“Compagni,
a tutti quelli che ci hanno sostenuto, sono Alexander Mora Venancio.
Con questa voce vi parlo, sono uno dei 43 caduti del giorno 26 settembre
per mano del narco-governo. Oggi, 6 dicembre, i periti argentini hanno
confermato a mio padre che uno dei frammenti delle mie ossa mi
appartiene. Mi sento orgoglioso che abbiate alzato la mia voce, la
rabbia e il mio spirito libertario. Non lasciate mio padre solo col suo
dolore, per lui significo praticamente tutto, la speranza, l’orgoglio, il
suo sforzo, il suo lavoro, la sua dignità. Ti invito a raddoppiare gli
sforzi della tua lotta. Che la mia morte non sia avvenuta invano. Prendi
la miglior decisione ma non mi dimenticare. Rettifica se possibile, ma
non perdonare. Questo è il mio messaggio. Fratelli, fino alla vittoria”.
I
genitori dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa, nello stato
messicano del Guerrero, hanno diffuso il questo messaggio su
Facebook. Sono le quattro del pomeriggio. Mentre Città del Messico si
prepara a un pomeriggio di cortei contro il crimine di stato del 26-27
settembre a Iguala, nello stato del Guerrero, e per il ritrovamento in
vita dei 43 studenti desaparecidos della scuola normale di
Ayotzinapa “Raúl Isidro Burgos”, arriva una notizia inattesa. La piazza
grida, chiede la rinuncia del presidente Enrique Peña Nieto e del
procuratore della repubblica Jesús Murillo Karam. Alcuni normalisti del
comitato studentesco di Ayotzinapa hanno appeno fatto un annuncio
importante, le emozioni e le reazioni sono contrastanti.
Tra
i resti umani trovati dagli inquirenti nella discarica dei rifiuti di
Cocula all'inizio di novembre ci sono quelli del diciannovenne Alexander
Mora Venancio, uno degli studenti che, secondo le testimonianze di tre
narcotrafficanti in stato di arresto, sarebbero stati bruciati per 15
ore nella stessa discarica. Lo hanno confermato i periti argentini
dell’Equipe Argentina di Antropologia Forense i quali, su richiesta dei
familiari delle vittime, stanno lavorando con la procura alle prove del
DNA. I genitori di Alexander, vittima di un attacco da parte di narcos e
poliziotti di Iguala e Cocula insieme ad altri compagni, sono partiti
immediatamente per la loro terra d’origine, il paesino di Teconoapa,
sulla costa del Pacifico, per le esequie. Sono otto gli studenti
scomparsi a Iguala che provengono da questa località e i genitori di
tutti loro appartengono all'organizzazione indigena, contadina e
popolare Unione dei Popoli e Organizzazioni dello Stato del Guerrero (UPOEG).
L’avvocato
della UPOEG, Manuel Vázquez, ha confermato che in questi primi due mesi
di ricerche, insieme ai genitori di Ayotzinapa, hanno contribuito al
ritrovamento di 200 fosse clandestine nella zona di Iguala e in altri
comuni vicini. Alcuni reportage recenti, in particolare uno della televisione France 24,
hanno rivelato la probabile scomparsa, per mano della polizia di Cocula
secondo alcuni testimoni, di altri 31 studenti nella regione tra il
marzo e il luglio del 2013. Le denunce relative a 17 di questi
desaparecidos sono state confermate dal governo del Guerrero nella sua
pagina web. Il 3 dicembre i familiari
di altre 375 vittime della polizia collusa coi narcos hanno preso
coraggio, dopo anni di silenzio, e hanno manifestato nella piazza
centrale di Iguala per denunciare la desaparición di tanti loro
cari negli ultimi anni. Grazie a un frammento d’osso e un molare è
stato possibile ricostruire il DNA di Alexander, ma restano da
verificare sia i resti in mano ai forensi argentini e alla procura sia
quelli che sono stati rinvenuti nel fiume San Juan di Cocula e inviati
in Austria per un complesso esame mitocondriale. E soprattutto restano
da verificare le migliaia e migliaia di fosse comuni e di resti umani
che emergono dalle terre di mezzo paese. “Ne mancano 42 e li rivolgiamo
in vita”, ha detto nel comizio finale della giornata di Azione globale
per Ayotzinapa del 6 dicembre, #6DMX + #YaMeCanse2.
La rivista di Tijuana, Zeta, da anni specializzata nel confronto di
dati ufficiali sulla violenza, ha confermato la cifra allucinante di
41mila morti nei primi 23 mesi del governo del “nuovo PRI”.
Continua la protesta globale
Sono
state settimane convulse in Messico. La capitale, lo stato del
Guerrero, le città solidali del mondo intero sono in ebollizione per
l’indignazione e lo sconforto, per il disanimo, la voglia di reagire,
gridare e protestare, accompagnate dalla tristezza e dalla paura che
tutto torni come prima. Il letargo mediatico, l’apatia sociale, il
conteggio dei morti in un box rosso sui principali quotidiani. Una
madre, un padre, una famiglia che cercano i loro figli e cari desaparecidos, moltiplicati per 27mila. Un compa che
racconta in radio l’ultima estorsione subita dagli sbirri, un tentativo
di sequestro, una minaccia di sparizione forzata. Gli universitari che
han scoperto d’essere spiati perché in facoltà hanno nascosto delle
telecamere. Altri che vengono attaccati da infiltrati e poliziotti nelle
assemblee. Le violenze subite nell'anima e nel corpo delle donne, da
Ecatepec a Ciudad Juárez, dalle strade alle maquiladoras. E
ancora l’azzeramento delle vittime nei meandri della burocrazia e nei
corridoi dell’oblio. La paura travestita da normalità. Crimini di stato
trasformati in guerra alle droghe e viceversa, in un turbinio. Meglio
risvegliarsi, rifondare, che ignorare e normalizzare una strage, quella degli studenti di Ayotzinapa del 26 settembre, che è solo la punta di un iceberg in un mare d’impunità e corruzione.
Mi appresto a scrivere questo aggiornamento mentre vomito notizie e rimastico cronache. Guardo il video del flash mob,
l’ennesimo, che 43 ragazzi hanno realizzato alla Fiera Internazionale
del Libro di Guadalajara. Alla fine urlano tutti insieme dall’uno al
quarantatré. Per un minuto la Fiera si ferma, la terra non gira,
silenzio, giustizia! Finisce il coro, cominciano gli applausi. Un
brivido, l’ira, le lacrime, la speranza in un cambiamento. Penso alla
grande manifestazione qui a Città del Messico, lunedì primo dicembre,
#1DMX. Abbiamo calcolato 50mila persone. Una marcia instancabile ed
energetica, nonostante sia finita anche questa volta a manganellate e
lacrimogeni, con sette arresti casuali, terribilmente random e
violenti, e una serie di incapsulamenti della polizia che solo un
cordone di funzionari della Commissione Nazionale per i Diritti Umani,
di bianco vestiti, ha potuto bloccare, almeno per un po’. Ora i
prigionieri sono tutti liberi, le pressioni internazionali e di tutto il
Messico stanno obbligando le autorità a risolvere i problemi da loro
stesse provocati in modo più spedito, salvo poi dimenticarsi della
legalità e del famigerato stato di diritto non appena i riflettori si
spengono. Il rischio è questo, il governo è paziente, ha potere e mezzi
per resistere e sfiancare, può aspettare qualche settimana e
contrattaccare, sequestrare, riconquistare, offendere. E lo sta già
facendo.
Si riconferma la modalità
dell’accerchiamento delle forze dell’ordine e dei rastrellamenti a
tappeto contro tutto e tutti, ma non contro chi li attacca o ne
“giustifica” inizialmente l’intervento. E’ un copione ormai noto: un
manipolo di ragazzi incappucciati, ma anche a volto scoperto a volte,
causa danni a qualche edificio pubblico o privato. I celerini
intervengono, picchiando a destra e a manca senza ritegno, impedendo ai
manifestanti disarmati e pacifici di proseguire, di esprimersi, di
respirare, per poi catturare un po’ di gente a casaccio. I detenuti del
20 novembre sono stati rilasciati tutti, non c’erano prove né elementi
concreti per accusarli di alcunché. I familiari dei prigionieri e dei
desaparecidos di Ayotzinapa, accompagnati dalla società civile e dai
movimenti, chiedono adesso le dimissioni del procuratore Jesús Murillo
Karam, oltre a quelle del presidente della repubblica.
La
testimonianza di una signora sotto shock, con la testa spaccata e
sanguinante, consolata dalla figlioletta e curata alla buona da
un’infermiera (?), diventa virale sui social e suscita la rabbia di chi
ha un computer e una connessione, cosa che non è affatto scontata né
così generalizzata come molti credono. Le classi medie cittadine hanno
internet, ma il Messico guarda la televisione. In TV la storia è
sempre un’altra. La padrona delle menti, Nostra Catodica Signora dei
rimbecillimenti, passa scene di violenza, immagini di vandalismi e
distruzioni, dimenticandosi delle 3 ore di corteo pacifico e del motivo
per cui tanta gente scende in piazza sfidando la propaganda governativa e
la criminalizzazione delle autorità contro il dissenso sociale.
I
43 studenti desaparecidos non importano più, meglio mostrare due
bancomat sfasciati e qualche vetrina imbrattata per giustificare
l’azione “gagliarda”, parola usata dal responsabile della sicurezza
nella capitale, della polizia. Sì, ma contro chi? Eccoli lì che si
scagliano ferocemente contro una signora che cerca lavoro e nemmeno sa
che c’è un corteo quel giorno. Eccoli lì che lasciano stare i presunti
responsabili degli attacchi nei loro confronti o nei confronti delle
“preziosissime” proprietà private e dei palazzi della Avenida Reforma e
che aggrediscono famiglie e cittadini, strappano striscioni e rinnegano
la loro umanità. Se ti muovi, può toccare anche a te. Se corri, ti
prendiamo. Se sei schifato e arrabbiato perché i narcos sono la polizia,
lo stato è la mafia o viceversa, e ha sequestrato e ammazzato migliaia
di persone in pochi anni, 43 studenti in una notte a Iguala, e poi trova
scuse ciniche e idiote per non cambiare nulla, praticando il
gattopardismo più becero, meglio che te ne stai zitto e ti dedichi a
spendere gli ultimi risparmi, erosi dalla crisi e da un modello
consumista sfrenato, per i regali di Natale. Questi i messaggi delle
autorità alla gente.
Il cittadino cileno Laurence Maxwell, studente del dottorato in lettere della Universidad Nacional Autonoma de México
detenuto la sera del #20NMX, per cui s’era mosso anche il ministro
degli esteri del Cile, denuncerà lo stato messicano per le torture
subite e così faranno anche gli altri 10 cittadini detenuti
ingiustamente. Ma è l’intero sistema politico ad essere messo alle
strette e criticato a fondo, delegittimato come mai prima. La popolarità
di Peña è ai minimi storici. E’ scesa al 39%, la più bassa per un
presidente dal 1995 ad oggi secondo il quotidiano Reforma. Il 5
dicembre il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon ha sollecitato
un’indagine a fondo del caso Ayotzinapa e di tutte le sparizioni forzate
in Messico in una conferenza stampa, ribadendo anche l’importanza del
diritto alla libertà d’espressione e la necessità di canalizzare le
legittime richieste della gente in modo pacifico, nel rispetto dei
diritti umani. Avrà cominciato a percepire l’aria che si respira in
Messico e la vena repressiva del governo? Non molto. Dopo le critiche,
infatti, Ban Ki-moon ha dato il suo beneplacito alle misure autoritarie
promosse dall'esecutivo negli ultimi giorni.
Burle presidenziali e cinismi
Nel
maggio 2012, quando mancavano meno di due mesi alle elezioni, l’allora
presidente Felipe Calderón annunciò la sua appartenenza al grande
movimento studentesco e sociale #YoSoy132, che era nato da una contestazione al candidato Peña Nieto alla Universidad Iberoamericana
e aveva poi segnato la fine della campagna elettorale, il ritorno del
PRI al governo e l’inizio del mandato presidenziale, con le
manifestazioni del primo dicembre 2012, sempre #1DMX, represse nel
sangue. Fu una mossa elettorale disperata per provare a creare empatia
col movimento e con una parte di esso. Non funzionò, il risultato della
candidata del partito di Calderón (PAN), Josefina Vázquez Mota, fu
deludente e il presidente fu ricordato per i 100mila morti e la
narco-guerra, non di certo per la sua identificazione con gli studenti.
Dopo
il megacorteo del 20 novembre scorso, Peña, emulando il suo
predecessore in un disperato e calcolato tentativo di riconciliazione,
ha cercato di ribadire la sua identificazione con le vittime di Iguala e
del Guerrero dicendo che “Tutti siamo Ayotzinapa”. Come conseguenza è
stato mandato letteralmente “affanculo”, cioè a “chingar a su madre”,
da uno studente della normale “Isidro Burgos”, oratore durante il
comizio finale della manifestazione del primo dicembre. Tra le altre
cose, gli ha anche ricordato che lui “non è Ayotzinapa, ma è
Atlacomulco”, in riferimento alla città natale del presidente intorno
alla quale girano tutto il gruppo di potere e le lobby delle correnti
dominanti del PRI e degli impresari ad esse legati.
Superatelo, ja ja. Hashtag #YaSupérenlo
Nel
suo discorso del 4 dicembre a Iguala, Guerrero, Peña ha chiesto alla
comunità di “superare questa fase”, “questo momento di dolore”, per fare
“un passo avanti”, dato che la sua geniale idea è molto semplice:
voltare pagina, dimenticare l’inferno e salvare la sua immagine. Ottimo
montaggio televisivo, un ponte da inaugurare come scusa per andare ad
Iguala e dintorni, e infine un po’ di applausi dei burocrati che lo
accompagnavano. Un evento pensato ad hoc per farsi vedere nella zona e
prendere di nuovo la parola. Il ponte, distrutto nel settembre 2013
dall’uragano Manuel, è stato ricostruito a Coyuca de Benítez, nella
Costa Grande al nord di Acapulco. Peña s’è definito come il “grande
alleato degli abitanti del Guerrero” e ha indicato che quanto successo
coi normalisti di Ayotzinapa “genererà una svolta, segnerà un momento e
permetterà la costruzione di istituzioni migliori”.
Ciononostante
nessuno ha ancora capito come. La comunità sarà felice per il nuovo
ponte dell’oblio, dunque, e per l’inizio del corso di superazione
personale che pare voler proporre il presidente con le sue frasi ad
effetto. “Hanno detto ‘superatelo’ per i femminicidi nel Chihuahua 15
anni fa, e continuiamo a cercare e lavorare, rispondiamo ‘siamo stanchi’
dell’impunità”, ha scritto via Twitter la giornalista Lydia Cacho.
Occupazione simbolica di Città del Messico nella Giornata d’Azione Globale per Ayotzinapa
Intanto
il Messico, e soprattutto Guerrero, continuano a bruciare, le proteste
non si fermano e anche all’estero la solidarietà s’esprime nelle forme
più fantasiose, incessantemente, giorno dopo giorno. Il 3 dicembre ci
sono state mobilitazioni in 43 città degli Stati Uniti con l’hashtag #UStired2,
oltre 3000 boliviani sono scesi in piazza a La Paz e oltre 10mila
uruguayani hanno marciato per Ayotzinapa a Montevideo il giorno dopo. E’
stata la marcia per i 43 normalisti più numerosa realizzata fuori dal
Messico. La settimana scorsa in Italia i movimenti sociali e
l’associazione Libera hanno promosso decine di iniziative per denunciare
il narco-stato messicano e i crimini di lesa umanità in terra azteca
con cortei, flash mob, proteste fuori dai consolati e nelle università,
diffusione di comunicati e attività di sensibilizzazione dell’opinione
pubblica.
Nel pomeriggio del 5
dicembre un corteo di 43 trattori ha sfilato per l’Avenida Reforma, nel
centro di Città del Messico. Sabato 6, invece, in decine di città
messicane ci sono state manifestazioni e proteste che nella capitale si
sono trasformate in un’occupazione simbolica della città. Infatti, a
Città del Messico le mobilitazioni della CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educacion), dei genitori dei 43 desaparecidos, protetti dal collettivo Marabunta, degli studenti, del FPFV (Frente Popular Francisco Villa), del Frente de Pueblos para la Defensa de la Tiera
di San Salvador Atenco, delle organizzazioni contadine, che sono
arrivate a cavallo alle 10 del mattino, e della società in generale sono
confluite nella spianata del Monumento a la Revolución.
Hanno dato vita a un’altra oceanica Giornata di Azione Globale per Ayotzinapa per unire la causa dei 43 desaparecidos
al rifiuto delle riforme strutturali, alla difesa dell’acqua, la vita e
la terra e alla commemorazione dei cento anni dell’ingresso degli
eserciti di Francisco Villa ed Emiliano Zapata nella capitale e
l’occupazione indigena della città del 6 dicembre 1914. I megafoni della
CNTE hanno annunciato la notizia, ufficializzata poco prima dai periti
argentini: i resti di uno dei 43 normalisti sono stati identificati, ma
la lucha sigue.
A un lato
degli insegnanti dodici persone, tre donne e sei uomini, camminano in
fila indiana. Hanno le mani legate e una corda li tiene uniti uno
all’altro. Sono dei presunti infiltrati a cui i manifestanti della CNTE
hanno appiccicato sul petto un cartello con la scritta “infiltrados”
per evitare che facciano danni e si mischino con loro. E arriva anche
la notizia che il capo della polizia della capitale, Jesús Rodríguez, ha
presentato le sue dimissioni, dopo essere stato aspramente criticato
per le sue ciniche dichiarazioni sul “valore e la gagliardia della
polizia” durante lo sgombero della piazza del Zocalo il 20 novembre
scorso.
Javier Sicilia e movimento per la pace
“Dissi
a Peña, durante i dialoghi nel Palazzo di Chapultepec coi candidati
alla presidenza, che pareva non avere un cuore, una sensibilità, e si
arrabbiò perché gli stavo ricordando la repressione di Atenco del 2006,
quando era governatore del Estado de México”, ha spiegato Javier
Sicilia, leader del movimento per la pace con giustizia e dignità
(MPJD), in un’intervista radiofonica. “Col suo discorso l’altro giorno a
Iguala mostra anche una mancanza di intelligenza politica oltre
all’insensibilità. Si potrebbe lanciare un messaggio del genere, forse,
se almeno fossero state fatte le cose necessaria affinché i fatti non si
possano più ripetere, se fosse stata fatta giustizia, se il caso fosse
stato risolto, ma non così, quando niente è stato risolto e si ha un
mandato per farlo che non viene rispettato. Bisogna rompere e rifondare
lo stato, spegnere la emergenza nazionale e ricostruire e questo si fa
solo con una logica di giustizia, dignità e servizio al paese, cosa che
non è stata fatta, invece stanno facendo sparire più gente…”.
Parlando
del superamento del dolore, Sicilia ha sottolineato la profondità della
crisi strutturale che sta vivendo il Messico: “Con cosa dovremmo
superare il dolore? C’è una questione terribile dietro. E se
dall’Austria ci dicono che i resti sono degli studenti, saranno comunque
solo alcuni, e gli altri? E le fosse? Non è possibile accettare che non
ci sia nulla, che ci sia solo la polvere degli studenti, che non resti
più nulla. Perciò li vogliamo vivi, li vogliamo presenti, con un corpo
almeno.
Questa situazione non si
ripara in nessun modo, solo se non ce ne saranno mai più”. Il poeta e
attivista ha ribadito l’obbligo dello stato chiarire cosa è successo coi
ragazzi di Ayotzinapa e “l’ondata di proteste deve spingere affinché i
fatti di Iguala non succedano mai più, deve esserci un punto di rottura a
partire da questo. Le strutture sono corrotte, e Peña non ha nemmeno la
legittimità o l’autorità morale per dire quel che dice di fronte al
disastro che stiamo vivendo”. Dal “Mexican Moment” vaticinato dal The
Economist nel 2012 e dal miraggio di un presidente che, secondo la
rivista Time, stava “Salvando il Messico”, siamo passati inevitabilmente
a una realtà fatta di tragedie
dalle proporzioni immani, sequel spietato del terrore del sessennio
precedente, ma ancor più amara perché s’è imposta sulla propaganda e il
marketing governativo a forza di desapariciones, fosse comuni, mattanze dell’esercito, come quella di Tlatlaya del giugno scorso, e morti su morti che ritornano dagli inferi.
Anche
alcuni settori della chiesa cattolica sono intervenuti per chiedere
giustizia e protestare. Qualche giorno fa un gruppo di religiose ha
manifestato per le strade della capitale mentre il 4 dicembre i
sacerdoti e i seminaristi della diocesi di Saltillo sono scesi in piazza
per chiedere la fine della violenza e il chiarimento della strage di
Iguala. “Dinnanzi a quello che succede nel paese e nel Guerrero non
possiamo stare zitti e far finta di niente”, ha espresso il vescovo e
attivista Raul Vera che era alla testa del corteo.
L’idea
che si sia raggiunto un punto di rottura, di non ritorno, nella storia
recente del Messico si sta facendo strada nei movimenti e nella società.
Ma se non si mantiene la pressione interna ed esterna per il
cambiamento, per una “rivoluzione pacifica intelligente”, come l’hanno
battezzata i normalisti sopravvissuti della strage di Iguala, per una
“rifondazione dello stato”, secondo l’augurio di Sicilia, oppure per una
fase costituente, come auspicano altri, insomma, “se non manteniamo la
lotta e andiamo avanti per cambiare il paese, ci aspettano cose ancora
più inaudite, peggiori di quelle che abbiamo vissuto fino ad ora”,
prevede lo scrittore.
Il
rischio di isolamento e repressione di chi non vuole e non può
accomodarsi di fronte alla tragedia nazionale messicana è alto. Le
alternative che Peña ha di fronte sono l’apertura di canali seri di
dialogo, anche se è lecito chiedersi fino a che punto il sistema sia
capace di riformarsi da solo e di ricevere proposte radicali per una
“Convenzione” o una fase costituente, o la repressione. Pare che il
governo e il gruppo di potere legato al presidente, spalleggiato da
amministratori e governatori affini come Miguel Ángel Mancera, sindaco
di Città del Messico, non abbiano dubbi sul fatto che renda di più la
seconda opzione, costi quel che costi.
Guerrero seguro e Nuevo Guerrero
Guerrero
vanta un indice d’impunità dei delitti del 96.7%, sopra la media
nazionale del 93% e peggio degli altri 31 stati del paese. Non si
contano chiaramente i reati non denunciati, che sono stimati intorno al
90% del totale. Il tasso d’omicidi ogni 100mila abitanti è di 63, il più
alto del Messico. Questo significa 3680 omicidi nei primi 23 mesi di
governo di Peña e oltre 1000 nei primi otto mesi del 2014. Seguono lo
stato di Chihuahua con un tasso di 59 e Sinaloa con 41. Nel 2013
Acapulco è stata la terza città più violenta del mondo, dopo San Pedro
Sula in Honduras e Caracas in Venezuela. Nella città costiera, ex perla
turistica messicana, durante i primi 22 mesi del nuovo governo sono
stati denunciati 132 casi di sequestro di persona, il numero più alto in
Messico. Ecatepec, nel feudo priista del Estado de México,
intorno alla capitale, ne hanno registrati 114. Con 447 casi Guerrero è
il terzo stato con più rapimenti, dopo Tamaulipas e l’Estado de México.
Questa
situazione era nota da tempo, evidentemente. Infatti, nel 2011, il
presidente Calderón avviò l’operazione speciale Guerrero Seguro e
aumento la presenza militare, una delle tante iniziative infruttuose che
hanno martoriato il paese dalla fine del 2006 ad oggi.
Peña Nieto ha
annunciato il 4 dicembre la riedizione di quel programma per la
“sicurezza” e ha lanciato un piano di “pacificazione”, un’operazione
militare e poliziesca, per le zone note come Tierras Calientes (territori compresi tra la costa pacifica e le catene montuose della Sierra Madre Occidental
negli stati del Michoacan, Guerrero, Oaxaca, Sinaloa e Morelos) e il
piano di sviluppo e investimenti pubblici e privati battezzato Nuevo Guerrero.
“Rilanciare lo sviluppo economico e sociale” è la finalità ufficiale
dell’operazione. Nei giorni scorsi Peña ha parlato anche della creazione
di zone economiche speciali negli stati del Chiapas, del Guerrero e del
Oaxaca, il che suona come una riedizione del vecchio e fallito Plan Puebla Panamá di integrazione regionale tra il Messico e l’area centroamericana.
L’invio di truppe
Già
da una settimana 2000 uomini della Polizia Federale sono stati mandati a
Chilpancingo, la capitale dello stato, e altri 1500 ad Acapulco “per
difendere i turisti e le famiglie”. Non si sa da chi li dovrebbero
difendere, se poi è la polizia stessa che diventa parte integrante dei
narco-cartelli. Adesso comunque arrivano i rinforzi, arrivano i
“nostri”. Non bisogna essere esperti di sicurezza e politiche pubbliche
per capire che la protezione degli investimenti delle multinazionali del
settore minerario e turistico, insieme alla stabilità relativa dei
narco-affari, soprattutto delle coltivazioni di papavero da oppio e
marijuana, e del settore agricolo legale, sono le priorità sottese a
questo piano. La protezione speciale, con più poliziotti e più
vigilanza, che verrà offerta al porto e all’aeroporto di Acapulco va
lette in questa chiave.
Come nel Michoacan
e nel Tamaulipas pare che anche qui si stia cercando un accordo, un
nuovo equilibrio tra i gruppi mafiosi in lotta in modo da regolarizzare
il business e limitare la violenza: un compito molto complicato, vista
la presenza di forti movimenti sociali organizzati e anche la
frammentazione estrema, favorita dal tipico effetto cucaracha
(scarafaggi che fuggono all’impazzata in ogni dove), che la dissoluzione
del cartello dei Beltran Leyva ha portato con sé. In secondo piano
passano, invece, la tutela delle comunità più povere e insicure e il
rilancio delle zone rurali depresse e di quelle colpite dagli uragani
degli ultimi anni. Parte dell’infrastruttura distrutta è stata
ricostruita, ma l’economia non decolla. Nel suo complesso l’operazione
puzza di controllo sociale e controllo delle proteste che, proprio a
Chilpancingo e nel resto del Guerrero, stanno assumendo le forme più
rabbiose e violente, con attacchi praticamente quotidiani alle sedi dei
partiti e delle istituzioni cui si somma l’occupazione e gestione
autonoma di almeno 13 comuni. Quasi non se ne parla, ma le diverse forme
di autogoverno e autonomia come quelle dei caracoles zapatisti e della comunità autonoma di Cherán nel Michoacan sono una realtà in tante comunità del Messico.
Il decalogo di Peña Nieto
Il
28 novembre Peña ha enunciato un decalogo di misure e proposte del
governo per provare a uscire dall’impasse. E’ una lista imbevuta di
autoritarismo, di volontà accentratrice e di vecchie ricette dell’epoca
di Calderón che attentano contro i diritti umani. A queste “nuove tavole
della legge” si aggiunge anche una beffa: la legge anti-cortei. In
questo contesto di escalation delle proteste e della repressione, in
attesa di una possibile diminuzione della pressione internazionale e
della partecipazione popolare per l’avvicinarsi del periodo natalizio e
la chiusura delle università, i legislatori del PRI, del PAN e del Verde
Ecologista hanno approvato la cosiddetta “Legge Anti-Corteo”.
Si
tratta di una riforma degli articoli 11 e 73 della costituzione
affinché il governo federale, le amministrazioni locali e i governi
statali possano emettere leggi in materia di mobilità che potranno
essere usate dalle autorità per impedire le manifestazioni e la libertà
d’espressione e riunione. In pratica si attribuisce la facoltà di
promulgare leggi e ordinanze sulla mobilità cittadina, provinciale e
regionale che però in realtà nascondono l’inganno e giustificheranno la
restrizione del diritto a manifestare e rappresaglie verso diverse forme
di protesta sociale.
Tra le misure che saranno discusse in parlamento
c’è la creazione di un solo corpo di polizia per ogni stato,
l’abolizione delle polizie locali o comunali, la possibilità per il
governo di dissolvere comuni con infiltrazioni mafiose, la fissazione di
un Codice Unico d’Identità personale, la creazione del numero 911 per
tutte le emergenze, una riforma della giustizia e nuove operazioni
militari per la sicurezza negli stati fuori controllo.
La
stretta anti-libertaria del governo non ha comunque bisogno di molte
nuove leggi dato che continuano le “vecchie” pratiche del sequestro,
dell’arresto arbitrario e della desaparición come nei casi di
tre studenti della Universidad Nacional Autónoma de México che hanno
denunciato il tentativo di farli sparire della polizia federale, in
azione contro di loro a Città del Messico.
Fabbrica di colpevoli
Il
15 novembre il ventiseienne Bryan Reyes e la sua fidanzata Jaqueline
Santana, rispettivamente maestro di flamenco e studentessa di economia,
entrambi militanti del gruppo Acampada Revolucion 132, stavano
camminando in una zona periferica della capitale, si dirigevano al
famoso mercato della Merced. Mentre passavano su un cavalcavia sono
stati catturati da 14 poliziotti, otto uomini e sei donne, in borghese.
Convinti che si trattasse di un sequestro di persona, dato che gli
agenti non si sono identificati e li hanno picchiati per forzarli ad
entrare con la violenza in un taxi e in un’automobile privata, i due
hanno cominciato a gridare. Ulises Chavez, un amico che era con loro, è
riuscito a scappare e un poliziotto locale è stato richiamato sul posto
dai rumori e le urla, ha puntato la pistola in faccia a uno dei federali
e gli ha intimato di liberare i ragazzi.
Quando
il federale s’è identificato il poliziotto l’ha lasciato stare ma
questo “contrattempo” ha forse salvato la vita a Jaqueline e Bryan che
sono stati portati in questura e poi in prigione con delle accuse
assurde ma, per lo meno, in vita. Senza il minimo rispetto dei diritti
umani e del dovuto processo, in spregio al fatto che i poliziotti
federali hanno cercato di sequestrare e, probabilmente, far sparire i
due ragazzi, questi sono stati rinchiusi per furto aggravato per aver
rubato 30 euro a una poliziotta proprio sul cavalcavia in cui sono stati
immobilizzati e rapiti dai federali (in questo video-link la testimonianza della sorella di Bryan).
I detenuti del 20 novembre e del primo dicembre sono stati liberati,
Bryan e Jaqueline no, e stanno portando avanti uno sciopero della
fame dal 23 novembre.
Una situazione simile ha vissuto Sandino Bucio,
studente di Filosofia e Lettere e attivista che lo scorso 28 novembre è
stato praticamente sequestrato da alcuni agenti in borghese della
polizia federale all’uscita dell’università, dopo aver partecipato
all’assemblea degli studenti della sua facoltà. Picchiato e costretto a
salire su una macchina bianca, anonima, come se si trattasse di un
rapimento o di una sparizione forzata. Per fortuna i passanti e gli
studenti che si trovavano nei paraggi hanno filmato l’arresto e hanno
diffuso immediatamente l’informazione. Si sono mosse subito le reti
sociali e quelle dell’attivismo universitario per organizzare un
picchetto di protesta fuori dalla sede della procura, dove intanto era
stato condotto Sandino. Dopo poche ore la pressione mediatica e popolare
è riuscita a far liberare lo studente. Gli agenti federali coinvolti
sono stati sospesi, ma resta critico il livello di guardia dei movimenti
e dei cittadini di fronte alle rozze azioni d’intimidazione della
polizia, alle sue operazioni delinquenziali e alle offensive legislative
del mondo politico.