venerdì 7 dicembre 2012

Egitto - Il discorso televisivo di Morsi fa allargare le proteste


Dopo la notte di scontri al Cairo tra oppositori e sostenitori del presidente Morsi che ha portato ad un bilancio di almeno sette morti, 350 i feriti e oltre 300 arresti eseguiti dalla polizia nella capitale la protesta è continua anche oggi con altri cortei dell'opposizione che hanno sfidato l'ordine della Guardia Repubblicana che aveva intimato di non fare manifestazioni in particolare nell'area del palazzo presidenziale.
C'era attesa in giornata, oggi, per il discorso televisivo del presidente Morsi. Il suo discorso ha ribadito che: "la minoranza deve accettare il volere della maggioranza". Il presidente nel confermare il referendum del 15 dicembre sulla costituzione, contestata dalle opposizioni, ha anche giustificato il decreto che gli concede ampi poteri e alla fine ha fatto un generico invito alle opposizioni per un incontro sabato.
La posizione del Fronte di Salvezza Nazionale, che comprende una buona parte dell'opposizione resta ferma: il presidente deve ritira il decreto con cui ha accentrato su di sè il potere e bisogna rinviare il referendum sulla costituzione proposta dagli islamici con contenuti di restringimento delle libertà individuali e collettive.
Per domani sono annunciate nuove proteste e un nuovo appuntamento di piazza.
In tarda serata è giunta la notizia che oltre alla sede centrale dei Fratelli Musulmani al Cairo è stato dato alle fiamme così come è successo anche in altre città del paese.
Sulle minacce lanciate verso chi manifesta si è pronunciato anche un esponente dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani: "La gente ha il diritto di protestare pacificamente e di non essere uccisa o ferita nel farlo. L'attuale governo è arrivato al potere col sostegno di simili proteste e per questo dovrebbe essere sensibile alla necessità di tutelare i diritti di libertà, di espressione e di riunirsi pacificamente dei manifestanti".
Intanto anche l’Università Al-Azhar, l’istituzione più prestigiosa del mondo islamico sunnita, ha chiesto al presidente di sospendere il decreto. In un comunicato, Al-Azhar ha inoltre chiesto a Morsi di avviare un dialogo senza condizioni con i l’opposizione.
RASSEGNA STAMPA
Nena News
Da Lettera 43

giovedì 6 dicembre 2012

Quatar - Climate change. Dati e riflessioni attorno al vertice sul clima di Doha


All’evidenza della crisi ambientale planetaria la risposta dei Governi sarà di ignorarla per continuare con questo modello di sviluppo

Meno ghiaccio in Artico: le navi cambiano rotta e risparmiano” titolava “Il Sole 24ore” domenica 2/12/2012 nella prima pagina del supplemento “Nòva24”. Con un certo compiacimento l’articolista raccontava che, a causa del maggior scioglimento dei ghiacci del Nord, dovuto all’aumento del riscaldamento del pianeta, le rotte delle navi a Nord-Est restano aperte più a lungo che in passato. Il risparmio per compagnie come la greca Dynagas, che gestisce le rotte di carghi con gas naturale liquefatto per conto di Gazprom dalla Norvegia al Giappone, è pari al 40% del tragitto consueto. Questa “soddisfacente” notizia era conclusa così: “Ogni viaggio sarà un caso a parte, ma il risparmio è considerevole e la di gas dall’Artico cresce più del livello dei mari per lo sciogliersi dei ghiacci polari, stimato proprio questa settimana in 11 millimetri. Un’enormità se pensiamo che l’acqua ricopre il 70% del pianeta”.
Questa notiziola dà la misura di cosa ci si può aspettare dall’ennesimo Vertice sul clima che si sta tenendo in questi giorni a Doha, nel Qatar: nulla di concreto se non una schermaglia tra Nazioni il cui unico interesse sarà, come lo è stato nei precedenti vertici, quello di trovare un compromesso che consenta a tutti di poter continuare, imperterriti, con questo modello di sviluppo, dissipando risorse naturali e alterando l’ecosistema terrestre nel nome del profitto. Almeno sino a quando l’irreversibilità dei cambiamenti climatici porrà tutti di fronte ai suoi effetti più catastrofici.
La fantascienza inglese degli anni 60 – appunto definita catastrofistica – aveva da tempo prefigurato questo tipo di rischi per un pianeta sotto stress ambientale com’è il nostro oggi. Basti ricordare gli splendidi romanzi di James Ballard dedicati proprio alle peggiori conseguenze possibili per l’uomo determinate da radicali cambiamenti climatici: “Vento dal nulla”, “Deserto d’acqua”, “Terra bruciata” e “Foresta di cristallo”. In questi romanzi Ballard immaginava come potesse essere l’esistenza umana di fronte a cambiamenti radicali quali venti fortissimi persistenti; un aumento eccessivo della temperatura e l’estensione di processi di desertificazione sui continenti; forte siccità e incendi dovunque; ghiaccio nelle foreste. Ogni romanzi tocca una di queste catastrofi.
Altrettanto realistico è il romanzo di T. Coraghessan Boyle, “Amico della terra”, pubblicato in Italia nel 2001, nel quale l’autore descrive la vita di una famiglia di ecologisti militanti in una America del 2025 scossa da improvvisi e violenti cambiamenti climatici – anche qui tempeste di vento fortissime e aumenti vertiginosi della temperatura – che costringono gli umani ad una esistenza difficile e precaria in balia delle forze naturali del pianeta.
Aderente alla realtà che stiamo vivendo è anche “Il quinto giorno” di Frank Schatzing che descrive cosa potrebbe accadere ai nostri fondali marini e alla sua fauna – o meglio cosa probabilmente sta avvenendo già ora – sottoposti allo stress dello sfruttamento intensivo delle risorse contenutevi e all’utilizzo dissennato degli stessi come ricettacolo dei peggiori e più pericolosi prodotti di scarto delle produzioni industriali mondiali.
Letture che non sono più semplicemente fiction e i dati forniti da innumerevoli studi resi noti in occasione del Vertice Onu sui Cambiamenti Climatici di Doha lo stanno a dimostrare. L’ultimo rapporto pubblicato a luglio dal Joint Research Centre della Commissione Europea e dell’Agenzia per l’ambiente olandese, “Trends in global CO2 emissions”, confessa che, nonostante la bassa crescita dovuta alla crisi economica e per effetto di sforzi non certo vigorosi dei paesi industrializzati, le emissioni di CO2 sono cresciute su scala globale anche nel 2011 con un netto + 2,7%. Nell’ultimo bollettino della World Meteorological Organization si attesta che, tra il 1999 e il 2011, si è avuto un incremento del 30% dell’influenza della CO2 antropica nell’atmosfera. La stessa Banca Mondiale, nel rapporto “Turn Down the Heat”, si dice preoccupata della prospettiva ormai concreta di un pianeta avviato, nei prossimi anni, ad un aumento della temperatura di 4 °C, che condanna le prossime generazioni a ondate di calore estreme, scorte alimentari in forte calo, perdita di ecosistemi e biodiversità, aumento del livello dei mari incompatibile con la vita.
Secondo i dati dell’Agenzia Onu per l’ambiente Unep, dal 2000 ad oggi le emissioni sono aumentate del 20% anziché ridursi del 14% come era necessario. A questo ritmo le emissioni di gas serra raggiungeranno i 58 miliardi di tonnellate nel 2020, superando la soglia di 44 miliardi di tonnellate, ritenuta dagli esperti quella limite per contenere il riscaldamento globale terrestre sotto i 2 °C. L’indifferenza che dimostrano i Governi mondiali a questo problema non è scalfita nemmeno dai costi economici che i cambiamenti climatici determinano, stimati in un abbassamento del Pil mondiale dell’1,6%, pari a 1200 miliardi di dollari, con trend di aumento del 3,2% entro il 2030 e del 10% entro il 2100. Per loro si tratta solo di costi necessari per mantenere l’attuale sistema di sviluppo. Incredibile? No, è il capitalismo bellezza!
Anche l’acqua è a rischio. Il quarto rapporto dell’Onu “World Water Development Report” stima che un miliardo di persone hanno attualmente difficoltà di accesso a questa risorsa – solo nell’Africa sub-sahariana il 40% della popolazione. La difficoltà di accesso all’acqua influirà anche nella produzione alimentare: entro il 2030, sempre secondo il rapporto Onu, Asia e Africa meridionale saranno le regioni più vulnerabili per la scarsità di cibo. L’Europa centrale e meridionale, invece, sopporteranno un significativo stress idrico.
La terra scotterà di più nel prossimo futuro. Gianfranco Bologna, Direttore Scientifico del WWF, spiega come le 34 tonnellate di emissioni prodotte nel 2011, il 3% in più rispetto al 2010, siano legate esclusivamente alle attività dell’uomo e che “se i trend attuali di emissioni dovessero continuare così come sta avvenendo oggi, le emissioni cumulative causerebbero il sorpasso di questo limite [1.000 – 1.500 tonnellate di emissioni cumulative di CO2] entro i prossimi decenni”.
Per dare un’idea di quanto i cambiamenti climatici influiranno sulle nostre abitudini di vita, basti pensare che l’attuale maggior riscaldamento globale sta mettendo a rischio in Canada lo stesso hockey su ghiaccio all’aperto. Luoghi di culto di questo sport come il Rideau Canal a Ottawa dovranno presto essere abbandonati a favore di luoghi al coperto con ghiaccio artificiale. La rivista Envitonmental Research Letters ha recentemente pubblicato uno studio che attesta come gli inverni nelle regioni centrali e meridionali del Canada siano sempre più miti e di minor durata, impendendo alle temperature di scendere al punto da trasformare le gelate di acqua in ghiaccio. I cambiamenti climatici in corso provocheranno, quindi, sempre più frequentemente disastri ambientali e conseguenti fenomeni di depauperamento delle vitali risorse naturali dell’ecosistema terrestre.
Se non invertirà la tendenza in corso” hanno dichiarato gli scienziati dell’Onu che studiano i cambiamenti climatici “ci aspettano inondazioni, cicloni, tifoni, ondate di calore e siccità”, ricordando come ormai tali fenomeni colpiscano un po’ dovunque nel pianeta: dalle inondazioni italiane a quelle thailandesi, dalle emergenze siccità e carestia che stanno devastando il Corno d’Africa all’emergenza ciclone di New York e della costa occidentale degli USA e così via.
Il Vertice di Doha si trova davanti questa situazione e vi si arriva con politiche nazionali che nulla hanno fatto per rispettare l’impegno assunto nel Vertice tenutosi nel 2011 a Durban di mantenere il riscaldamento climatico entro i 2 °C. Un impegno frutto di un difficile compromesso al ribasso, assunto con un documento esclusivamente di intenti per poter garantire alle nazioni in forte crescita economica, come Brasile, Cina, India e alle vecchie potenze mondiali, come USA e Russia, nonché a nazioni fortemente industrializzate come il Giappone o a quelle interessate all’estrazione di risorse fossili, di continuare a mantenere i propri trend di sfruttamento delle risorse e di produzione industriale inquinante, sostanzialmente inalterati.
A Doha, in questi giorni, i rappresentanti del BASIC – Brasile, Sud Africa, India e Cina – sono determinati a fare fronte comune per non accettare alcun vincolo ambientale che ne imbrigli la crescita. Nuova Zelanda e Canada vi arrivano dopo aver persino ritirato la loro firma dal primo accordo sul Clima, antecedente al compromesso di Durban. Il Giappone non nasconde la propria contrarietà ad un possibile Kyoto-bis e gli USA, già assenti alla ratifica del primo trattato, sembrano decisi a non sottoscrivere impegni vincolanti. La Russia continua ad eludere il problema. Solo l’Europa, con le sue tante contraddizioni interne – si pensi alla posizione pro carbone della Polonia e degli Stati dell’ex blocco socialista – e l’Australia sembrano d’accordo per sottoscrivere qualche impegno volto almeno ad attenuare le cause che stanno determinando i cambiamenti climatici.
Un quadro sconfortante che ben fotografa il disinteresse dei Governi al cuore del problema posto dall’emergenza climatica e ambientale in cui siamo immersi: l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo e dei trend di crescita industriale.
D’altra parte se i due ultimi Vertici sul Clima si sono tenuti a Durban e a Doha, il primo in Sud Africa, paese capitalistico emergente che non intende rinuciare in nessun modo alla crescita economico-industriale in corso e il secondo, in Qatar, uno dei massimi produttori di petrolio e tra i capofila degli Stati che non intendono rinunciare al potere conferitogli dalla presenza di risorse fossili nel proprio sottosuolo, una ragione ci sarà pure. Ed è quella che il modello di sviluppo capitalistico globalizzato e l’ideologia dominante neoliberista non vanno messe in discussione da nessuna questione ambientale, sia che si tratti di politiche di attenuazione degli effetti negativi sul Clima e l’ambiente, sia, tanto meno, che si tratti di cambiamenti radicali del sistema economico e produttivo dominante.
Nell’agenda politica degli Stati la questione ambientale è precipitata all’ultimo posto; anche dove sono presenti partiti Verdi, ormai imbrigliati nella matassa delle compatibilità delle politiche ambientali e della green economy con il sistema produttivo, economico e finanziario capitalistico. E la crisi finanziaria ed economica mondiale rende ancora più evidente questa situazione, marginalizzando qualsiasi politica o azione che ponga la necessità di limiti a questo tipo di sviluppo o promuova modelli di produzione, di consumo e di vita diversi da quelli dissipativi dominanti, ponendo vincoli alla produzione e allo sfruttamento delle risorse naturali a favore dell’ambiente e della salute.
La tanto sbandierata green economy, che sembrava dovesse essere il motore della ripresa targata Obama, si è presto arenata di fronte alla forza e ai condizionamenti dei poteri basati sul possesso dei giacimenti di risorse fossili. Segnali diversi non se ne vedono nel resto del mondo e in Italia, prima si è cercato di frenarla con provvedimenti fiscali e tagli ai finanziamenti, poi di “inquinarla” ulteriormente con le manovre dei Ministri Passera e Clini volte a rendere strategico il recupero energetico attraverso l’incenerimento dei rifiuti, favorendo gli inceneritori e, soprattutto, i cementieri, consentendo persino di produrre cemento con i rifiuti speciali. L’importanza assegnata dagli ultimi Governi al carbone è un ulteriore segnale che questo ceto politico non intende affatto dare credito ai rischi ambientali evidenziati dagli studi internazionali sui cambiamenti climatici.
L’indifferenza per le condizioni ambientali del nostro territorio è evidente nella mancanza di accenni a tale proposito del Primo Ministro Monti; nella pervicacia con cui insiste insieme al Ministro Passera per rilanciare, di fatto, tutte le Grandi Opere berlusconiane a partire dalla Torino-Lione; nell’atteggiamento assunto da Clini e ora da tutto il Governo sulla questione Ilva e dai pochi contraddittori provvedimenti legislativi in materia ambientale assunti. Ecco allora che situazioni come quelle determinatesi a causa delle recenti perturbazioni metereologiche, dove si è evidenziato agli occhi di tutti che la vera emergenza nel nostro Paese è quella del dissesto idrogeologico, le risposte che ci si attenderebbe – un grande piano di opere di messa in sicurezza del territorio, di riordino dei fiumi, di razionalizzazione edilizia – non vengono neanche menzionate.
Legambiente, in uno specifico dossier sull’argomento – “I costi del rischio idrogeologico. Emergenza e prevenzione” – ci informano di come, negli ultimi 60 anni, ogni anno almeno 4 regioni sono state colpite da eventi metereologici che hanno causato frane e alluvioni, spesso con conseguenze catastrofiche e come, negli ultimi 10 anni, la frequenza di questi eventi è ulteriormente aumentata, con il raddoppio ogni anno delle regioni colpite. Il momento – la crisi economica e l’alto tasso di disoccupazione – sembrerebbe propizio a “svoltare” decisamente pagina nel quadro delle priorità da assegnare alle opere pubbliche necessarie, modulando verso interventi utili per il territorio importanti settori industriali come, ad esempio, quello edilizio. Invece nulla di tutto questo viene fatto. Ma se il Governo dei “Tecnici” dimostra in tutti i sensi la sua anima neoliberista non è che dai partiti del centro sinistra e dalle grandi organizzazioni sindacali arrivino segnali migliori. Durante le Primarie del Centro Sinistra Bersani ha parlato soprattutto di lavoro e di crescita mentre le questioni ambientali sono state tutte ricondotte ad un accenno alla green economy.. Da Renzi il nulla assoluto mentre da Vendola qualche accenno in più all’ambiente è arrivato ma solo ancorandolo alla questione del lavoro, senza per altro neppure accennare a quale tipo di lavoro e a quale modello di sviluppo. Di diverso modello di sviluppo non ha mai accennato neanche la Fiom . Eppure, di fronte al caso Ilva, alla crisi Fiat e alla chiusura delle miniere in Sardegna ci si dovrebbe porre la questione di cosa, come e per quale scopo produrre oltrechè la questione della salute e della sostenibilità ambientale. Poteva essere finalmente il momento di un ravvedimento, seppur tardivo, da un modello di sviluppo energivoro, dissipativo delle risorse, inquinante per porsi il problema di come collocarsi di fronte alla crisi ambientale avanzante. Invece nulla di tutto ciò.
A Doha si dovrebbe parlare di risparmio energetico, di fonti rinnovabili, di nuove infrastrutture legate a queste, di decarbonizzazione e piani di riduzione drastica delle emissioni in atmosfera, di difesa delle risorse naturali – in primo luogo dell’acqua – di biodiversità e agricoltura sostenibile.
Non sarà così. Le ricette per uscire dalla crisi dettate dal sistema finanziario e bancario e dal neoliberalismo imperante vanno assolutamente in senso contrario e il silenzio assegnato da tutti i media al Vertice di Doha sta a dimostrare la residualità della questione ambientale e climatica nelle agende politiche nazionali e internazionali.
Purtroppo anche per i movimenti la questione ambientale sembra essere scesa nelle priorità, compressi come sono dalla drammaticità della crisi, dall’erosione dei diritti e dall’aggressività del Potere. Le giornate di Seattle e Genova con al centro dello scontro la critica radicale alla globalizzazione neoliberista e le questioni ambientali sono lontane ma i nodi sono rimasti, anzi si sono ulteriormente aggrovigliati. Rimettere al centro del dibattito e dell’agire nella crisi questi temi diventa più che urgente, assolutamente necessario. In Italia poi è da colmare un vuoto e risanare i guasti lasciati da un ambientalismo timido e, spesso, troppo condizionato dai compromessi e dalle compatibilità con il sistema dominante.
Percorso di lettura:
Sul tema ci sono tantissimi saggi e contributi che forniscono dati e analisi sulla condizione del Pianeta. Ho preferito fornire un piccolo percorso di lettura che, insieme alla godibilità delle storie, in qualche modo approcci al problema. Per questo consiglio:
James Ballard
Vento dal nulla” Mondadori, Collana Urania n.288, 1961
Deserto d’acqua” Mondadori, Collana Urania n.311, 1962, con il titolo “Il mondo sommerso” Editore Feltrinelli, 2005
Terra bruciata” Mondadori, Collana Urania n.417, 1964
Foresta di cristallo” Editore Dalai, 1999
I quattro romanzi sono stati editi insieme in un volume unico Mondadori “I Massimi della Fantascienza”, 1986
T. Coraghessan Boyle
Amico della terra” Einaudi, 2001
Frank Schatzing
Il quinto giorno” Editrice Nord, 2005, Edizioni TEA, 2007
Per finire, sulle guerre per le risorse (petrolio) invito a leggere con questa chiave il bellissimo ciclo di Frank Herbert “Dune” (6 volumi editi dalla Editrice Nord e ora riediti da Fanucci Editore) e di Alan D. Altieri “Kondor” Editrice TEA.

Slovenia - Sull’orlo di una crisi di nervi


Alle elezioni si sono accompagnati proteste e scontri di piazza per la grave situazione economica in cui versa il paese: dal 2009 il Pil ha subito una contrazione maggiore dell’8%.

Bagliori di fiamme dalla Slovenia. Dopo l'euforia dell’ingresso nell’Eurozona, le pene della crisi economia dell’UE.
Cosa sta succedendo nella vicina Slovenia, di cui pochi parlano, nonostante si trovi a pochi passi dai nostri territori e da cui ci giungono i bagliori delle fiamme degli scontri di piazza?
Vediamo di delineare un quadro che ci possa dare una chiave di lettura in attesa di poter offrire un resoconto più completo.
Confermando gli exit poll, ma smentendo tutti i pronostici della vigilia, il leader del Partito socialdemocratico, Borut Pahor ha battuto il presidente uscente Danilo Turk ottenendo al ballottaggio il 67,4% dei voti, contro il 32,6%. La consultazione non sembra però aver coinvolto gran chè gli elettori sloveni, infatti soltanto il 40% o poco più degli aventi diritto si è recato alle urne. Si tratta dell’affluenza più bassa del paese dall’indipendenza ottenuta nel ’91.
Alle elezioni si sono accompagnati proteste e scontri di piazza per la grave situazione economica in cui versa il paese: dal 2009 il Pil ha subito una contrazione maggiore dell’8%.
L’economia della Slovenia ha inanellato la seconda recessione degli ultimi tre anni, fortemente influenzata dal pessimo andamento dell’eurozona, oltre che penalizzata da un settore bancario sull’orlo di una crisi di nervi. Qualche numero? Il prodotto interno lordo si è contratto nel terzo trimestre del 2012 (luglio-settembre) di 0,3 punti percentuali, mentre rispetto a un anno fa è calato del 2,3%. Allo stesso tempo, il comparto bancario ha un accesso limitato ai finanziamenti, eccezion fatta per i prestiti della Bce.
Le prospettive future non sono dunque incoraggianti. In particolare, il governo di Lubiana è destinato ad essere il sesto tra i membri dell’eurozona a richiedere un salvataggio finanziario, dopo Portogallo, Irlanda, Cipro, Spagna e Grecia. Già nel 2011 si erano intuite le prime difficoltà, in quel caso imputabili al settore delle costruzioni: in effetti, gli eccessivi acquisti di immobili di lusso non hanno poi reso con la stessa velocità, ragione per cui moltissime compagnie si sono indebitate.
Il nuovo presidente, Borut Pahor, ha detto di condividere la scelta del primo ministro conservatore, Janez Jansa, di seguire le indicazioni Europee, e del Fondo Monetario Internazionale, per arginare la crisi. Gli interventi richiesti sono le ormai note misure di austerità che dovrebbero limitare la spesa pubblica per risanare il bilancio e ridurre il debito in modo da poter tornare a ottenere credito a tassi ragionevoli.
Sono già 5 giorni che a Lubjana e Maribor si susseguono manifestazioni con cortei e scontri con la Polizia, sul tappeto, dunque, la crisi economica che attanaglia il Paese, dopo le euforie dell’ingresso a pieno titolo nell’eurozona, oggi vengono imposte severe politiche di austerità, tra cui il taglio del 40% delle già misere pensioni, goccia questa che ha fatto traboccare il vaso ed ha innescato le recenti ondate di proteste.
A questo va aggiunto una diffusa insofferenza per un sistema di corruttele che attraversa le Istituzioni, di cui il sindaco di Maribor, questo sarebbe il motivo per cui in questa città più che altrove le manifestazioni sono state maggiormente partecipate e gli scontri più duri.
Anche ieri sei veicoli della polizia sono stati danneggiati, alcune vetrate del municipio, a cui è stato tentato un assalto, sono state rotte, così come sono state danneggiate alcune fermate degli autobus nel centro della città e sono stati incendiati una dozzina di cassonetti. Il vice sindaco di Maribor, Milan Mikl, ha detto di temere “la completa anarchia”.
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Il Mondo

mercoledì 5 dicembre 2012

Egitto - Continua la protesta contro Morsi che è costretto a lasciare il palazzo presidenziale

Intanto anche in Tunisia si manifesta contro la repressione e le provocazioni

Mentre in Tunisia continuano le proteste dopo la pesante repressione a Siliana e la giornata di oggi ha visto un nuovo corteo a Tunisi in risposta all'assalto avvenuto da parte di esponenti di Ennadha della sede del sindacato UGT, anche oggi in Egitto ci sono state nuove manifestazioni.
La protesta è arrivata fin sotto il palazzo presidenziale dove ci sono stati scontri con la polizia. I manifestanti hanno cercato di rompere il blocco davanti al palazzo e sono stati allontanati da un fitto lancio di lacrimogeni da parte dei poliziotti.
Alcune agenzie di stampa dicono che il Presidente Morsi ha lasciato la residenza nel quartiere di Heliopolis per andare a rifugiarsi nella residenza alla periferia della capitale. La stessa tv di stato egiziana ha detto che le forze di sicurezza si sono ritirate dal perimetro esterno del palazzo presidenziale, mentre Al Jazeera ha mostrato le immagini di un blindato della polizia seguito da un gruppo di poliziotti in tenuta antisommossa completamente circondato dai manifestanti.
Il bilancio della giornata è di numerosi manifestanti feriti ed intossicati dai gas lacrimogeni.
La manifestazione di oggi era stata annunciata come un "avvertimento finale" da parte dell'opposizione nei confronti di una costituzione, frutto della maggioranza islamista (nell'Assemblea costituente che l'ha approvata i laici ed i cristinai non hanno partecipato) e che mette a repentaglio le libertà democratiche oltre ai diritti delle donne e delle minoranze. E' questa costituzione che Morsi vorrebbe portare a referendum il 15 dicembre.

martedì 4 dicembre 2012

Messico - I movimenti sociali contro l'insediamento di Pena Nieto


Il primo dicembre, giornata di insediamento come Presidente di Enrique Pena Nieto a Città del Messico e in altre città del paese si è fatta sentire la protesta contro un presidente che tanti ritengono illegittimo. A Città del Messico le cariche sono state molto dure contro i manifestanti.

di Giovanna Gasaparello dal Messico.


Più di cento arresti e decine di feriti: con questo drammatico bilancio inizia il governo di Enrique Peña Nieto e del Partido Revolucionario Institucional. Le immagini degli scontri di piazza, dove all’ira dei manifestanti l’enorme spiegamento di polizia in assetto antisommossa ha risposto con una violenza estrema (lancio di lacrimogeni al gas CS e pallottole di gomma, uso di idranti, etc), rimanda alle manifestazioni nostrane di Genova 2001, o Roma 2011. D’altro canto, ciò che è successo ieri per le strade del centro di Città del Messico ma anche all’esterno della Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara (dove sono stati 20 i feriti tra i manifestanti) era chiaramente prevedibile: da una settimana le vicinanze del Parlamento, dove si è svolta la prima parte della cerimonia ufficiale, erano state blindate e rese inaccessibili anche agli abitanti: altissime transenne metalliche e uno spiegamento permanente di polizia aveva trasformato l’intero quartiere in una vera e propria zona rossa. Nonostante le reiterate proteste dei manifestanti e dei partiti di opposizione, l’assedio è stato mantenuto per tutta la settimana fino al giorno cruciale. La gestione sanguinaria dell’ordine pubblico non rappresenta un cattivo inizio, ma piuttosto una pessima continuazione nell’esercizio del governo da parte di Enrique Peña Nieto: non dimentichiamo che era lui al governo dello Stato del Messico, e dunque l’autorità direttamente responsabile, quando nel 2006 la manifestazione del Frente de Los Pueblos en Defensa de la Tierra e degli abitanti di San Salvador Atenco fu duramente repressa, causando due giorni di scontri nella cittadina, due giovani manifestanti uccisi e decine di arrestati che passarono diversi anni in carcere prima di venire liberati con un verdetto di Cassazione. Dopo l’arresto, decine di donne arrestate furono violentate nei furgoni cellulari e nelle caserme di polizia. Al rispetto, l’allora governatore ed attuale presidente del Messico, non ha mai riconosciuto le efferate violazioni ai diritti umani commesse dalla polizia; e, a testa alta, inizia un nuovo governo che certo non promette proprio niente di buono.
Ricordiamo che le elezioni dello scorso luglio erano state macchiate da evidentissimi brogli: corruzione, voti comperati, etc. Il nuovo presidente ha dunque preso il potere con fortissime accuse di illegittimità e tra lo scontento di grandi fasce della popolazione: la sinistra parlamentare (in particolare quella riunita attorno all’ex-candidato Andrès Manuel Lopez Obrador ed al suo Movimiento de Regeneracion Nacional), i moltissimi sostenitori del Movimento Yo Soy 132 (nato nelle università ma poi ampliatosi a molte altre realtà, prima delle elezioni ha svolto un’importante funzione nel denunciare il ruolo dei mass-media e nella manipolazione politica dell’opinione pubblica e nel rimettere sul piano del dibattito la questione della democrazia), ma anche i sindacati dei maestri, i collettivi studenteschi, e molte altre diverse realtà organizzative che erano per le strade di Città del Messico il 1 dicembre, giunti da diverse parti del paese. Non solo nella capitale, ma in moltissime città del Messico la gente ha risposto all’appello lanciato principalmente da Yo Soy 132 e Morena, scendendo in piazza perlopiù in modo pacifico.

Per ulteriori approfondimenti

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!