di Davide Ettorre
Cinquanta milioni di indiani sono scesi in strada per dimostrare la loro contrarietà alla proposta di riforma del governo che, di fatto, aprirebbe il settore della grande distribuzione organizzata alle multinazionali straniere.
Si tratta di una questione particolarmente complessa, da tempo oggetto di aspre polemiche nella nazione asiatica.
La riforma del commercio era già stata avanzata lo scorso anno, nel dicembre 2011, ma era poi stata bloccata dai partiti di opposizione e dalle proteste popolari.
La proposta prevede che le grandi multinazionali possano acquisire fino al 49% dei principali centri di distribuzione e che possano, quindi, vendere direttamente ai consumatori indiani, cambiando radicalmente il sistema attuale dove tali centri erano in mano ai piccoli commercianti al dettaglio.
Il primo ministro Manmohan Singh ha riproposto il testo con qualche lieve modifica, sostenendo che tali riforme sono necessarie per rilanciare un’economia in forte rallentamento.
Secondo gli organizzatori dello sciopero, però, facilitare l’entrata nel Paese delle multinazionali porterà presto alla distruzione del tessuto economico e sociale composto dai piccoli commercianti che rischieranno di sparire.
Ad essere contestato, oltretutto, è l’intero pacchetto di riforme economiche proposto dal governo, che prevede, tra l’altro, l’innalzamento del 14% del prezzo del diesel per risanare il deficit di bilancio, oltre all'apertura degli investimenti privati esteri anche in altri campi strategici, come quello dell’energia, delle materie prime e dell’aviazione civile, con la possibilità per le compagnie aeree internazionali di acquistare fino al 49% di quelle nazionali.
Il governo, nonostante le aspre proteste interne, sostiene con forza queste misure, motivate dalla volontà di rilanciare la stagnante economia indiana caratterizzata, negli ultimi tempi, da un deciso rallentamento nella crescita, che ha causato un aumento dell’inflazione e del deficit statale, con le agenzie di rating già pronte a decretarne il declassamento.
Tuttavia, se da una parte il primo ministro Singh spera, con l’apertura verso i capitali stranieri nel settore della distribuzione di dare un nuovo impulso all'economia e allo sviluppo grazie ad un ammodernamento delle infrastrutture, dall'altra parte è innegabile che la “parziale” arretratezza indiana in questo campo ha decretato la “fortuna” dei piccoli commercianti e dei negozi di quartiere, spesso a conduzione familiare. Non a caso le statistiche indicano che, nonostante la presenza di grandi magazzini indiani come Future Group o Reliance, le vendite al dettaglio da parte dei supermercati e delle catene di negozi rappresentano in India solo l’8% del totale, contro il 20% in Cina e ben l’85% negli Stati Uniti.
Il mercato indiano rappresenta senza dubbio una ghiotta occasione per le grandi multinazionali straniere, in quanto, a fronte di 450 milioni di poveri, esiste anche una classe media di 300 milioni di persone in forte crescita per quanto concerne il potere d’acquisto.
Sulla questione è addirittura intervenuto lo stesso presidente Usa Barack Obama che, in un’intervista rilasciata ad alcuni importanti giornali indiani, ha criticato senza giri di parole il “clima contrario agli investimenti diretti esteri in India”, sostenendo che tali operazioni potrebbero creare numerosi posti di lavoro, sia nel paese asiatico che negli Usa.
Insomma, siamo di fronte al classico il tentativo di veicolare nell'opinione pubblica l’immagine che la riforma sia figlia del progresso che avanza, un dono della modernità che porta milioni di posti di lavoro e che rende tutti più felici e più ricchi.
Un ritornello già sentito in molte altre parti del mondo, finito quasi sempre per essere sconfessato.
Sarà per questo, forse, che gli unici a non essere convinti sulla bontà di tale riforma siano proprio i cittadini indiani.