Tra populismo e autoritarismo, la via di fuga dell'Ungheria dalla crisi
A cura di Valerio Renzi
Sono diverse settimane che l'Ungheria guidata da Viktor Orban è sotto i riflettori per la decisa virata autoritaria che il governo di destra ha impresso al paese, concretizzatasi in una riforma costituzionale che limita i poteri della magistratura, la libertà di stampa e da un ruolo quantomeno anomalo in un regime democratico al potere esecutivo. Orban sta portando inoltre l'Ungheria di fatto fuori dalla strada che porta all'euro e all'integrazione economica e politica con l'Unione. Di cosa succede in Ungheria e nell'est dell'Europa ne parliamo con Matteo Zola giornalista e direttore di "East Journal" un sito che svolge un lavoro pregevole e importante nel raccontare cosa succede ad oriente del nostro continente.
Qua una raccolta di articoli dedicati da East Journal alla situazione ungherese:
http://eastjournal.net/2012/01/03/ungheria-tra-nuova-costituzione-ed-estrema-destra-una-retrospettiva/
E' da dopo la caduta del muro che in est Europa soffia il vento di un populismo di destra e autoritario, forse complice la crisi. Quanto sta avvenendo in Ungheria è l'apice di questo processo e il caso più preoccupante...
Quello ungherese è il caso più evidente, presentato dai media “occidentali” (se questa parola ha ancora un senso in Europa) con un certo semplicismo, ma non è certo l'unico né forse il più grave. E' da quando ho fondato East Journal che seguo gli sviluppi dell'estremismo di destra, prima in Europa orientale, poi ampliando lo sguardo all'interezza del vecchio continente. La domanda, per me, è sempre stata una: perchè? Perché l'estremismo di destra si diffonde, vince elezioni, governa? Qual'è la sua forza? In un primo momento, guardando solo all'oriente europeo, mi sono dato la risposta più ovvia: quei Paesi non hanno conosciuto i fascismi di matrice nazionalista, quindi la deriva nazionalista è più facile, tanto più se hanno visto le loro istanze indipendentiste annichilite dall’omologazione sovietica. La riscoperta della propria identità nazionale diventa necessaria anche al fine di ri-costruire una società che si riconoscesse nel nuovo ordine costituito. In un simile contesto non stupisce il radicalismo specie se utile a questo o quel politico per ottenere consensi. Consensi facili, infine, se le opposizioni sono rappresentate dagli eredi del vecchio regime come nel caso del partito socialista ungherese.
L'Ungheria però è stata governata fino al 2010 proprio dal partito socialista, erede del regime, con la sola parentesi del 1998- 2002 in cui vinse la Fidesz di Viktor Orban che fu nominato primo ministro.
Ecco allora che affermare che il populismo di destra e le tendenze autoritarie siano figlie del 1989 diventa fuorviante. Il fenomeno, in Europa orientale, è assai più recente e metterlo in relazione con la caduta del Muro di Berlino è una soluzione suggestiva quanto facile.
Allargando lo sguardo si vede che la nascita di questo tipo di populismo, che non esiterei a definire d'ispirazione clero-fascista, non è la ruvida Europa orientale ma sono Austria, Svizzera, e poi Baviera, nord Italia, Francia pre-alpina. E' qui che all'inizio degli anni Novanta si sviluppa il modello, pur con caratteristiche diverse e differenti gradazioni, che ritroviamo anche nell'Europa orientale. Lega Nord, l'Udc elvetico di Christoph Blocher, l'Fpö di Jorg Haider, la Csu bavarese di Edmund Stoiber (che ben si presta ad “alleanze” politiche con partiti estremisti ma che orbitano nell'Internazionale cattolica, come la Lega delle Famiglie polacche o l'Hdz croato, di cui diremo dopo) e il Front National in Francia. Questi partiti, all'inizio degli anni Novanta, presentano tutti gli elementi del nuovo populismo europeo pur non presentandoli sempre tutti insieme: intolleranza, (etno)nazionalismo, antieuropeismo, antisemitismo, autoritarismo, populismo, paternalismo, fondamentalismo religioso e/o identitario.
Questi partiti, abbiamo detto, sorgono all'inizio degli anni Novanta in un Europa occidentale finalmente libera dal bipolarismo della guerra fredda ma – credo – a determinarne la nascita non è direttamente la caduta del Muro. Nel 1991 succede qualcos'altro a scardinare gli equilibri europei: i Balcani prendono fuoco. L'Europa, invece di unirsi, si balcanizza prima a supporto delle parti in causa nel conflitto (la Germania con la Croazia, gli anglo-francesi con la Serbia), poi alla ricerca dell'egemonia continentale. Quello che vediamo oggi è, amio avviso, il risultato di questa balcanizzazione: l'Europa è divisa, ogni Paese guarda a sé stesso, concentrandosi sui propri interessi nazionali e “nazionalistici”.
Non solo destre di governo ma anche un esplosione di formazioni di estrema destra, come il caso di Jobbik in Ungheria, le cui posizioni spesso si confondono con le forze di governo, che esprimono posizioni sempre più estreme, e le cui gesta sono tollerate se non protette dalle istituzioni. Cosa sta succedendo a destra nell'Europa orientale?
La destra in Europa orientale è, a mio avviso, un'evoluzione della destra europea. In Polonia vediamo due destre a fronteggiarsi: una populista e una progressista. L'Europa ha bisogno di una destra matura, progressista e liberale. Il partito al governo in Polonia, la Piattaforma Civica del premier Donald Tusk, è tutto questo. Tusk ha vinto le elezioni contro Lech Kaczynski, campione di una destra ultra-cattolica, antieuropeista, smaccatamente nazionalista. Kaczynski, premier uscente, ha governato per cinque anni con il supporto della Lega delle Famiglie polacche, un partito antisemita e fondamentalista dal punto di vista religioso. In Polonia la sinistra socialdemocratica o socialista prende pochissimi voti.
Il partito di Orban, in Ungheria, non era dissimile da quello polacco di Tusk ma non ha avuto la stessa maturità ed è caduto in una spirale autoritarista che per nulla si concilia col liberalismo iniziale. Lo Jobbik, che pure non è al governo, influenza la vita politica ungherese esacerbando i toni dello scontro. L'Ungheria oggi vive una grande frustrazione: l'economia va a rotoli, si sente circondata (da Paesi nemici, come Slovacchia e Romania, ma anche dal Fmi e dalla Bce) e rimpiange i fasti di una grandezza antica. Molti ungheresi vivono fuori dall'Ungheria e lo Jobbik fa dell'irrentismo, della “Grande Ungheria” una sua bandiera. Ma quello ungherese è un sentimento profondo che va capito prima che condannato. Basta entrare nel Parlamento ungherese, lì, nella sala principale, sotto le statue dei re medievali, in una teca giace la corona di Santo Stefano, re e santo, padre della nazione. Un simbolo monarchico e religioso all'interno della sede della principale istituzione repubblicana.
L'elemento del radicalismo religioso si riscontra in Croazia, dove il partito Hdz (al governo per sedici anni su venti) è stato fondato da Franjo Tudjman, uno dei macellai delle guerre jugoslave, amalgamando il nazionalismo neoustascia con la riscoperta di una religiosità popolare ed esclusiva. Il culto di Medjugorie è il più evidente dei “trucchi” dell'establishment croato per ottenere consensi.
In Serbia e in Russia il clero ortodosso benedice teste rasate a caccia di musulmani o caucasici od omossessuali. In Serbia il partito di governo, democratico, continua a soffiare sul fuoco del nazionalismo alimentando lo scontro con il Kosovo.
In generale, nell'oriente europeo, si assiste a una transizione infinita dal regime comunista e la democrazia compiuta: in questa fase di transizione vediamo governare autocrati, mafiosi (come nel caso bulgaro), criminali di guerra (come in Kosovo), ex esponenti dei servizi segreti o loro figliocci (come in Romania e Albania). Se dopo vent'anni siamo ancora in una simile situazione si deve anche all'inadeguatezza dell'azione dell'Unione Europea incapace di promuovere uno sviluppo democratico il più ampio possibile. Un'Unione Europea, si è detto, “balcanizzata” e preda di analoghi mali. E da quando Breivnik ha fatto strage ad Utoya è impossibile chiudere gli occhi di fronte al fondamentalismo cristiano che è uno dei tratti distintivi dell'estremismo di destra a oriente come a occidente.
Cosa prevede la nuova Costituzione voluta da Viktor Orban?
Anche la nuova Costituzione ungherese ha espliciti riferimenti alla religione. Il preambolo spiega infatti come l’Ungheria – che tra l’altro perde la dicitura “Repubblica” in favore di un più “etnico” terra degli ungheresi (e quindi non dei Rom, o degli ebrei) - sia fondata sulla cristianità e ribadisce il ruolo della Santa Corona di Santo Stefano, il re della conversione al cristianesimo, come simbolo della nazione.
Si afferma inoltre che “l’Ungheria è responsabile del destino degli ungheresi che vivono oltre i suoi confini”. Una disposizione che si ricollega allo smembramento della “Grande Ungheria”, avvenuto con il Trattato di Trianon (1920) al termine della Prima guerra mondiale quando il paese perse il 72% del proprio territorio e il 64% della sua popolazione che oggi vive in Slovacchia, Transilvania, Vojvodina. Per questo Serbia, Romania e Slovacchia vivono la nuova Costituzione come un'ingerenza nei loro affari interni. C'è poi il problema della Corte suprema di cui la nuova Carta riduce l’autonomia, privandola della competenza sulle leggi che riguardano bilancio e tasse. In questo modo l'esecutivo si trova in posizione preponderante rispetto al sistema giudiziario compromettendo di fatto quell'equilibrio tra poteri che rende tale una democrazia. Se si pensa che il Parlamento – il terzo potere – è espressione del partito di Orban per 206 seggi su 256, ecco che ci troviamo di fronte a una situazione critica.
Sarà in grado, al di là della retorica nazionalista, il governo ungherese di gestire la crisi economica traghettando il paese sempre di più fuori dall'orbita dell'Unione Europea?
No, non lo sarà. L'Ungheria va dritta contro un muro. Ed è per questo che Orban è sempre più contestato: la sua politica economica fa acqua ed è necessario l'intervento del Fmi. Proprio quel Fmi che già nel 2008 diede un prestito ingente al Paese in cambio di draconiane misure di austerity. Quando Orban salì al potere mandò al diavolo l'Fmi e mise mano all'economia concentrandosi su pensioni e mercato del lavoro, tassando le compagnie estere presenti nel Paese, ma senza successo. Così, ora, è costretto a riallacciare i rapporti con l'Fmi giocandosi quel poco di credibilità politica che gli è rimasta.
Il Paese però non è fuori dall'orbita europea. E' l'Europa a essere “fuori di sé”. Un luogo dove “il cieco guida il cieco”, per dirla con le parole di Pepe Escobar, giornalista di Asia News. L'Ungheria è solo un vagone del treno europeo che sta andando a tutta velocità verso un'incerto futuro.