Seconda Lettera a Luis Villoro nell’Interscambio Epistolare su Etica e Politica
DELLA RIFLESSIONE CRITICA, INDIVIDUI E COLLETTIVI
DELLA RIFLESSIONE CRITICA, INDIVIDUI E COLLETTIVI
“Se in cielo c’è unanimità, riservatemi un posto all’inferno”
(SupMarcos. Istruzioni per la mia morte II)
I. – LA PROSA DEL TESCHIO
Don Luis:
Salute e saluti maestro. Speriamo veramente che stia meglio di salute e che la parola sia come quei rimedi casalinghi che alleviano anche se nessuno sa come.
Mentre inizio queste righe, il dolore e la rabbia di Javier Sicilia (lontano per distanza ma da sempre vicino per ideali), si fanno eco che riverbera tra le nostre montagne. C’è d’aspettarsi e dà speranza che la sua leggendaria tenacia, così come ora convoca la nostra parola e azione, riesca a radunare le rabbie e i dolori che si moltiplicano sui suoli messicani.
Di don Javier Sicilia ricordiamo le critiche irriducibili ma fraterne al sistema di educazione autonoma nelle comunità indigene zapatiste e la sua ostinazione nel ricordare periodicamente, alla fine della sua colonna settimanale sulla rivista messicana PROCESO, la pendenza del compimento degli Accordi di San Andrés.
La tragedia collettiva di una guerra insensata, concretata nella tragedia privata che l’ha colpito, ha messo don Javier in una situazione difficile e delicata. Molti sono i dolori che aspettano di trovare eco e volume nel suo reclamo di giustizia, e non sono poche le inquietudini che aspettano che la sua voce accorpi, che non guidi, le ignorate voci di indignazione.
E succede anche che intorno alla sua figura ingigantita dal dignitoso dolore, volino gli avvoltoi mortiferi della politica dell’alto, per i quali una morte vale solo se aggiunge o toglie nei loro progetti individuali e di gruppuscoli, benché si nascondano dietro la rappresentatività.
Si scopre un nuovo assassinio? Allora bisogna vedere come questo impatta la puerile contabilità elettorale. Là in alto interessano le morti se possono incidere sull’agenda elettorale. Se non si possono capitalizzare nei sondaggi e nelle tendenze di voto, allora tornano nel lugubre conto dove le morti non interessano più, anche se sono decine di migliaia, perché tornano ad essere una questione individuale.
Nel momento di scriverle queste parole, ignoro i passaggi di questo dolore che convoca. Ma il suo reclamo di giustizia, e tutti quelli che si sintetizzano in questo reclamo, meritano il nostro rispetto e sostegno, anche se con il nostro essere piccoli ed i nostri grandi limiti.
Nell’andirivieni delle notizie su quell’evento, si ricorda che don Javier Sicilia è un poeta. Forse per questo la sua persistente dignità.
Nel suo stile molto particolare di guardare e spiegare il mondo, il Vecchio Antonio, quell’indigeno che è stato maestro e guida per tutti noi, diceva che c’erano persone capaci di vedere realtà che ancora non esistevano e che, siccome non esistevano nemmeno le parole per descrivere quelle realtà, allora dovevano lavorare con le parole esistenti e sistemarle in un modo strano, in parte canto e in parte profezia.
Il Vecchio Antonio parlava della poesia e di chi la fa. (Io aggiungerei di chi la traduce, perché anche le traduttrici e i traduttori della poesia che parla lingue lontane devono essere molto creatrici e creatori di poesia).
I poeti, le poetesse, vedono più lontano o vedono in altro modo? Non lo so, ma cercando qualcosa che, dal passato, parlasse del presente che ci fa male e del futuro incerto, ho trovato questo scritto di José Emilio Pacheco, che tempo fa mi mandò un mio fratello maggiore e che viene a proposito perché nessuno capisca:
Prosa del Teschio
Come il demonio dei Vangeli il mio nome è Legione. Sono te perché sei me. O sarai perché fui. Tu ed io. Noi due. Voi, gli altri, gli innumerevoli voi che si risolvono in me.
(…)Poi fui, al punto di trasformarmi in luogo comune, simbolo di saggezza. Perché la cosa più saggia è anche la più ovvia. Siccome nessuno vuole guardarlo in faccia non sarà mai superfluo ripeterlo: Non siamo cittadini di questo mondo ma passeggeri in transito per la terra prodigiosa e intollerabile. Se la carne è erba e nasce per essere tagliata, sono per il tuo corpo quello che l’albero è per la prateria: non invulnerabile, neppure durevole, ma materiale consistente o resistente. Quando tu e tutti i nati nel vuoto del tempo che ti fu dato in prestito, terminerete di rappresentare il vostro ruolo in questo dramma, questa farsa, questa tragica e buffa commedia, io rimarrò per lunghi anni: scarno disincarnato. Serena smorfia, volto segreto che ti rifiuti di guardare (togliti la maschera: in me troverai il tuo vero volto), benché lo sai intimo e tuo e che sempre ti accompagna. E porta dentro, in fugaci cellule che ogni istante muoiono a milioni, tutto ciò che sei: il tuo pensiero, la tua memoria, le tue parole, le tue ambizioni, i tuoi desideri, le tue paure, i tuoi sguardi che attraverso la luce erigono l’apparenza del mondo, il tuo allontanamento o intendimento di ciò che realmente chiamiamo realtà. Quello che ti eleva al di sopra dei tuoi dimenticati simili, gli animali, e quello che ti pone sotto di essi: il segno di Caino, l’odio verso la tua specie, la tua capacità bicefala di fare e distruggere, formica e tarlo.
(…)Perché vengo con voi ovunque. Sempre con lui, con lei, con te, aspettando senza protestare, aspettando. Degli eserciti dei miei simile si è forgiata la storia. Delle mie polveri è impastata la terra.
(…)Dunque, chi lo direbbe, io – maschera della morte – sono il più profondo dei tuoi segni di vita, la tua impronta finale, la tua ultima offerta di spazzatura al pianeta che non sta più in sé stesso per tanti morti. Sebbene perdurerò solo per breve tempo, in ogni caso molto superiore a quello che hanno concesso a te.
(…)Ogni bellezza ed ogni intelligenza giacciono in me, e mi ripudi. Mi vedi come segno della paura dei morti che si rifiutano di essere morti, o morte pura e semplice: la tua morte. Perché posso venire a galla solo col tuo naufragio. Appaio solo quando hai toccato il fondo. Ma ad una certa età mi insinuo nei solchi che mi disegnano, nei capelli che condividono il mio consunto biancore. Io, il tuo vero volto, la tua apparenza ultima, il tuo viso finale che ti rende Nessuno e diventa Legione, oggi ti offro uno specchio e ti dico: Contemplati.
(José Emilio Pacheco, “Prosa del Teschio”, da “Fine di secolo ed altre poesie”, Messico, Fondo de Cultura Económica / Secretaría de Educación Pública, Lecturas Mexicanas No. 44, 1984, pp. 114-117)
II. – LA PERTINENZA DELLA RIFLESSIONE CRITICA.
“Quando l’ipocrisia comincia ad essere di pessima
qualità, è ora di cominciare a dire la verità”
Bertold Brecht.
La guerra dell’alto prosegue, e col suo passo di distruzione si vorrebbe anche che tutti incomincino ad accettare quest’orrore quotidiano come se fosse qualcosa di naturale, qualcosa di impossibile da cambiare. Come se la confusione imperante fosse premeditata e volesse democratizzare una rassegnazione che immobilizza, che conforma, che sconfigge, che arrende.
In tempi in cui si organizza la confusione e si esercita coscientemente l’arbitrio, è necessario fare qualcosa.
E qualcosa è tentare di disorganizzare questa confusione con la riflessione critica.
Don Luis, come potrà vedere nelle missive che le allego, si sono uniti a questo scambio di riflessioni su Etica e Politica, Carlos Antonio Aguirre Rojas, Raúl Zibechi, Sergio Rodríguez Lascano e Gustavo Esteva. Speriamo che altri pensieri si aggiungano in questo spazio.
In questa seconda nostra lettera, vorrei toccare alcuni dei punti che lei affronta nella sua risposta e che, direttamente o indirettamente, segnalano anche i nostri corrispondenti che lanciano le loro idee da Città del Messico, Oaxaca e Uruguay.
Tutti affrontano, con le proprie particolarità, cioè, nel calendario e geografia propri, questo tema della riflessione critica. Sono sicuro che nessuno di noi (lei, loro, noi) pretendiamo di stabilire verità assolute. Il nostro proposito è lanciare il sasso, le idee, nello stagno apparentemente tranquillo dell’attuale ambito teorico.
La similitudine del sasso che ho usato, va oltre la retorica della superficie momentaneamente agitata dal sasso.
Si tratta di arrivare al fondo. Di non accontentarsi dell’evidente, ma di attraversare con irriverenza lo stagno immobile delle idee ed arrivare al fondo, sotto.
Nell’epoca attuale la riflessione critica è apparentemente stagnante. E dico apparentemente se ci si attiene a quello che viene presentato come riflessione teorica sui media stampati ed elettronici. E non si tratta solo del fatto che quello che è urgente abbia soppiantato ciò che è importante, in questo caso, i tempi elettorali la distruzione del tessuto sociale.
Si dice, per esempio, che l’anno che ci preoccupa, il 2011, è un anno elettorale. Bene, lo sono stati anche tutti gli anni precedenti. Inoltre, l’unica data che non è elettorale nel calendario di quelli che stanno sopra è… il giorno delle elezioni.
Ma ormai si vede che l’immediatezza difficilmente può distinguere tra quello che è accaduto ieri da quello che è successo 17 anni fa.
Salvo le “fastidiose” interruzioni dovute alle catastrofi naturali ed umane (perché i crimini quotidiani di questa guerra sono una catastrofe), i teorici dell’alto, o i pensatori dell’immediato, tornano sempre sul tema elettorale… o fanno equilibrismi per legare qualunque cosa al tema elettorale.
La teoria spazzatura, come il cibo spazzatura, non nutre, intrattiene soltanto. E di questo sembra trattarsi se ci atteniamo a quello che appare sulla stragrande maggioranza dei quotidiani e delle riviste, così come nelle pagine degli “specialisti” dei media elettronici del nostro paese.
Quando questi dispensatori di teoria spazzatura guardano in altre parti del Mondo e deducono che le mobilitazioni che abbattono i governi sono il prodotto di telefoni cellulari e reti sociali, e non di organizzazione, capacità di mobilitazione e potere di convocazione, esprimono, oltre ad un’estrema ignoranza, il desiderio inconfessato di ottenere, senza sforzo, il loro posto nella “STORIA”. “Twitta e guadagnerai i cieli” è il loro moderno credo.
E, come i “prodotti miracolosi”, questi esaltatori dell’Alzheimer teorico e politico, promuovono soluzioni facili per l’attuale caos sociale.
A nessuno accade che, come si vede nelle pubblicità, se usa la tale lozione per uomo o il tal profumo per donna, si troverà istantaneamente in Francia, ai piedi della Torre Eiffel, o nei bar della Londra di chi sta in alto.
Ma, come i prodotti miracolosi che promettono di far perdere peso senza fare esercizio fisico e astenersi dal cibo, e ci sono persone che ci credono, c’è anche chi crede che si possa avere libertà, giustizia e democrazia solo tracciando un segno su una scheda a favore della permanenza del Partito Azione Nazionale, dell’arrivo del Partito della Rivoluzione Democratica o del ritorno del Partito Rivoluzionario Istituzionale.
Quando queste persone sentenziano che esiste una sola opzione, la via elettorale o la via armata, non solo dimostra la sua mancanza d’immaginazione e di conoscenza della storia nazionale e mondiale. Ma anche, e soprattutto, torna a tessere la trappola che è servita da pretesto per l’intolleranza e l’esigenza di unanimità fascista e retrograda da parte di uno o un altro schieramento dello spettro politico.
“Brillante” analisi questa che pone l’urgenza di definizioni… rispetto alle opzioni che impongono quelli che stanno in alto.
Sulle false opzioni pone molto bene l’allerta Gustavo Esteva, nel suo testo, e credo che lanci un argomento speciale in questo scambio a distanza.
Invece di cercare di imporre i loro deboli assiomi, potrebbero scegliere di discutere, di argomentare, di tentare di convincere. Invece no. Si trattò e si tratta di imporre.
Credo sinceramente che a loro non interessi discutere sul serio. E non solo perché non hanno argomenti di peso (fino ad ora è tutto solo un elenco di buone intenzioni e ingenuità che sfiorano il patetico, dove il Partito Azione Nazionale dimostra che lo “stile Fox” non è un caso isolato, ma tutta una scuola di dirigenti in quel partito; dove il Partito Rivoluzionario Istituzionale predica l’autismo rispetto alla propria storia; dove il variopinto mondo dell’autodefinita sinistra istituzionale vuole convincere con slogan in mancanza di argomenti), ma perché non si vuole cambiare niente di fondo.
È perfino comico vedere gli equilibrismi per compiacere le masse (sì, le disprezzano ma ne hanno bisogno) e contemporaneamente corteggiare senza pudore il potere economico.
Per loro si tratta esattamente di agire nel ristretto margine di manovra delle macerie dello Stato Nazionale in Messico, per tentare di esorcizzare una crisi che, quando scoppierà, spazzerà via anche loro, cioè, la classe politica nel suo insieme. Insomma: per loro è una questione di sopravvivenza individuale.
La vocazione di informatori, delatori e gendarmi calza bene a questa spazzatura teorica che ha animato l’isteria intellettuale ed artistica, prima contro il movimento studentesco del 1999-2000 e del suo Consiglio Generale di Sciopero, e poi contro tutto quello che non accettava le direttive di questo covo di poliziotti del pensiero e dell’azione.
Si vuole stabilire una differenziazione che è piuttosto un esorcismo: ci sono loro, i perbene, cioè, i civilizzati, e ci sono gli altri, i barbari.
Nella loro esile struttura teorica ci sono, da una parte (sopra), gli individui brillanti, saggi, misurati, prudenti; e dall’altra parte (sotto) c’è la massa oscura, ignorante, disordinata e provocatoria.
Di là: i prudenti e maturi usurpatori della rappresentatività delle maggioranze.
Di qua: le minoranze violente che rappresentano solo sé stesse.
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Ma supponiamo che a loro interessi discutere e convincere.
Discutiamo, per esempio, delle reali conseguenze del progetto ultradecennale di Azione Nazionale di cambiare una nota strofa dell’Inno Nazionale Messicano per mettere al suo posto “Pensa, Oh Amata Patria! il cielo una vittima collaterale in ogni figlio ti diede”, e rispetto al quale nessuno degli altri partiti ha presentato un’alternativa puntuale e decisa.
O la presunta bontà del ritorno del Partito Rivoluzionario Istituzionale ed il conseguente ritorno di tutta una cultura di corruzione e crimine che ha travolto l’insieme della classe politica messicana.
O le possibilità reali del progetto di far fare retromarcia alla ruota della storia e tornare allo Stato Benefattore, che è la proposta dell’ancor debole coalizione di opposizione.
Tutti, oltre a detestare la riflessione teorica (chiaro, quella che non sia un puerile autocompiacimento), si propongono l’impossibile: mantenere, riscattare o rigenerare le macerie di uno Stato Nazionale che ha generato e dato corpo al sistema di partiti di Stato. Quel sistema che ha trovato nel Partito Rivoluzionario Istituzionale il suo migliore specchio e rispetto al quale l’intera classe politica di quelli che stanno in alto, oggi si sforza di somigliare.
O non si sono resi conto fino a che punto sono distrutte le basi di questo Stato? Come mantenere, riscattare o rinnovare un cadavere? Ed anche così, è molto tempo che la classe politica e gli analisti che l’accompagnano si impegnano invano ad imbalsamare le rovine.
Ma si capisce, l’ignoranza non è condannabile. Chiaro, a meno che si vesta di saggezza.
Non è possibile, diciamo noi, presentare qualunque tipo di soluzione al disastro dello Stato Nazionale senza toccare il sistema responsabile di questa rovina e dell’incubo che avvolge il paese intero.
Noi diciamo che ci sono le soluzioni, ma possono nascere solo dal basso, da una proposta radicale che non aspetta un consiglio di saggi per legittimarsi, ma è già in atto, cioè, si lotta in molti angoli del nostro paese. Pertanto, non è una proposta unanime nella sua forma, nel suo modo, nel suo calendario, nella sua geografia. Ma è plurale, includente, partecipativa. Niente a che vedere con le unanimità che pretendono di essere imposte da azzurri, gialli, rossi, verdi, rosa, e le varie comparse che li accompagnano.
Ma noi, ammettiamo che possiamo sbagliarci. Che può essere, è un’ipotesi, che la distruzione perpetrata lasci ancora un margine di manovra per rifare, dall’alto, il tessuto sociale.
Ma, invece di incoraggiare un dibattito serio e profondo, ci viene chiesto di tornare a tacere e, un’altra volta, ci si esorta di nuovo ad appoggiare i nostri persecutori, chi, per esempio, copre con le sue parole o il suo silenzio persone come Juan José Sabines Guerrero, chi dal governo del Chiapas persegue e reprime chi non si unisce al falso coro di lodi per le sue bugie fatte governo, chi persegue i difensori dei diritti umani sulla Costa e negli Altos del Chiapas e gli indigeni di San Sebastián Bachajón che si rifiutano di prostituire la loro terra, chi fomenta l’azione di gruppi paramilitari contro le comunità indigene zapatiste.
Chi realmente conosce quello che si sta facendo e disfacendo in Chiapas e non ha paura, ha così ribattezzato lo slogan di Sabines: “Disfatti, non parole”. Sabines Guerrero è ciò che meglio rappresenta la putrefatta classe politica messicana: ha l’appoggio del PAN, del PRI, del PRD e del movimento di AMLO; è generoso con i media perché dicano quello che gli conviene e tacciano su quello che non gli conviene; ha un aspetto inconsistente, un’immagine pronta a polverizzarsi in qualsiasi momento; e governa come se fosse il solerte capoccia di una tenuta porfirista.
Ed ancora ci viene chiesto di “fornire contributi critici e costruttivi” ad un movimento diretto e guidato per ripetere la stessa storia di oppressione, ma con altri nomi.
Quando capiranno che esistono individui, gruppi, collettivi, organizzazioni, movimenti, ai quali non interessa cambiare quello che sta sopra né rinnovare (cioè, riciclare) una classe politica parassita?
Noi non vogliamo cambiare tiranni, padroni o supremi salvatori, ma non averne nessuno.
Infine, se di qualcosa bisogna ringraziare là in alto, è che ancora una volta hanno rivelato la povertà teorica e l’evidente debolezza strategica di chi si proponeva e propone di mantenere, sostituire o riciclare quelli che stanno sopra per esorcizzare la ribellione di quelli che stanno sotto.
Credo sinceramente che una profonda riflessione critica dovrebbe cercare di allontanare lo sguardo dall’ipnotico carosello della classe politica e guardare ad altre realtà.
Che cosa hanno da perdere? In ogni caso, avranno più argomenti per auto-costituirsi come “l’unica alternativa possibile”. Dopo tutto, le altre e gli altri sono così piccoli e (uffa!) così radicali.
Anche se a volte riescono a vedere ..…
Che l’eroico lavoro di collettivi anarchici e libertari per sottrarsi alla logica del mercato capitalista è effetto e causa di un pensiero radicale. E che il futuro scommette principalmente sul pensiero radicale. Cosicché farebbero bene a guardare con rispetto quel variopinto modo di avere identità propria: i piercing, i tatuaggi, le chiome multicolore e tutti quegli accessori che tanto gli fanno orrore.
O la lotta di organizzazioni sociali di sinistra indipendenti che scelgono di organizzare autisti, mini-micro-nano commercianti (…), invece di organizzare automobilisti, camere di commercio ed associazioni di categoria, e che possono rendere conto di cambiamenti importanti delle loro condizioni di vita. E non grazie all’assistenzialismo elettorale, ma attraverso l’organizzazione collettiva con progetti immediati, mediati e a lungo termine. Si mantengono indipendenti e così resistono.
O la leggendaria resistenza dei popoli originari. Se c’è qualcuno conosce dolore e lotta, sono loro.
O la degna rabbia delle madri e dei genitori di assassinat@, desaparecid@s, detenut@. Perché farebbero bene a ricordare che in questo paese non succede niente… fino a che le donne non decidono che succeda.
O l’indignazione quotidiana di opera@, impiegat@, contadin@, indigen@, ragazz@ di fronte al cinismo dei politici, senza distinzione di colore.
O la dura lotta delle lavoratrici e dei lavoratori del Sindacato Messicano degli Elettricisti nonostante, loro sì, avere contro una gigantesca campagna mediatica, repressione, prigione e minacce e vessazioni.
O la tenace lotta per la libertà de@ prigionier@ politic@ e la presentazione in vita dei desaparecidos.
O no? La democrazia che loro vogliono non è altro che un’amnesia amministrata a convenienza? Si seleziona cosa vedere, e così si sceglie che cosa dimenticare?
III. – L’INDIVIDUO CONTRO IL COLLETTIVO?
Nella sua missiva, Don Luis, lei tocca il tema dell’individuo e del collettivo. Una vecchia discussione di quelli che stanno sopra li contrappone, e l’hanno già usata per fare l’apologia di un sistema, il sistema capitalista, rispetto alle alternative che nascono in sua opposizione.
Collettivo, ci dicono, cancella l’individualità, la soggioga. Quindi, con un rozzo balzo teorico, si cantano le lodi del sistema dove, si ripete, qualunque individuo può diventare ciò che è, buono o cattivo, perché esiste la garanzia di libertà.
Mi rendo conto che questo concetto di “libertà” è qualcosa su cui bisognerebbe andare più a fondo, ma forse sarà in un’altra occasione, per ora torniamo all’individuo… o individua, secondo il caso o cosa.
Il sistema canta le lodi dell’individuo che sta sopra o di quello che sta sotto.
Di quello che sta sopra perché risaltando la sua individualità, buona o cattiva, efficiente o inefficiente, brillante od oscura, occulta la responsabilità di una forma di organizzazione della società. Così, abbiamo individui governanti cattivi… o più cattivi (scusate, non ne ho trovato nessuno che mi permettesse di dire “o buoni”), idem per individui di potere economico, eccetera.
Se l’individuo che sta sopra è perverso, volgare, crudele e ostinato (lo so, sembra il profilo di Felipe Calderón Hinojosa), quello che bisogna fare è eliminare questo individuo cattivo e mettere al suo posto un individuo buono. E se non ci sono individui buoni, allora il meno peggio (lo so, sembra che stia ripetendo lo slogan elettorale di 5 anni fa e che sta per essere riciclato).
Il sistema, cioè, la forma di organizzazione sociale, resta intatta. O soggetta alle variazioni permesse. Cioè, si possono fare alcuni cambiamenti, ma senza che cambi la cosa fondamentale: pochi che stanno sopra, molti che stanno sotto, e quelli che stanno sopra ci stanno a costo di quelli che stanno sotto.
Si plaude e si ammira l’individuo che sta sotto, perché la ribellione individuale non è in grado di mettere in serio pericolo il funzionamento di quella forma di organizzazione sociale. O lo si ridicolizza ed attacca, perché l’individuo è vulnerabile.
Mi permetta dunque un arbitrio retorico: diciamo che le aspirazioni fondamentali di ogni essere umano sono: vita, libertà, verità. E che forse si può parlare di una gradualità: miglior vita, più libertà, maggiore conoscenza.
È possibile che l’individuo possa raggiungere in pienezza queste aspirazioni e le sue rispettive gradualità a livello collettivo? Noi crediamo di sì. In ogni caso, siamo sicuri che non può raggiungerli senza il collettivo.
“Dove, con chi, contro che cosa?”. Queste, diciamo noi, sono le domande la cui risposta definisce il posto dell’individuo e del collettivo in una società, in un calendario ed una geografia precisi.
E non solo. Definiscono inoltre la pertinenza della riflessione critica.
Prima ho detto che queste riflessioni collettive non pretendono di arrivare alla verità in generale, ma vogliono allontanarsi dall’unanime bugia che ci vogliono imporre dall’alto.
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Solo qualche parola sul lavoro e i sacrifici che ora sembrano solo di individui solitari.
A chi critica le diverse iniziative che, ancora disseminate, nascono dal dolore sociale, bisognerebbe ricordare che, giudicando e condannando chi fa qualcosa, assolve chi non fa niente.
Perché distruggere l’arbitrio, disorganizzare la confusione, fermare la guerra, sono compiti collettivi.
IV. – COSA ACCADRÀ.
Il mondo come ora lo conosciamo sarà distrutto. Sconcertati e malconci, non potranno rispondere niente ai propri vicini quando gli domanderanno “Perché?”
Prima, ci saranno mobilitazioni spontanee, violente e fugaci. Poi un riflusso che permetterà loro di tirare un respiro di sollievo (“pfuiii! è passata!”). Ma, poi arriveranno nuove sollevazioni, ma organizzate, perché vi parteciperanno collettivi provvisti di identità.
Allora, vedranno che i ponti che hanno distrutto, credendo che fossero stati costruiti per aiutare i barbari, non solo sarà impossibile ricostruirli, ma si accorgeranno che quei ponti c’erano anche per essere aiutati.
E loro diranno che verrà un’epoca di oscurantismo, ma non sarà altro che semplice rancore, perché la luce che volevano fermare e gestire non servirà assolutamente a quei collettivi che hanno fatto luce propria, e con essa ed in essa camminano e cammineranno.
Il mondo non sarà più lo stesso mondo. Nemmeno sarà migliore. Ma si sarà dato una nuova opportunità di essere il luogo in cui sia possibile costruire la pace con lavoro e dignità, e non un continuo andare contro corrente in un incubo senza fine.
Allora, messo in poesia, in una scritta su un muro distrutto si leggeranno le parole di Bertold Brecht:
Voi, che emergerete dalla marea nella quale noi siamo annegati, ricordate quando parlate delle nostre debolezze, anche i tempi bui ai quali voi siete scampati. Abbiamo camminato, cambiando più spesso i paesi delle scarpe, attraverso le guerre di classe, disperati, quando c’era solo ingiustizia e nessuna rivolta. Eppure sappiamo che anche l’odio verso la bassezza distorce i tratti del viso. Anche l’ira per le ingiustizie rende la voce rauca. Purtroppo, noi, che volevamo preparare il terreno per la gentilezza non potevamo essere gentili. Ma voi, quando sarà venuto il momento in cui l’uomo sarà amico dell’uomo, ricordate noi con indulgenza.
Bene Don Luis. La saluto e che non vinca di nuovo l’immobilismo.
Dalle montagne del Sudest Messicano.
Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, Aprile 2011
P.S. – E per concludere questa missiva, la morte è arrivata un’altra volta col suo imprevisto passo. Felipe Toussaint Loera, un cristiano di quelli che credono nella necessità della giustizia terrena, se n’è andato un pomeriggio di questo caldo aprile. Di Felipe e di altr@ come lui abbiamo parlato in testi recenti. Egli è stato ed è parte di quella generazione di uomini e donne che sono stati dalla parte degli indigeni quando non erano ancora di moda, ed anche quando non lo erano più. Lo ricordo in una delle riunioni preparatorie dell’Altra Campagna, nel 2005, mentre ratifica il suo impegno nell’inscrivere la sua storia individuale nella storia di un collettivo che rinasce più volte. Salutiamo la sua vita, perché in vita, alle domande “dove?, con chi?, contro che cosa?” Felipe ha risposto: “in basso, con gli indigeni che lottano, contro il sistema che li sfrutta, li spoglia, li reprime e li disprezza”. Tutte le morti di sotto addolorano, ma ci sono alcune che dolgono più da vicino. Con quella di Felipe, è come se ci fosse mancato qualcosa di molto nostro.
Testo originale: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2011/04/11/sci-marcos-de-la-reflexion-critica-individus-y-colectivs-carta-segunda-a-luis-villoro-en-el-intercambio-espistolar-sobre-etica-y-politica/
(Traduzione “Maribel” – Bergamo)