Meglio un dittatore amico che il caos. O peggio un democratico nemico. Questa premessa non scritta ma inossidabile orienta da sempre le politiche occidentali verso i regimi postcoloniali in Africa e in Medio Oriente.
Che siano capi di governo o di grandi aziende spesso più influenti dei governi, i leader americani ed europei accuratamente distinguono tra princìpi e prassi. Pur proclamando ideali eterni e universali, li ignorano, qui e ora, in nome della sicurezza nazionale.
Contro il terrorismo e la proliferazione delle armi di distruzione di massa, per la garanzia degli approvvigionamenti energetici, l'importante non è la qualità del regime cui ci si appoggia ma il risultato immediato.
Non pare che i nostri leader abbiano cambiato idea, ma almeno cominciano a dubitare delle verità ricevute. Perché sono i fatti che stanno cambiando. In modo tale, e tanto rapido, da mettere in discussione decenni di doppiezza.
È davvero utile aggrapparsi a regimi che rischiano di essere spazzati via dalla protesta? Abbiamo ancora la possibilità di influenzare gli eventi, o la lunga stasi intellettuale e strategica ci condanna all'impotenza?
Quasi nessuno si aspettava il subitaneo crollo del regime di Ben Ali. Fino a un minuto dopo la sua fuga, il governo francese sembrava paralizzato all'idea che lo scenario introiettato per decenni in un'area relativamente minore della sua sfera d'influenza nordafricana non vigesse più.
Ma la scintilla tunisina rischia ormai di incendiare l'intera regione. Nessuna autocrazia araba si sente al sicuro. A cominciare dalla più strategica, l'Egitto.
Uno Stato autoritario con una sottile vernice parademocratica. Ottanta milioni di abitanti di cui un terzo analfabeti e moltissimi giovani senza futuro, ostaggio del trentennale regime di Hosni Mubarak.
Garante ben remunerato degli Stati Uniti e di Israele contro la deriva islamista incarnata dai Fratelli musulmani. Mubarak poteva ragionevolmente divisare, fino a ieri, di trasmettere lo scettro al figlio Gamal, in omaggio alla successione dinastica (tawrith).
Come un faraone. Prospettiva oggi improbabile, se non già impossibile.
Le rivolte di piazza che scuotono l'Egitto forse non produrranno la rapida caduta del regime.
Perfino in Tunisia, dopo Ben Ali - imposto a suo tempo dai nostri servizi segreti nella logica della prevenzione del caos e/o dell'islamismo - l'avvenire resta incerto, con gli uomini del passato intenti a mutar pelle.
Ma ovunque nella regione gli automatismi dinastici sono sotto scacco. In Libia, dove sono apparentemente in lizza due figli di Gheddafi di diverso orientamento.
In Yemen, uno Stato fallito dove secondo Washington si sta riorganizzando al Qa'ida, il cui anziano leader, Ali Abdullah Saleh, ora nega di aver mai pensato di trasmettere il comando al figlio Ahmed, mentre monta la protesta di piazza.
Persino in Arabia Saudita, dove la monarchia è esplicita, l'onda d'urto potrebbe scuotere antiche certezze.
Il fascino delle analogie mediatiche - il Nordafrica e la Penisola arabica solcate da un'unica grande rivolta popolare e giovanile, nel segno di twitter e facebook - non deve farci perdere di vista le profonde differenze fra un paese e l'altro.
Né illuderci sulla scontata transizione verso regimi più o meno democratici, quasi fosse solo questione di tempo.
Gli apparati di sicurezza, specialmente in Egitto, possono prendere direttamente il potere, eliminando d'un colpo faraoni e delfini, e prevenendo il possibile successo degli islamisti in elezioni più o meno democratiche.
Oppure lo Stato stesso può collassare, producendo vuoti geopolitici attraenti per ogni genere di radicalismo.
Di sicuro però una fase è finita. Lo status quo è saltato.
Come la campagna d'Iraq fu la tomba delle utopie neoconservatrici di esportazione della democrazia sulla scia dei carri armati americani, così la rivolta popolare in Tunisia segnala la crisi degli equilibri postcoloniali in tutta la regione, dal Marocco al Golfo.
Alcuni regimi salteranno, altri cambieranno solo colore, altri ancora diverranno persino più rigidi.
Sullo sfondo l'incubo islamista che in questi giorni blocca Washington in una rivelatrice ambiguità, fra richieste di riforme e timore di veder insediare al Cairo il governo dei Fratelli musulmani.
Prima ci renderemo conto che indietro non si torna, meglio sarà per noi. Vale per gli Stati Uniti, vale per la Francia, vale per noi italiani.
La nostra periferia è in ebollizione. Non finirà presto. Comunque finisca, saremo i primi a subirne o ad apprezzarne le conseguenze.
Che siano capi di governo o di grandi aziende spesso più influenti dei governi, i leader americani ed europei accuratamente distinguono tra princìpi e prassi. Pur proclamando ideali eterni e universali, li ignorano, qui e ora, in nome della sicurezza nazionale.
Contro il terrorismo e la proliferazione delle armi di distruzione di massa, per la garanzia degli approvvigionamenti energetici, l'importante non è la qualità del regime cui ci si appoggia ma il risultato immediato.
Non pare che i nostri leader abbiano cambiato idea, ma almeno cominciano a dubitare delle verità ricevute. Perché sono i fatti che stanno cambiando. In modo tale, e tanto rapido, da mettere in discussione decenni di doppiezza.
È davvero utile aggrapparsi a regimi che rischiano di essere spazzati via dalla protesta? Abbiamo ancora la possibilità di influenzare gli eventi, o la lunga stasi intellettuale e strategica ci condanna all'impotenza?
Quasi nessuno si aspettava il subitaneo crollo del regime di Ben Ali. Fino a un minuto dopo la sua fuga, il governo francese sembrava paralizzato all'idea che lo scenario introiettato per decenni in un'area relativamente minore della sua sfera d'influenza nordafricana non vigesse più.
Ma la scintilla tunisina rischia ormai di incendiare l'intera regione. Nessuna autocrazia araba si sente al sicuro. A cominciare dalla più strategica, l'Egitto.
Uno Stato autoritario con una sottile vernice parademocratica. Ottanta milioni di abitanti di cui un terzo analfabeti e moltissimi giovani senza futuro, ostaggio del trentennale regime di Hosni Mubarak.
Garante ben remunerato degli Stati Uniti e di Israele contro la deriva islamista incarnata dai Fratelli musulmani. Mubarak poteva ragionevolmente divisare, fino a ieri, di trasmettere lo scettro al figlio Gamal, in omaggio alla successione dinastica (tawrith).
Come un faraone. Prospettiva oggi improbabile, se non già impossibile.
Le rivolte di piazza che scuotono l'Egitto forse non produrranno la rapida caduta del regime.
Perfino in Tunisia, dopo Ben Ali - imposto a suo tempo dai nostri servizi segreti nella logica della prevenzione del caos e/o dell'islamismo - l'avvenire resta incerto, con gli uomini del passato intenti a mutar pelle.
Ma ovunque nella regione gli automatismi dinastici sono sotto scacco. In Libia, dove sono apparentemente in lizza due figli di Gheddafi di diverso orientamento.
In Yemen, uno Stato fallito dove secondo Washington si sta riorganizzando al Qa'ida, il cui anziano leader, Ali Abdullah Saleh, ora nega di aver mai pensato di trasmettere il comando al figlio Ahmed, mentre monta la protesta di piazza.
Persino in Arabia Saudita, dove la monarchia è esplicita, l'onda d'urto potrebbe scuotere antiche certezze.
Il fascino delle analogie mediatiche - il Nordafrica e la Penisola arabica solcate da un'unica grande rivolta popolare e giovanile, nel segno di twitter e facebook - non deve farci perdere di vista le profonde differenze fra un paese e l'altro.
Né illuderci sulla scontata transizione verso regimi più o meno democratici, quasi fosse solo questione di tempo.
Gli apparati di sicurezza, specialmente in Egitto, possono prendere direttamente il potere, eliminando d'un colpo faraoni e delfini, e prevenendo il possibile successo degli islamisti in elezioni più o meno democratiche.
Oppure lo Stato stesso può collassare, producendo vuoti geopolitici attraenti per ogni genere di radicalismo.
Di sicuro però una fase è finita. Lo status quo è saltato.
Come la campagna d'Iraq fu la tomba delle utopie neoconservatrici di esportazione della democrazia sulla scia dei carri armati americani, così la rivolta popolare in Tunisia segnala la crisi degli equilibri postcoloniali in tutta la regione, dal Marocco al Golfo.
Alcuni regimi salteranno, altri cambieranno solo colore, altri ancora diverranno persino più rigidi.
Sullo sfondo l'incubo islamista che in questi giorni blocca Washington in una rivelatrice ambiguità, fra richieste di riforme e timore di veder insediare al Cairo il governo dei Fratelli musulmani.
Prima ci renderemo conto che indietro non si torna, meglio sarà per noi. Vale per gli Stati Uniti, vale per la Francia, vale per noi italiani.
La nostra periferia è in ebollizione. Non finirà presto. Comunque finisca, saremo i primi a subirne o ad apprezzarne le conseguenze.
Tratto da: Limes