Genova con al centro dello scontro la critica radicale alla
globalizzazione neoliberista e le questioni ambientali sono lontane
ma i nodi sono rimasti, anzi si sono ulteriormente aggrovigliati.
Rimettere al centro del dibattito e dell’agire nella crisi questi
temi diventa più che urgente, assolutamente necessario. In Italia
poi è da colmare un vuoto e risanare i guasti lasciati da un
ambientalismo timido e, spesso, troppo condizionato dai compromessi e
dalle compatibilità con il sistema dominante.
Percorso di
lettura:
Sul tema ci sono
tantissimi saggi e contributi che forniscono dati e analisi sulla
condizione del Pianeta. Ho preferito fornire un piccolo percorso di
lettura che, insieme alla godibilità delle storie, in qualche modo
approcci al problema. Per questo consiglio:
James Ballard
“Vento dal nulla”
Mondadori, Collana Urania n.288, 1961
“Deserto d’acqua”
Mondadori, Collana Urania n.311, 1962, con il titolo “Il mondo
sommerso” Editore Feltrinelli, 2005
“Terra bruciata”
Mondadori, Collana Urania n.417, 1964
“Foresta di
cristallo” Editore Dalai, 1999
I quattro romanzi sono
stati editi insieme in un volume unico Mondadori “I Massimi della
Fantascienza”, 1986
T. Coraghessan Boyle
“Amico della terra”
Einaudi, 2001
Frank Schatzing
“Il quinto giorno”
Editrice Nord, 2005, Edizioni TEA, 2007
Per finire, sulle guerre
per le risorse (petrolio) invito a leggere con questa chiave il
bellissimo ciclo di Frank Herbert “Dune” (6 volumi
editi dalla Editrice Nord e ora riediti da Fanucci Editore) e di Alan
D. Altieri “Kondor” Editrice TEA.
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ALLERTA ROSSA E CHIUSURA CARACOLES
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Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.
La lucha sigue!