(Foto di Democracy Now) |
di Marco Cinque (*)
Una nuova guerra, subdola e silenziosa, è iniziata contro i popoli nativi del Nord America, sia in Canada sia negli Usa: la guerra dell’acqua e del petrolio, dichiarata dalle multinazionali, in particolare dalla compagnia Enbridge, che in nome del progresso e dei profitti sta mettendo a repentaglio la stessa terra, i fiumi e le risorse necessarie per sopravvivere in quei territori.
La realizzazione di un gigantesco oleodotto, il Dapl (Dakota Access Pipeline), definito emblematicamente «serpente nero», che prevede l’attraversamento di quattro stati, tra cui il North Dakota, passerà anche sotto il fiume Missouri e diversi altri corsi d’acqua, minacciando seriamente l’incolumità di milioni di persone, tra cui gli indigeni della nazione Hunkpapa Lakota di Standing Rock.
L’oleodotto è un progetto che costa circa 4 miliardi di dollari e che dovrebbe portare 470mila barili di petrolio al giorno, dai giacimenti petroliferi della parte occidentale del North Dakota fino all’Illinois, dove sarebbe collegato con altre condotte. Le proteste dei Lakota sono iniziate già dallo scorso aprile ed hanno coinvolto diverse altre tribù (Cheyenne, Arapaho, Crow) trasformandosi nel più grande raduno permanente dai tempi della storica occupazione di Wounded Knee, nel 1973. All’allargamento della rivolta, ferma ma pacifica, purtroppo c’è stata una risposta repressiva e violenta da parte della polizia, con pestaggi, arresti indiscriminati di più di 40 nativi e persino l’utilizzo di cani da combattimento aizzati anche contro donne e bambini. Tra gli arrestati spiccano i nomi del presidente tribale Dave Archambault II e quello del consigliere tribale Dana Wasinzi, rei di aver oltrepassato il cordone di sicurezza degli agenti. E’ emblematico il fatto che, ancora oggi, esponenti delle tribù amerindie vengano arrestati per violazione di domicilio della loro stessa terra.
Nella dichiarazione congiunta «No Keystone XL Pipeline Will Cross Lakota Lands», i movimenti indigeni Honor the Heart, Oglala Sioux Nation, Owe Aku e Protect the Sacred, si rivolgono direttamente al presidente degli Stati uniti, Barack Obama: «La Oglala Lakota Nation ha assunto la leadership dicendo «no» alla Keystone XL Pipeline. Ha fatto ciò che è giusto per la terra, per il suo popolo ed ha invitato i suoi leader ad alzarsi in piedi e proteggere le loro terre sacre. E hanno detto che il KXL non deve attraversare il territorio che si estende oltre i confini della Riserva. I loro cavalli sono pronti. Così come lo sono i nostri. Noi siamo con la Nazione Lakota, siamo al loro fianco per proteggere l’acqua sacra, stiamo con loro perché gli stili di vita indigeni basati sulla terra non siano danneggiati da un oleodotto nocivo e tossico. Riconoscendo la responsabilità di proteggere Madre Terra, i popoli indigeni non permetteranno che questo oleodotto attraversi le nostre aree protette dal Trattato».
A seguito della mobilitazione, la costruzione dell’oleodotto è stata temporaneamente sospesa, in attesa della decisione di un giudice federale. Nel frattempo, la società di costruzione dell’impianto, la «Partner Energy Transfer», ha citato in giudizio diversi manifestanti indigeni, accusandoli di intimidire gli imprenditori e di bloccare i lavori di costruzione.
Inizialmente la rivolta è stata silenziata dai media locali, che in molti casi hanno utilizzato la già collaudata tecnica di criminalizzazione dell’azione intrapresa dagli esponenti indigeni.
Il Governatore del South Dakota, Jack Dalrymple (tra l’altro è anche il consigliere di Donald Trump), ha cercato in tutti i modi di disperdere i manifestanti con posti di blocco e il taglio dell’acqua nei campi dove i dimostranti erano radunati. In seguito è emerso che Dalrymple, assieme ad altri sostenitori del progetto KXL, possiedono quote nella società stessa e che sono quindi in palese conflitto d’interessi.
Dopo diversi appelli, continue marce di protesta e il coinvolgimento attivo di personalità dello spettacolo, tra cui Leonardo Di Caprio e Susan Sarandon, la vicenda è stata finalmente ripresa anche sulla prima pagina del New York Times e su diversi altri media americani e internazionali.
Il 9 settembre scorso, un giudice federale ha però respinto la richiesta dei nativi e delle associazioni ambientaliste, decidendo quindi di far proseguire i lavori dell’oleodotto. Ma, nello stesso giorno, subito dopo la decisione del giudice, è scesa in campo l’amministrazione Obama che, attraverso il Dipartimento di giustizia, ha emanato un decreto che sembrerebbe bloccare i lavori di costruzione nell’area in cui si trova la riserva dei nativi. Ma un articolo di Jafari Tishomingo e M. David, pubblicato sul Counter Current News dell’11/09/2016 ci mette in guardia: «Obama ha solo suggerito di “fermare volontariamente” la costruzione del pipeline per un piccolo tratto del gasdotto proposto, d’accordo con i leaders di Standing Rock coi quali ha parlato. Quindi, perché il governo esagera, se non addirittura mente, su quello che è successo con la Casa Bianca nell’“intervento” di venerdì? Molti dei manifestanti del campo di Standing Rock ritengono che il motivo sia quello di convincere la gente a desistere».
L’efficacia della protesta Lakota risiede nel fatto che essi non si considerano semplici «protestors», cioè manifestanti, ma «protectors», vale a dire protettori che stanno lottando non solo egoisticamente per una causa che li riguarda, ma per la Madre Terra, quindi per tutti noi.
Una delle loro parole d’ordine è Mni wiconi, cioè «L’acqua è vita». Confidiamo che possa continuare ad esserlo.
(*) ripreso da «il Manifesto» del 14 settembre