“Uno sa di essere morto quando le cose che lo circondano hanno smesso di morire.”
Elías Contreras
Professione: Commissione
di Investigazione dell’EZLN
Stato Civile: Defunto.
Età: 521 anni e più.
È l’alba, e se me lo domandassero, ma non l’hanno
fatto, direi che il problema con i morti sono i vivi.
Perché poi generalmente si scatena la disputa assurda,
oziosa e indignante sulla loro assenza.
Quel “io li ho conosciuti-visti-mi hanno detto”
è soltanto l’alibi per nascondere il “io sono l’amministratore di quella
vita perché amministro la sua morte”.
Qualcosa come il “copyright” della morte,
convertita dunque in mercanzia che si possiede, si scambia, circola e viene
consumata. Per questo esistono perfino istituzioni: libri storiografici,
biografie, musei, effemeridi, tesi, giornali, riviste e dibattiti.
E si cade nella trappola dell’edizione della storia
stessa per limare gli errori.
Si usano allora i morti per innalzarsi un monumento su
di loro.
Ma, secondo la mia modesta opinione, il problema con i
morti è sopravvivergli.
O si muore con loro, un po’ o molto ogni volta.
O ci si aggiudica il titolo di loro portavoce. In fin
dei conti non possono parlare, e non è la loro storia, quella loro, che si
racconta, ma si giustifica la propria.
O si possono anche usare per pontificare con il noioso
“io alla tua/vostra età”. Quando l’unico modo onesto di completare
questo ricatto a buon mercato e per nulla originale (quasi sempre rivolto a
giovani e bambini), sarebbe concludere con un “aveva commesso più errori di
te/voi”.
Dietro il sequestro di questi morti, c’è il culto
della storiografia, così di sopra, così incoerente, così inutile. Ovvero, la
storia che vale e che conta è quella che sta in un libro, una tesi, un museo,
un monumento e negli equivalenti attuali e futuri che non sono altro che un
modo puerile di addomesticare la storia del basso.
Perché ci sono quelli che vivono a costo della morte
di altri, e sulla loro assenza costruiscono tesi, saggi, scritti, libri, film,
ballate, canzoni ed altre forme più o meno eleganti di giustificare la propria
inazione… o la sterile azione.
Quel “non è morto” non può che essere solo uno slogan,
se nessuno prosegue il cammino. Perché secondo il nostro modesto e non
accademico punto di vista, ciò che importa è il cammino non chi lo percorre.
E, approfittando del fatto che sto riavvolgendo questo
nastro di giorni, mesi, anni, decenni, domando, per esempio:
Del SubPedro, del señor Ik,
della Comandanta Ramona, valgono i loro alberi genealogici? Il loro
DNA? I loro certificati di nascita con nome e cognome?
O ciò che vale è il cammino che hanno percorso insieme
ai senza nome e senza volto – cioè, senza lignaggio familiare e/o scudo
araldico -?
Del SubPedro vale il suo vero nome,
il suo volto, il suo stile, raccolti in una tesi, una biografia – cioè, in una
bugia documentata secondo convenienza -?
O vale la memoria che di lui esiste nelle comunità che
aveva organizzato? Sicuramente i fanatici della religione l’avrebbero accusato,
giudicato e condannato per essere ateo, ed i fanatici della razza anche, ma per
essere meticcio e non avere la pelle del colore della terra, con quel razzismo
al contrario che si pretende “indigeno”.
Ma la decisione di lottare del SubPedro,
del Comandante Hugo, della Comandanta Ramona, degli insurgentes
Alvaro, Fredy, Rafael, vale perché qualcuno gli mette un nome, un
calendario, una geografia? O perché quella decisione è collettiva e c’è chi
prosegue?
Quando qualcuno vive e muore lottando, nella sua
assenza ci dice “ricordami”, “onorami”, “biasimami”? O ci impone di
“proseguire”, “non arrendersi”, “non tentennare”, “non vendersi”?
Voglio dire, io sento (e parlando con altri compas so
che non è solo un mio sentimento) che il conto che devo presentare ai nostri
morti è che cosa si è fatto, che cosa manca e che cosa si sta facendo per
completare ciò che ha motivato questa lotta.
Probabilmente mi sbaglio, e qualcuno mi dirà che il
senso di ogni lotta è perdurare nella storiografia, nella storia scritta o
parlata, perché è l’esempio dei morti, la loro biografia addomesticata ciò che
motiva i popoli a lottare, e non le condizioni di ingiustizia, di schiavitù (il
termine reale per definire la mancanza di libertà), di autoritarismo.
Ho parlato con alcuni compagne, compagni, zapatisti
dell’EZLN. Certo, non con tutt@, ma con quelli che posso ancora vedere, con i
quali posso stare.
C’è stato tabacco, caffè, parole, silenzi, ricordi.
Non è stata l’ansia di durare indefinitamente, bensì
il senso del dovere quello che ci ha portati qui, nel bene o nel male. Il
bisogno di fare qualcosa di fronte all’ingiustizia millenaria, quell’indignazione
che sentiamo come la caratteristica più contundente di “umanità”. Non vogliamo
nessun posto in musei, tesi, biografie, libri.
Quindi, nell’ultimo respiro, noi zapatiste, zapatisti,
ci domandiamo “mi ricorderanno?”. O ci domandiamo “se cederò di
un passo sul cammino?, c’è chi lo proseguirà?”.
Noi, quando andiamo sulla tomba di Pedro,
gli diciamo quello che abbiamo fatto affinché tutti lo ricordino, o gli
raccontiamo quello che si è fatto nella lotta, quello che ancora c’è da fare
(sempre manca ciò che manca), quanto siamo ancora piccoli?
Gli rendiamo buon conto se prendiamo il “Potere” e se
gli innalziamo una statua?
O se possiamo dirgli “Senti Pedrín, siamo ancora
qui, non ci siamo venduti, non tentenniamo, non ci arrendiamo”?
E, a proposito di discussioni…
Il fatto di darsi un altro nome ed occultare il volto, è per nasconderci dal nemico o per sfidare la sua struttura da mausoleo, la sua nomenclatura gerarchica, le sue offerte di compra-vendita truccate da poltrone burocratiche, premi, lodi e lusinghe, club grandi o piccoli di seguaci?
/ sì mio caro, i tempi cambiano, prima il
maestro o la maestra – o l’equivalente di mandarino della conoscenza – si
corteggiava dedicandogli libri, lusingando le sue parole, guardandol@ con
rapimento. Ora si posta nei suoi scritti, si danno “like” nelle sue pagine web,
ci si somma al numero di seguaci che cinguettano disordinatamente… /
Voglio dire, ci importa chi siamo? O ci importa quello
che facciamo?
La valutazione che ci interessa e colpisce, è quella
di fuori o quella della realtà?
La misura del nostro successo o fallimento sta in
quello che appare su di noi sui media a pagamento, nelle tesi, nei commenti,
nei “pollici in alto”, nei libri di storia, nei musei?
O sta in quanto raggiunto, mancato, consolidato, in
sospeso?
E riavvolgendo ancora…
Della Chapis, importa che era credente e
cristiana conseguente, o importa che ha vissuto e lottato, con e nel suo essere
cristiana, per chi non l’ha mai conosciuta? Certamente i fanatici dell’ateismo
l’avrebbero accusata, giudicata e condannata per non professare la religione
degli ismo che pretende di monopolizzare la spiegazione e
guida di tutte le lotte.
Una volta, dopo avere letto “Il Vangelo secondo Gesù”
di José Saramago, la Chapis cercò il letterato e compagno per
dirgli non solo che il suo libro non le era piaciuto, ma anche che lei avrebbe
scritto la propria versione sull’argomento. Importa se riuscì ad incontrare
Saramago, se gli disse questo, se scrisse la sua versione? O importa la sua
decisione di farlo?
E di Tata Don Juan, vale solo per i suoi cognomi “Chávez
Alonso”, il suo sangue purépecha, il cappello che lo copriva e lo mostrava,
come se indossasse un passamontagna? O vale anche per le strade in diversi
continenti che hanno avuto l’onore del suo passo originario?
Le bambine ed i bambini assassinati nell’Asilo ABC, ad
Hermosillo, Sonora, Messico, che hanno avuto appena una brevissima biografia,
valgono per il numero di righe ed i minuti a loro dedicati sui mezzi di
comunicazione? O valgono per il sangue che sangue e vita ha dato loro, e che
ora si impegna con degna ostinazione e vuole giustizia? Perché quei bambini e
bambine valgono anche ora, benché assenti, per i padri e le madri che sono
partoriti con la loro morte.
Perché la giustizia, amici e nemici, è anche impedire
che si ripeta l’ingiustizia, o che cambi nome, faccia, bandiera, alibi
ideologico, politico, razziale, di genere.
-*-
Voglio dire, noi (ed altr@ come noi, molti, molte,
tutt@) lottiamo per essere migliori ed accettiamo quando la realtà ci dice che
non ci siamo riusciti, ma non per questo smettiamo di lottare.
Perché non è che qua non onoriamo i nostri morti. Lo
facciamo. Ma lo facciamo lottando. Tutti i giorni, a tutte le ore. E così fino
a che guardiamo il suolo, prima allo stesso livello, poi verso l’alto,
coprendoci con il passo compagno.
-*-
Infine, le pagine si allungano e con esse cresce anche
la certezza che tutto questo non importa a nessuno, che non è trascendente, che
non è quello che la-Nazione-il-momento-storico-la-congiuntura chiede, che è
meglio raccontare una storia… o scrivere una biografia… o innalzare un
monumento.
E delle 3 cose, sono fermamente convinto che l’unica
che vale la pena è la prima.
Quindi vi racconterò, così come me l’ha riferita
Durito, la storia del Gatto-Cane (attenzione: adesso sì leggete “Rewind 3”).
Bene. Salute e, dei morti, guardate soprattutto la
strada che il loro passo ha percorso, che ha ancora bisogno di passi che la
percorrano.
Il Sup mentre si sistema il
passamontagna con macabra civetteria.
P.S. CHE PRENDE POSIZIONE IN UN DIBATTITO DI REALE
ATTUALITÀ. – “I videogiochi sono la continuazione della guerra con altri
mezzi”, sentenzia Durito. Ed aggiunge: “Nella lotta millenaria tra i fanatici
del PS e della Xbox può esserci solo un perdente: l’utente”. Non ho osato
chiedergli a che cosa si riferisse, ma suppongo che più di un@ capirà.
P.S. TROPPO LUNGO PER STARE IN UN “TWIT” (deve
essere per l’ammontare della fattura). – L’autonominato “governatore” del
Chiapas, Messico, ha solennemente dichiarato che la sua amministrazione “ha
stretto la cinghia” con un programma di austerità. A dimostrazione della sua
decisione, si è bevuto più di 10 milioni di dollari per una campagna
pubblicitaria nazionale tanto massiccia e costosa quanto ridicola… e illegale.
Ma siccome alcuni media hanno avuto la loro fetta di torta, “l’imberbe”,
“inesperto” e “immaturo” impiegato di un affare che non è né partito, né è
verde, né è ecologista, né è del Messico (beh, né lui è governatore, quindi non
c’è motivo di soffermarsi sui dettagli) è ora sulle pagine della stessa stampa
che lo attaccava per essere un “bamboccio”, un “uomo di Stato” che non spende
per la sua promozione personale, ma per “attrarre turismo in Chiapas”. Sì mio
caro, già le agenzie turistiche lanciano il pacchetto “Conosci il Güero
Velasco”, “all included”, accompagnato da un “kit” con
paraocchi per non vedere i gruppi paramilitari, né la miseria e il crimine che
pullulano nelle principali città chiapaneche (Tuxtla Gutiérrez, San Cristóbal
de las Casas, Comitán, Tapachula, Palenque), in uno stato dove si suppone che i
poveri siano gli indigeni, non i meticci. Se il ladrone, Juan Sabines Guerrero,
pagò milionate ai media per simulare un governo dove c’erano solo razzie,
l’attuale “junior” della politica locale paga di più perché ha imparato
dall’attuale titolare dell’Esecutivo Federale (credo si chiami Enrique Manlio
Emilio… no? Vedete lo svantaggio di non avere un account twitter?)
che si può passare da un’indagine giudiziaria alla lista di candidati alle
presidenziali del 2018, con solo poche decine di milioni di dollari, un buon Photoshop e
una telenovela rosa.
P.S. DI CONGIUNTURA REITERATA. – Permetta, signora,
signore, signorina, bambino, bambina, altroa. Mi permetta, alla
fine impertinente, di non lasciarle chiudere la porta e restare solo, sola, a
ruminare la sua frustrazione e cercare responsabili, come si infuria chi ha un
altare fisso e un idolo variabile. E se non metto il piede per evitare che lei
chiuda la porta e resti in salvo nel suo castello di dogmi, ma, invece, metto
il naso dove non devo, lo attribuisca al mio naso, già di per sé impertinente
in volume e forma. Suvvia, mi permetta di interrompere il suo odio represso,
secco, sterile, inutile.
Venga, si calmi, si sieda, respiri profondamente. Sia
forte e si comporti con studiata sensatezza, come quelle coppie che si separano
“da persone mature” benché muoiano dalla voglia di spaccare la testa alla
suddetta… o suddetto (non dimenticare l’equità di genere).
Dunque, quando ottenete qualcosa è solo grazie al
vostro sforzo? Però, quando mietete una sconfitta, allora si democratizzano le
responsabilità… e vi autoescludete. “I fiori sono una farsa”, hanno
sentenziato. “Non si accettano incappucciati”, hanno decretato (e nemmeno pensare
di presentare un reclamo alla CONAPRED per discriminazione nel modo di
vestire). “Soltanto noi soli trionferemo e la Nazione ci sarà eternamente
grata, i nostri nomi compariranno nei libri di testo, congressi, statue,
musei”, si sono entusiasmati anticipatamente.
Poi è successo quello che è successo e, come prima,
ora cercano chi incolpare del fallimento di questa lotta di sopra. “È mancata
l’unità”, dicono, ma pensano “è mancato che si sottomettessero alla nostra
guida”.
La razzia truccata da riforma costituzionale non è
cominciata con questo governo. È iniziata con Carlos Salinas de Gortari e la
sua riforma dell’Articolo 27. L’esproprio agrario fu “coperto” allora dalle
stesse menzogne che ora avvolgono le malchiamate riforme: ora la campagna
messicana è completamente distrutta, come se un bombardamento atomico l’avesse
spianata. E succede ormai col totale delle riforme. La benzina, l’energia
elettrica, l’educazione, la giustizia, tutto sarà più caro, di peggiore
qualità, più scarso.
Prima di questo e ancora prima delle attuali riforme,
i popoli originari sono stati e sono spogliati dei loro territori, che sono
anche della Nazione. L’oro liquido moderno, l’acqua e non il petrolio, è stato
rubato senza che questo richiamasse l’attenzione dei grandi media. Al furto del
sottosuolo, tanto chiaramente denunciato nella Cattedra Tata Juan
Chávez Alonso dal Congresso Nazionale Indigeno, sono state dedicate
poche righe svogliate sulla stampa a pagamento che oggi lamenta che IL POPOLO,
questa entelechia così politico mediatica, non faccia niente per frenare il
furto legalizzato e illegittimo chiamato “riforma energetica”. La razzia è
quotidiana e in ogni luogo. Ma è solo ora che si dice che la Patria è stata
tradita.
Ed ora lei, che è stato sordo, si indigna perché non
l’ascoltano né la seguono.
E dice che non si fa niente perché non vede niente.
Dice e si dice: “vale quello che faccio IO o quello che si fa sotto la mia
tutela, nel mio calendario e nella mia geografia. Il resto non esiste perché non
lo vedo”.
E come potrebbe vedere qualcosa se usa i paraocchi che
il Potere le regala?
Solo adesso scopre che lo Stato non solo rinuncia ad
essere un ammortizzatore nell’uragano di razzie che è il Neoliberismo, ma che,
in aggiunta, si getta rapido a disputarsi le briciole che il vero Potere gli
lancia?
Guardi, il mondo è tondo, gira, cambia. E a poco o
niente può servirle questo catalogo di evidenze duali: sinistra e destra,
reazionario e progressista, antico e moderno, e sinonimi e antonimi tanto di
moda nella politica di sopra.
Guardi, il fatto è, semplicemente, che il suo pensiero
è decrepito.
Ed ha cominciato a perdere nel momento stesso in cui
ha deciso di abbracciare quello di sopra (usando il vecchio trucco – che ora le
si ritorce contro – di destra-sinistra-progressista-reazionario, di inventarsi
alibi e vestirli delle stesse parole che oggi la intrappolano), dimenticando
che quelli di sopra non accettano abbracci, ma genuflessioni.
No, non è che lei non abbia idee e bandiere. È solo
che sono a brandelli. Non importa di quanta modernità siano ammantate, né
quante parole altisonanti si dicano attorno ad esse, né quanti twit le
ripetano, né quanti “like” e commenti raccolgano.
Lei, che si aspettava un proclama, il sangue anonimo
versato, bellicosi squilli di tromba, le otto colonne, le immagini col sangue
offerto sull’altare della Patria, voi, e solo voi, dovrete redimervi.
/ No mio caro, se le dico che lo zapatismo
non è più quello di prima, si ricorda come quasi 20 anni fa ci emozionavamo con
le immagini dei morti anonimi che non avevano né volto né nomi, tanto lontani,
tanto indigeni, tanto chiapanechi? / Certamente, Ocosingo è in Medio Oriente? /
Ah, e le loro iniziative, così brillanti quando c’era un palco per noi. /
D’altra parte, chi può prendere sul serio chi rifiuta di iscriversi alla
mobilitazione o al movimento (attenzione: non è la stessa cosa, imparate a
differenziare) di moda? O analizzarla, classificarla, giudicarla, archiviarla?
/ Di fatto, sono finiti, non invitano più nemmeno la stampa alle loro
celebrazioni, che cosa possono celebrare che non sia la nostra assoluzione o
condanna? / Ah, ma quello che non perdoneremo mai a questi zapatones, non è
solo che non siano morti tutti – e con ciò ci avrebbero negato il diritto di
amministrare le loro morti nel lungo labirinto dei mausolei, delle ballate, dei
“non sei morto compagno, la tua morte sarà amministrata” -, ma che anche le
loro morti li abbiano resi tanto… tanto… tanto ribelli /.
E niente, invece di questo… post scriptum!
So che non le importa, ma per le incappucciate e gli
incappucciati di qua, la lotta che vale non è quella che si è vinto o perso. È
quella che prosegue, e per essa si preparano i calendari e le geografie.
Non ci sono battaglie definitive, né per i vincitori
né per i vinti. La lotta proseguirà, e chi ora si delizia nel trionfo vedrà il
suo mondo crollare.
Per il resto, non si preoccupi. Lei non ha perso
niente perché non ha affatto lottato realmente. La sola cosa che ha fatto è
delegare ad un altro il conseguimento del monopolio di una vittoria che non
arriverà.
Quello di sopra cadrà, senza dubbio. Ma il suo crollo
non sarà il prodotto di una lotta monopolizzata, escludente e fanatica.
Se vuole, continui a tirare da sopra, festeggerà ogni
piccolo movimento del monolite, ma la corda si spezzerà continuamente.
Le statue e gli autoritarismi si abbattono dal basso,
in modo che non rimanga il basamento per un nuovo busto che sostituisca il
precedente.
Nel frattempo, ed è la mia umile opinione, la sola
cosa che vale la pena fare là in alto è quello che fanno gli uccelli: cagare.
Bene, di gelato di noce, anche se fa freddo.
Il Sup che si prepara per…
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Guarda e ascolta i video che accompagnano questo
testo.
Del gruppo iberico di Rock Punk Arzua25, il pezzo “Zapatista”,
del disco “Bienvenido a la Resistencia”.
Il gruppo SKA-FE, dalla Colombia, la
canzone “Muerte a la Muerte”. ¡Brincooooolín!
Della serie “Come avrebbe dovuto finire”,
i finali alternativi a “Batman, il cavaliere della notte”. Video dedicato
alle/ai mascherat@ “cattiv@” (che non sono ben accett@ alle mobilitazioni
“trascendentali”), come Gatúbela e Bane (con i passamontagna invertiti e
l’eccellente dizione).
Dell’immortale Cuco Sánchez, “No soy
monedita de oro”, che parla da sé.
(Traduzione “Maribel” – Bergamo)