In attesa dell'inizio formale della visita del presidente Hu Jintao a Washington, una riflessione sulle spinose relazioni fra Cina e Stati Uniti. Dai rapporti economici, alla sfida del G2. Dai discorsi sui diritti umani, alle tensioni militari.
La visita di Stato di Hu Jintao a Barack Obama cade dopo un biennio di relazioni non entusiasmanti tra Cina e Stati Uniti.
I rapporti tra i due paesi. C’è una sola certezza: il paragone con la guerra fredda è sopravvalutato. Il mondo odierno non è quello della seconda metà del Novecento, e le reti globali attuali, già in termini di relazioni tecnologiche e di scambi di capitale umano, rispondono solo in parte a vecchi schemi. Le lezioni e i paragoni della storia si scontrano con l’unicità del “miracolo cinese” e con il contesto generale dello spostamento di potere e influenza da Occidente a Oriente. Ma due anni sono un periodo in cui, nonostante il detto di Zhou Enlai, è necessario giudicare. Cina e Stati Uniti non sanno esattamente cosa fare perché non sanno esattamente chi sono. Non sanno “pesarsi” nel mondo con precisione. Consideriamo il caso cinese.
La Cina, a seconda delle scuole di pensiero che la abitano e a seconda dell’interpretazione dei dati, può essere considerata un paese in via di sviluppo, una potenza regionale e globale. Queste diverse identità sono tenute insieme da una soluzione di compromesso che, rapportandosi con gli Stati Uniti, raggiunge altri compromessi e sperimenta nuove contrattazioni. “L’era della responsabilità” (che si può rintracciare nei discorsi e dalle decisioni di Robert Zoellick e Justin Yifu Lin, il duo della Banca Mondiale spesso qui descritto come modello del G2) è ormai una realtà.
Nella narrazione entusiastica di Cctv 9 sulle conquiste della Cina nel 2010, i visitatori – in grandissima prevalenza cinesi – dell’Expo di Shanghai si avvicinavano al ruolo svolto dalla Cina nell’ingresso del Sudafrica nel gruppo Bric-Brics e nelle istituzioni internazionali. In realtà, il colosso asiatico conta su queste istituzioni per fare i propri interessi e quelli del Partito comunista. Alla Cina della governance globale in sé – una delle “grandi idee” su cui si è avviluppato l’Occidente, mentre il mondo pensava ad altro – non importa un granché. L’idea del G2, come ha notato Bill Emmott, sembra interessare tutti, fuorché le parti in causa. Soprattutto i cinesi. Si considerino le parole del viceministro degli Esteri Cui Tiankai al Lanting forum: «China has never agreed to the notion of G2, but China-US cooperation is indeed indispensible to the solution of many global issues. The world looks to China and the United States to join hands and make more contribution to world peace and common development». È arrivato il momento di superare una mentalità statica e pensare i nuovi “gruppi” in termini di potenze obbligate ad avere a che fare le une con le altre. Ciò che conta è la contrattazione tra competizione e cooperazione. In questo schema, non esiste soltanto il G2, ma anche il G3, che comprende Google, in un mondo che, come ha scritto Raffaele Mauro, deve imparare in fretta a pronunciare bene la parola "Zhongguancun". Nei rapporti con gli Stati Uniti, la Cina usufruisce di una corsia preferenziale per la cooperazione economica rispetto ai conflitti politici, tenendo ferme le sue pretese - politica economica e integrità territoriale. È una linea tracciata da Hillary Clinton nella sua visita di febbraio 2009, che ha suscitato alcune aspettative su cui la stessa impronta ideologica di Obama e la politica del Congresso, com’era prevedibile, non hanno poi dato certezze a Pechino. Allo stesso tempo, il Partito comunista affronta alcune sfide interne: le paure reali per il sistema economico (si pensi all’inflazione), il nazionalismo, la transizione interna, visto che Xi Jinping ha assunto il 28 ottobre 2010 l’incarico di vicepresidente della Commissione militare centrale.
Cosa vuole oggi Hu Jintao da Obama? Se da una parte rivendica la storia di successo della sua Cina nell’attrazione di investimenti esteri, dall’altra parte non vuole essere ricordato come eccessivamente “morbido” con gli Stati Uniti. Lo stesso schema caratterizza la leadership prossima ventura, sospesa tra una nuova responsabilità con caratteristiche cinesi, le difficoltà dell’elaborazione di un compiuto soft power da grande potenza e l’impossibilità di contraddire completamente il sacro taoguang yanghui, il basso profilo suggerito da Deng Xiaoping. Nei rapporti tra Stati Uniti e Cina, il fattore discriminante non è l’ascesa cinese (che è un fatto, anche senza l’aggettivo “pacifica”), bensì la tempistica.
Consideriamo a questo proposito tre aspetti. 1) Economia. È di indubbio impatto la stima di Arvind Subramanian per cui il pil della Cina avrebbe già superato quello degli Stati Uniti a parità di potere d’acquisto. Amartya Sen e compagnia possono discutere in eterno – e giustamente – degli strumenti alternativi di misurazione del pil, ma vedere la Cina come numero uno sarà comunque significativo, anzitutto per i cinesi, che non sono particolarmente interessati ad Amartya Sen. L’altro segnale è che il peso dell’economia cinese nel mondo cresce troppo in fretta. Il futuro, per un popolo che è abituato a ragionare per millenni, per secoli, o perlomeno a pianificare per cinque anni, accade troppo presto. 2) Europa. Sappiamo dai fatti, oltre che dai dispacci di WikiLeaks, che l’amministrazione Obama non è interessata all’Europa. Ormai i cinesi vengono in Europa più degli americani, e il loro ruolo geopolitico nella crisi dell’euro fin dalle avvisaglie greche (come aveva notato Lucio Caracciolo) non può essere sottovalutato. Sebbene la Cina sia abituata a raffrontarsi con Stati-nazione e non con attori indefiniti, anche il declino europeo accade troppo presto. Intanto, mentre si parla di una nuova governance globale e anche di una nuova governance europea, i cinesi viaggiano e comprano. 3) Difesa. La visita di Gates in Cina ha riportato gli osservatori strategici a sottolineare la distinzione tra la leadership economica e la leadership militare, negli affari politici cinesi e nelle dinamiche interne del Partito. È evidente che il governatore Zhou Xiaochuan non ha le stesse priorità dei generali. Il J-20 mostrato al segretario della Difesa americano, secondo Yang Yi, è parte della “modernizzazione pacifica”, che ironicamente fa il verso all’ascesa pacifica e ci riporta a un termine caro a Zhou Enlai. La relazione tra Pechino e Washington è ormai così ricca di aspetti che vale la pena di ricordare alcuni elementi dello scenario mediatico e popolare americano che possono risultare interessanti. All’inizio del 2011, gli americani hanno parlato moltissimo della Cina. Il merito è dello scontro pedagogico avviato da un articolo sul Wall Street Journal di Amy Chua (Yale Law School), poi ripreso da tutti i giornali del mondo. Chua ha esaltato, con un’autoironia che non è stata colta, il ruolo dei terribili “no” delle madri cinesi per forgiare la disciplina intellettuale della prole. Il titolo da guerra fredda “Perché le madri cinesi sono superiori” ha fatto il resto. L’iperpotenza del futuro, nella prospettiva di Chua, sarà la “potenza del talento”. Nella pedagogia dell’upperclass americana imparare il cinese è già considerato fondamentale, anche se la cultura popolare (si pensi per esempio a “Gossip Girl”) non ne ha ancora tenuto conto. Vale la pena di considerare tutti gli aspetti: l’ascesa della Cina entra una prospettiva non soltanto “urbana” o newyorchese, come dimostra anche l’attenzione di Glenn Beck. Un elemento interessante nelle discussioni sulla valuta è stato notato da Alberto Forchielli, l’unico italiano con un blog su Caixin: la distribuzione di renmimbi è già una realtà nella Chinatown di New York, ed è un piccolo passo simbolico verso la piena convertibilità.
Per concludere, facciamo due nomi e cognomi. 1) Julian Assange. Il “G2” – pur inesistente – è l’obiettivo del cosmopolitismo digitale: Stati Uniti e Cina concordano sul fatto che esistono Stati coi loro interessi e segreti diplomatici, che non vanno sostituiti da cittadini che trovano nella trasparenza assoluta il senso della loro cittadinanza. In particolar modo sul fronte cinese, se la trasparenza genera conflitto o mina l’armonia, ne consegue che la trasparenza deve essere armoniosamente annientata. È da verificare come questa convergenza di interessi possa trasporsi sul piano della concreta collaborazione tecnologica, la quale – come insegna il caso Google e come viene analizzato da Adam Segal – si avvia a essere una delle questioni fondamentali della competizione tra le due potenze. 2) Liu Xiaobo. La Cina ha affrontato la questione del Nobel – che tocca i suoi interessi fondamentali – con una certa goffaggine diplomatica e alcune insistenze eccessive. Da una parte c’è il clamore sulla sedia vuota e sui convegni delle opere di Liu Xiaobo, dall’altra ci sono i consigli per gli acquisti e gli investimenti. La notizia di questi giorni è che Orkla, conglomerato norvegese, ha venduto per 2 miliardi di dollari Elkem a China blue star, controllata all’80% dal governo cinese attraverso ChemChina e al 20% da Blackstone group.
La visita di Stato di Hu Jintao a Barack Obama cade dopo un biennio di relazioni non entusiasmanti tra Cina e Stati Uniti.
I rapporti tra i due paesi. C’è una sola certezza: il paragone con la guerra fredda è sopravvalutato. Il mondo odierno non è quello della seconda metà del Novecento, e le reti globali attuali, già in termini di relazioni tecnologiche e di scambi di capitale umano, rispondono solo in parte a vecchi schemi. Le lezioni e i paragoni della storia si scontrano con l’unicità del “miracolo cinese” e con il contesto generale dello spostamento di potere e influenza da Occidente a Oriente. Ma due anni sono un periodo in cui, nonostante il detto di Zhou Enlai, è necessario giudicare. Cina e Stati Uniti non sanno esattamente cosa fare perché non sanno esattamente chi sono. Non sanno “pesarsi” nel mondo con precisione. Consideriamo il caso cinese.
La Cina, a seconda delle scuole di pensiero che la abitano e a seconda dell’interpretazione dei dati, può essere considerata un paese in via di sviluppo, una potenza regionale e globale. Queste diverse identità sono tenute insieme da una soluzione di compromesso che, rapportandosi con gli Stati Uniti, raggiunge altri compromessi e sperimenta nuove contrattazioni. “L’era della responsabilità” (che si può rintracciare nei discorsi e dalle decisioni di Robert Zoellick e Justin Yifu Lin, il duo della Banca Mondiale spesso qui descritto come modello del G2) è ormai una realtà.
Nella narrazione entusiastica di Cctv 9 sulle conquiste della Cina nel 2010, i visitatori – in grandissima prevalenza cinesi – dell’Expo di Shanghai si avvicinavano al ruolo svolto dalla Cina nell’ingresso del Sudafrica nel gruppo Bric-Brics e nelle istituzioni internazionali. In realtà, il colosso asiatico conta su queste istituzioni per fare i propri interessi e quelli del Partito comunista. Alla Cina della governance globale in sé – una delle “grandi idee” su cui si è avviluppato l’Occidente, mentre il mondo pensava ad altro – non importa un granché. L’idea del G2, come ha notato Bill Emmott, sembra interessare tutti, fuorché le parti in causa. Soprattutto i cinesi. Si considerino le parole del viceministro degli Esteri Cui Tiankai al Lanting forum: «China has never agreed to the notion of G2, but China-US cooperation is indeed indispensible to the solution of many global issues. The world looks to China and the United States to join hands and make more contribution to world peace and common development». È arrivato il momento di superare una mentalità statica e pensare i nuovi “gruppi” in termini di potenze obbligate ad avere a che fare le une con le altre. Ciò che conta è la contrattazione tra competizione e cooperazione. In questo schema, non esiste soltanto il G2, ma anche il G3, che comprende Google, in un mondo che, come ha scritto Raffaele Mauro, deve imparare in fretta a pronunciare bene la parola "Zhongguancun". Nei rapporti con gli Stati Uniti, la Cina usufruisce di una corsia preferenziale per la cooperazione economica rispetto ai conflitti politici, tenendo ferme le sue pretese - politica economica e integrità territoriale. È una linea tracciata da Hillary Clinton nella sua visita di febbraio 2009, che ha suscitato alcune aspettative su cui la stessa impronta ideologica di Obama e la politica del Congresso, com’era prevedibile, non hanno poi dato certezze a Pechino. Allo stesso tempo, il Partito comunista affronta alcune sfide interne: le paure reali per il sistema economico (si pensi all’inflazione), il nazionalismo, la transizione interna, visto che Xi Jinping ha assunto il 28 ottobre 2010 l’incarico di vicepresidente della Commissione militare centrale.
Cosa vuole oggi Hu Jintao da Obama? Se da una parte rivendica la storia di successo della sua Cina nell’attrazione di investimenti esteri, dall’altra parte non vuole essere ricordato come eccessivamente “morbido” con gli Stati Uniti. Lo stesso schema caratterizza la leadership prossima ventura, sospesa tra una nuova responsabilità con caratteristiche cinesi, le difficoltà dell’elaborazione di un compiuto soft power da grande potenza e l’impossibilità di contraddire completamente il sacro taoguang yanghui, il basso profilo suggerito da Deng Xiaoping. Nei rapporti tra Stati Uniti e Cina, il fattore discriminante non è l’ascesa cinese (che è un fatto, anche senza l’aggettivo “pacifica”), bensì la tempistica.
Consideriamo a questo proposito tre aspetti. 1) Economia. È di indubbio impatto la stima di Arvind Subramanian per cui il pil della Cina avrebbe già superato quello degli Stati Uniti a parità di potere d’acquisto. Amartya Sen e compagnia possono discutere in eterno – e giustamente – degli strumenti alternativi di misurazione del pil, ma vedere la Cina come numero uno sarà comunque significativo, anzitutto per i cinesi, che non sono particolarmente interessati ad Amartya Sen. L’altro segnale è che il peso dell’economia cinese nel mondo cresce troppo in fretta. Il futuro, per un popolo che è abituato a ragionare per millenni, per secoli, o perlomeno a pianificare per cinque anni, accade troppo presto. 2) Europa. Sappiamo dai fatti, oltre che dai dispacci di WikiLeaks, che l’amministrazione Obama non è interessata all’Europa. Ormai i cinesi vengono in Europa più degli americani, e il loro ruolo geopolitico nella crisi dell’euro fin dalle avvisaglie greche (come aveva notato Lucio Caracciolo) non può essere sottovalutato. Sebbene la Cina sia abituata a raffrontarsi con Stati-nazione e non con attori indefiniti, anche il declino europeo accade troppo presto. Intanto, mentre si parla di una nuova governance globale e anche di una nuova governance europea, i cinesi viaggiano e comprano. 3) Difesa. La visita di Gates in Cina ha riportato gli osservatori strategici a sottolineare la distinzione tra la leadership economica e la leadership militare, negli affari politici cinesi e nelle dinamiche interne del Partito. È evidente che il governatore Zhou Xiaochuan non ha le stesse priorità dei generali. Il J-20 mostrato al segretario della Difesa americano, secondo Yang Yi, è parte della “modernizzazione pacifica”, che ironicamente fa il verso all’ascesa pacifica e ci riporta a un termine caro a Zhou Enlai. La relazione tra Pechino e Washington è ormai così ricca di aspetti che vale la pena di ricordare alcuni elementi dello scenario mediatico e popolare americano che possono risultare interessanti. All’inizio del 2011, gli americani hanno parlato moltissimo della Cina. Il merito è dello scontro pedagogico avviato da un articolo sul Wall Street Journal di Amy Chua (Yale Law School), poi ripreso da tutti i giornali del mondo. Chua ha esaltato, con un’autoironia che non è stata colta, il ruolo dei terribili “no” delle madri cinesi per forgiare la disciplina intellettuale della prole. Il titolo da guerra fredda “Perché le madri cinesi sono superiori” ha fatto il resto. L’iperpotenza del futuro, nella prospettiva di Chua, sarà la “potenza del talento”. Nella pedagogia dell’upperclass americana imparare il cinese è già considerato fondamentale, anche se la cultura popolare (si pensi per esempio a “Gossip Girl”) non ne ha ancora tenuto conto. Vale la pena di considerare tutti gli aspetti: l’ascesa della Cina entra una prospettiva non soltanto “urbana” o newyorchese, come dimostra anche l’attenzione di Glenn Beck. Un elemento interessante nelle discussioni sulla valuta è stato notato da Alberto Forchielli, l’unico italiano con un blog su Caixin: la distribuzione di renmimbi è già una realtà nella Chinatown di New York, ed è un piccolo passo simbolico verso la piena convertibilità.
Per concludere, facciamo due nomi e cognomi. 1) Julian Assange. Il “G2” – pur inesistente – è l’obiettivo del cosmopolitismo digitale: Stati Uniti e Cina concordano sul fatto che esistono Stati coi loro interessi e segreti diplomatici, che non vanno sostituiti da cittadini che trovano nella trasparenza assoluta il senso della loro cittadinanza. In particolar modo sul fronte cinese, se la trasparenza genera conflitto o mina l’armonia, ne consegue che la trasparenza deve essere armoniosamente annientata. È da verificare come questa convergenza di interessi possa trasporsi sul piano della concreta collaborazione tecnologica, la quale – come insegna il caso Google e come viene analizzato da Adam Segal – si avvia a essere una delle questioni fondamentali della competizione tra le due potenze. 2) Liu Xiaobo. La Cina ha affrontato la questione del Nobel – che tocca i suoi interessi fondamentali – con una certa goffaggine diplomatica e alcune insistenze eccessive. Da una parte c’è il clamore sulla sedia vuota e sui convegni delle opere di Liu Xiaobo, dall’altra ci sono i consigli per gli acquisti e gli investimenti. La notizia di questi giorni è che Orkla, conglomerato norvegese, ha venduto per 2 miliardi di dollari Elkem a China blue star, controllata all’80% dal governo cinese attraverso ChemChina e al 20% da Blackstone group.
Tratto da: Limes