Venezuela: Hugo Chàvez ha vinto per la quarta volta le elezioni presidenziali
Ieri Hugo Chàvez ha fatto poker di Re, e, senza barare, ha vinto le elezioni presidenziali. Una giocata vincente per un piatto forte, con grandi implicazioni, per tutti i giocatori del tavolo verde Latinoamericano. Una coraggiosa giocata al buio questa di Chavez, indebolito da una lunga gestione del potere non sempre limpida, da un sbilanciamento filosocialista, da un persistente cancro contro un Henrique Capriles, che godeva del sostegno di tutti media privati, dell’appoggio internazionale [USA e UE], di tutta l’imprenditoria interna e delle multinazionali, in prima fila quelle del petrolio e che ha fatto l’occhiolino al popolo venezuelano oltre che alla sua borghesia.
Ha vinto le elezioni democraticamente con una percentuale del 54% circa contro il 56% che ebbe nel dicembre del 1998 quando si presentò la prima volta, con la differenza che oggi – ci dicono - ha partecipato alla tornata elettorale circa 82% degli aventi diritto, mentre allora fu il 76%: percentuali prossime a quelle italiane ma di gran lunga superiori alla media europea, per non parlare degli USA.
Certo, la paura di perdere deve essere stata tanta. Dal palazzo di Miraflores, Chávez ha mostrato ai suoi sostenitori la spada del padre della patria, Simon Bolivar e ha detto che s'impegna a costruire "un Venezuela potente ogni giorno più democratico, più libero e più giusto". Poi ha ringraziato gli oppositori di Capriles, i quali hanno riconosciuto la vittoria del popolo.
La forza di Chávez continua ad essere riposta nei programmi sociali finanziati grazie al controllo statale sulla produzione greggio. Ha aumentato il salario minimo, alzato le pensioni, allungato le ferie, ha realizzato, specie da ultimo, un piano urbanistico in grado di rispondere ai problemi delle poblaciones se non risolverli. E i poveri, i lavoratori dell’industria, del campo, dei servizi hanno corrisposto: un voto di scambio? Certo, ma di classe, non di mafia.
La debolezza di Chàvez sta sicuramente nel non far emergere un successore legittimo e carismatico in grado, ora, di supportarlo e, poi, di sostituirlo alla guida del paese, a meno che non pensi, in salsa cubana, che possa essere suo fratello ora governatore dello Stato di Barinas: quello del passaggio delle consegne è il buco nero di tutti gli ismi, dell’ultimo secolo, in Europa, da Franco a Berlusconi, da Ceausescu a Gorbaciov. Un grumo di potere personale impossibilitato dal divenire collettivo, e qui non si parla di gestione democratica dei poteri ma di semplice continuità della specie nella gestione del potere. Hic rodus hic salta, si diceva.
L’irrisolta questione del passaggio dei poteri è la spada di Damocle per Hugo Chàvez come per Fidel Castro, ma lo sarà presto per Evo Morales, e gli altri capi di stato Latinoamericani.
Certo è che si è guadagnato tempo e spazio per verificare e consolidare una felice seppur contraddittoria congiuntura politica nel continente Sud e Centro Americano, favorita anche dal riparo dalla tempesta finanziaria che sconvolge gli equilibri sociali, sicuramente in Europa, ma anche altri continenti. Una condizione, quest’ultima, che lascia uno spazio di intervento a quelle forme di welfare pubblico che altrove nel mondo vanno assottigliandosi e privatizzandosi, e che non possono essere delegate in eterno alle brigate di solidarietà cubane, così come è stato fatto in molti paesi latinoamericani.
La prossima volta, ne in Venezuela ne altrove, basterà il frigorifero e/o il la cucina a gas cinesi a fare la differenza nelle urne.