di Angela Pascucci
Mai risolta, la disputa fra Cina e
Giappone sulle isole Diaoyu/Senkako nel mar della Cina orientale si
riaccende periodicamente, ogni volta più infiammata a causa delle
crescenti rigidità e intransigenze dei contendenti. Stavolta il gong
del nuovo round è stato suonato dalla Cina quando, il 23 novembre
scorso, ha annunciato l’istituzione di una nuova zona di difesa del
proprio spazio aereo (Adiz, Air Defence Identification Zone), che
include le isole contese e si sovrappone alla zona di controllo
giapponese e, sia pur in misura minore, quella sud coreana. Con
questa decisione Pechino impone a chiunque sorvoli l’area di
identificarsi e fornire i propri piani di volo all’aviazione
cinese, che in caso di inadempienza attuerà “misure difensive di
emergenza”.
Ne è seguita una serie di scaramucce
a jet sfoderati, aperta dagli indimenticabili B52 americani, due
esemplari dei quali, decollati da Guam, sono stati spediti subito da
Washington con un duplice scopo: far capire da che parte della
contesa si colloca, in nome dei trattati di sicurezza sottoscritti
con Tokyo, e sfidare la reazione cinese, che in questo caso si è
limitata a “sorvegliare” l’azione (dichiarando che il sorvolo
americano è avvenuto ai limiti dell’area) .
Attraverso la breccia
aperta dagli Usa (che formalmente hanno dichiarato trattarsi di
“regolari esercizi” da loro normalmente condotti nell’area) si
sono precipitati poi i jet militari giapponesi e anche quelli sud
coreani. La Cina ha deciso in tutti questi casi di far decollare a
mo’ di controllo un paio di velivoli della propria contraerea ma
non ha ancora agito per imporre il rispetto delle nuove regole di
identificazione, platealmente e volontariamente violate (anche se gli
Usa hanno consigliato alle loro compagnie aeree civili di ottemperare
alle richieste cinesi).
Una reazione che ha sollevato un putiferio
tra i frequentatori dei social network come Weibo, la versione cinese
di twitter, che hanno chiesto in massa intransigenza fino alla
guerra.
Finora l’incidente fatale è stato
evitato ma si preannuncia un periodo in cui le scaramucce, talvolta
rischiose, già in corso sul mare che circonda le isole, saranno
replicate anche sui cieli, dove il gioco si fa più pericoloso. Solo
Taiwan (che in continuità con la storia della Repubblica popolare
porta avanti in modo autonomo le stesse rivendicazioni ma col
Giappone dialoga) è rimasta a guardare, con grande preoccupazione.
In tutto questo intrico, è palese che
la decisione della Rpc ha aperto un capitolo nuovo, ancor più
gravido di incognite e pericoli, in un conflitto che si placherà
solo quando nell’area del Pacifico occidentale si saranno stati
stabiliti nuovi equilibri geopolitici, dopo che quelli vecchi sono
stati buttati all’aria dall’ascesa della potenza cinese.
La situazione è ora in uno stato di
sospensione ma l’atteggiamento di intransigenza che ormai prevale
sembra un punto di non ritorno. Come è stato possibile che la
seconda e la terza economia mondiali, arrivate ad accumulare uno
scambio commerciale che ormai ammonta a oltre 330 miliardi di
dollari, siano giunte a tanto? Alla considerazione che i soli
rapporti economici non bastano a ripianare controversie e odi
storici va aggiunta quella che l’economia può costituire, e ciò
è evidente nel caso sino-giapponese, un elemento di frizione forte
quando le traiettorie si incrociano perché una sale e l’altra
scende. E il Giappone sta affrontando il suo declino davanti alla
Cina con un mix pericoloso di timore per il futuro e di sfida, che lo
spinge a mettere alla prova limiti e capacità del vicino e
avversario, convinto che cedere equivarrebbe a mostrare debolezza. Da
parte sua, anche Pechino sta testando la propria forza e capacità di
egemonizzare la regione.
Troppo lungo sarebbe qui ripercorrere
tutta la complessa storia delle isole Diaoyu/Senkaku e delle
rivendicazioni che le riguardano. Le sue radici lontane si ritrovano
alla fine dell’800, quando lo storico conflitto sino-giapponese si
intreccia con l’interventismo delle potenze occidentali; si
propagano fino al II conflitto mondiale e al suo epilogo;
attraversano pressoché silenti i decenni che chiudono il XX secolo e
riaffiorano come frutti avvelenati nel secondo decennio del terzo
millennio. Nel 1972, gli Stati uniti riconsegnano Okinawa alla
sovranità giapponese e con l’arcipelago anche le Senkaku/Diaoyu,
delle quali tuttavia affidano a Tokyo solo l’amministrazione,
riconoscendo in tal modo l’esistenza di una controversia (secondo
alcuni mossa maligna perché foriera di conflitto). Di fatto, negli
anni ’70, prima Zhou Enlai e poi Deng Xiaoping intrattengono con il
Giappone colloqui che sfociano in un tacito accordo (mai sottoscritto
formalmente e oggi negato da Tokyo) di accantonare la questione per
non compromettere la normalizzazione dei rapporti, nella speranza che
il futuro porti la saggezza necessaria a una soluzione. (Chi è
interessato a una ricostruzione più approfondita della disputa può
leggere Gavan McCormack, “Much Ado over Small Islands: The
Sino-Japanese Confrontation over Senkaku/Diaoyu” in The
Asia-Pacific Journal, Vol 11, Issue 21, No. 3, May 27, 2013).
L’andamento del conflitto su quei
cinque scogli sperduti e deserti ha assunto nel corso del tempo un
valore simbolico tale da rispecchiare le differenti fasi storiche
attraversate da Cina e Giappone nel corso del loro turbolento ‘900,
con un’intensità rafforzata nel 1968 quando un rapporto aggiunge a
quello simbolico anche un valore assai materiale, facendo balenare la
prospettiva che i mari intorno alle isole possano celare “uno degli
ultimi, più ricchi, inesplorati giacimenti di olio e gas naturale”
esistenti al mondo che solo chi ha la sovranità su quegli scogli
potrà sfruttare appieno. Una ricchezza enorme che tuttavia resta
ancora da accertare, anche perché richiederebbe la collaborazione
pacifica degli interessati. Di fatto il litigio è rimasto silente
per lungo tempo, salvo qualche esplosione di rivendicazione isolata,
e senza conseguenze incendiarie, da parte di gruppi nazionalisti
delle due parti, anche grazie al tacito accordo dei governi di non
fomentarli. Ancora nel 2008 il premier giapponese Yasuo Fukuda e il
presidente cinese Hu Jintao durante un loro incontro dichiarano il
proprio impegno a fare del Mar della Cina orientale “un mare di
pace, cooperazione e amicizia” e a tale fine si firma un’intesa
per lo sfruttamento comune degli idrocarburi nel mar della Cina
orientale. L’ impegno è reiterato un anno e mezzo dopo da un altro
premier nipponico, Yukio Hatoyama. Tre mesi dopo, il leader del
trionfante Partito democratico, Ichiro Ozawa, guidava una delegazione
di 600 persone in missione semi ufficiale di amicizia a Pechino.
La distensione termina bruscamente nel
2010, con l’arresto del capitano di un peschereccio cinese che
navigava nelle acque contese e la dichiarazione del governo
giapponese, ancora guidato dal Partito democratico già in crisi, che
le isole fanno parte integrante del territorio nipponico e non c’è
nulla da discutere.
Da allora, l’escalation è stata
continua e inarrestabile. Il culmine viene toccato nel 2012 quando la
decisione del governo giapponese di “nazionalizzare” tre isole
acquistandole dal proprietario giapponese provoca un’ondata di
manifestazioni violente nella Repubblica popolare, che inducono i
giapponesi a chiudere, sia pure per breve tempo, le loro fabbriche e
i negozi delle loro catene commerciali sul continente, a causa delle
violente proteste cinesi.
Nel dicembre 2012 è tornato al governo
in Giappone il Partito liberal democratico con il nazionalista e
conservatore Shinzo Abe, a novembre una nuova leadership guidata da
Xi Jinping si è installata a Pechino. Un cambiamento di teste che
sembra aver rinfocolato, in modo nuovo e per nulla rassicurante,
tutta la controversia, come se la questione fosse usata dai
rispettivi leader in funzione interna, per rafforzarsi con il
cemento nazionalista, che fa sempre presa. E non è peregrino
ipotizzare che Xi Jinping voglia con la nuova assertività bilanciare
il new deal di riforme “di mercato” decise dal recente Terzo
Plenum del Partito.
In Giappone, la posizione di
intransigenza sulle isole viene rafforzata da un governo di destra
che ha riacceso con il suo negazionismo tutti i punti di conflitto
storico con la Cina ed è determinato a procedere con la modifica
della Costituzione pacifista che non consente ora al paese di andare
oltre l’auto difesa e di intervenire oltre i propri confini. (Si
veda l’intervista a Shinzo Abe “Japan is Back” in Foreign
Affairs July/August 2013).
Sullo sfondo, ma ben presente, il
convitato di pietra americano. Vi sono studiosi che rilevano come
l’ingombrante presenza sia attiva da oltre un secolo e ricordano
gli sforzi della diplomazia americana alla fine dell’800 per
impedire che il trattato sino-giapponese del 1871 si trasformasse in
un’alleanza dei paesi dell’Asia orientale contro l’Occidente,
prospettiva vista come “una calamità” dai diplomatici americani
che nel 1879 spingono il Giappone a impadronirsi del reame di Ryukyu
(tributario dell’impero cinese e del quale le isole contese
facevano parte) e trasformarlo in un suo dipartimento. (Philippe
Pelletier, Le chien et l’elephant. Le Japon au miroir de la Chine,
in Hérodote, 3e trimestre 2013,“Regards geopolitique sur la
Chine”)
L’impressione che l’oggi rimanda è
che il divide et impera americano sia ancora all’opera e che
gli Usa abbiano bisogno del conflitto sino-giapponese per continuare
ad affermarsi come i garanti della stabilità nell’area. Anche in
quest’ottica va vista la strategia del “pivot” elaborata
dall’amministrazione Obama che teorizza il ritorno del protagonismo
americano in Asia e che la Cina percepisce, non a torto, come una
strategia volta al suo contenimento. (Strategia, sia detto qui come
cenno ma meriterebbe approfondimento, che favorisce enormemente
l’industria bellica americana.
Si veda in propositohttp://www.reuters.com/article/2013/01/01/us-usa-asia-arms-sales-idUSBRE90005D20130101).
Di fatto, il presente vede il Giappone
sempre più integrato in un sistema di difesa avanzato controllato da
Washington, al quale Pechino risponde con una strategia di riarmo e
un sistema di difesa volti a depotenziarlo.
Il segretario della difesa americano
Chuck Hagel ha definito l’azione cinese “un tentativo
destabilizzante per alterare lo status quo nella regione”. Visto
dalla Cina, è esattamente l’opposto. E’ stata l’assertività
giapponese a cambiare lo status quo e la decisione di Pechino
sull’Adiz ne è la risposta speculare. E se il Global Times,
quotidiano ufficiale a forti tinte nazionaliste, richiama scenari da
nuova Guerra Fredda e scrive a chiare lettere che la Cina non tornerà
indietro perché “siamo pronti a impegnarci in uno scontro
prolungato col Giappone. Il nostro scopo ultimo è sconfiggere la sua
volontà di potenza e ambizione a istigare un conflitto strategico
contro la Cina” (“Japan prime target of ADIZ tussle”
29/11/2013,
htttp://www.globaltimes.cn/content/828546.shtml#.UpjqvrmA3cs) , voci
più ragionevoli ma non meno autorevoli spiegavano, prima dello
scoppio della crisi, che l’obiettivo cinese “è arrivare a una
giurisdizione e a un pattugliamento congiunti nelle acque in
questione per negare al Giappone il controllo unilaterale delle
isole. Pechino vuole costringere il Giappone a modificare la sua
posizione di ‘nessuna disputa territoriale’” ( Ren Xiao,
direttore del Centro Studi della Politica estera cinese in
http://www.eastasiaforum.org/2013/11/04/diaoyusenkaku-disputes-a-view-from-china/.)
Per la Repubblica popolare non c’è
in ballo solo la contesa con Tokyo ma anche la soluzione di tutte le
dispute aperte nel Mar Cinese meridionale, dove lo scontro più forte
è con il Vietnam e le Filippine. L’esito che avrà il conflitto a
nord, non potrà non influenzare quello in atto a sud.
Con il braccio di ferro in corso le
Diaoyu/Senkaku assurgono di nuovo a simbolo dell’oggi e c’è chi
teme che possano assumere il ruolo di una Sarajevo del XXI secolo.
Tokyo ha annunciato che alla fine dell’anno diffonderà le nuove
linee guida di difesa nelle quali verrà probabilmente articolata una
nuova politica che vedrà i cieli e i mari delle Senkaku pattugliati
costantemente e non in modo intermittente, come ora. Un baratro
potrebbe aprirsi nel Mar della Cina, che inghiottirebbe vincitori e
vinti.