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venerdì 7 dicembre 2012

Egitto - Un pò di calore in questo inverno islamista


Contributo di Lorenzo Fe *

Gli sviluppi recenti hanno pienamente confermato le riserve che si accompagnavano alla grande gioia con cui era stata accolta l'ondata rivoluzionaria del 2011 nel mondo arabo. Ma se c'è un punto su cui non ci sono dubbi, è che la Primavera Araba ha infranto il divide et impera della tesi dello “scontro di civiltà”. Ma questa falsificazione è avvenuta su due piani.
Da un lato abbiamo il riemergere di un universalismo dal basso, l'universalismo della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. Il clima culturale post-modernista, con la sua spesso unilaterale esaltazione dei vari particolarismi, lo dava per spacciato. E invece eccolo tornare con forza dove meno ce lo si aspettava.
Dall'altro lato però, c'è l'universalismo dall'alto, che, dai tempi della rivoluzione francese e dell'imperialismo, coopta le aspirazioni di libertà e uguaglianza per trasformarle in facciata ideologica di rapporti di forza tutt'altro che libertari. In questo caso l'universalismo dall'alto si è manifestato nell'intesa tra interessi delle élite occidentali e islamismo sunnita. Dopo un decennio di retorica di guerra al terrore e di equazione tra Islam e terrorismo, tale intesa sembrava addirittura inconcepibile. Eppure una riflessione storica leggermente più ampia fa sembrare tale alleanza tutt'altro che eccezionale. Stati Uniti e Arabia Saudita (paese che talvolta viene buffamente designato come “moderato” dai media mainstream) sono sempre stati in ottimi rapporti. La contemporanea cultura dell'estremismo di destra sunnita, nonché la stessa Al Qaeda, è stata forgiata nel corso della guerra santa contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan, che vedeva servizi segreti americani e jihadisti uniti nella lotta. La guerra al terrore degli anni zero sembra quindi una parentesi all'interno di un più ampio quadro di collaborazione tra élite. Si ha la tentazione di descrivere gli eventi in questi termini: negli anni '90, quando le sinistre sembravano addomesticate o ridotte all'impotenza, le due destre hanno pensato che fosse arrivato il momento di un regolamento di conti interno. Ma con la crisi del neoliberismo e di fronte alla ribellione popolare, i rapporti sono stati ricuciti in men che non si dica. Per cui ecco gli Stati Uniti scommettere sull'islamismo moderato come unico modo di mantenere il regime di governance finanziaria nella regione.
Gli attuali allineamenti stanno esacerbando il conflitto settario tra sciiti e sunniti interno al mondo islamico. Gli islamisti sunniti, retorica a parte, sono vicini all'occidente, e gli sciiti, sotto la guida quanto mai deprecabile dell'Iran di Ahmadinejad e quel che resta della Siria di Assad, in virulenta opposizione. I leader di entrambe le fazioni giocano sul fanatismo religioso per autolegittimarsi. L'accentuarsi del contrasto ha colpito chi ha la sfortuna di trovarsi in prossimità delle trincee di questa guerra ideologica, in Siria, in Libano, e in Palestina. In Siria l'insurrezione popolare e democratica sta assumendo sempre di più le inquietanti sembianze di una guerra etnico-religiosa tra la maggioranza sunnita e il regime sciita. In Libano, Hezbollah è lacerata dalla contraddizione tra la sua retorica populista e il suo fedele sostegno ad Assad. In Palestina, Hamas è altrettanto indebolita dallo scontro tra la sua identità sunnita e l'aiuto che ha ricevuto da Siria e Iran, cosa che sembra aver reso la Palestina un bersaglio ancora più facile per Nethanyahu.
All'interno della destra sunnita, il contrasto si gioca invece tra la corrente più moderata dei Fratelli Musulmani, che fa capo all'Egitto e al Qatar, e quella salafita, che guarda invece all'Arabia Saudita. Negli anni '60 Egitto e Arabia Saudita erano i due grandi concorrenti per l'egemonia sul mondo arabo. Entrambi i regimi erano violentemente autoritari, ma l'Egitto rappresentava una visione anti-imperialista, laica e progressista dal punto di vista della distribuzione del reddito. L'Arabia Saudita invece era ed è una monarchia religiosa fedele agli interessi americani e a una sostanziale indifferenza verso la questione palestinese. Con la fine di Nasser e l'avvento di Sadat, e poi di Mubarak, l'Egitto ha ceduto sull'anti imperialismo, mantenendo una qualche vestigia di parziale e relativo secolarismo (e l'immagine della laicità è stata ovviamente alquanto danneggiata dalla sua associazione con le dittature nord africane). La sfida all'autoritarismo portata avanti dalla rivoluzione egiziana era anche una sfida alle monarchie del golfo, ma l'opportunista avvento al potere dei Fratelli Musulmani rappresenta un avvicinamento all'Arabia dal punto di vista dell'islamismo sunnita e filo-Americano. Certo, i salafiti, generosamente finanziati dai petroldollari sauditi, non sono entrati nei governi a guida islamista moderata comparsi in Marocco, Libia, Tunisia ed Egitto quando la polvere della ribellione si è posata nuovamente al suolo. Ma si dimostrano sempre obbedienti alleati quando si tratta di reprimere le mobilitazioni della sinistra.
Il caso dell'Egitto è emblematico anche per quel che riguarda le politiche degli islamisti al potere. I Fratelli Musulmani sono da tempo un'organizzazione potente, soprattutto dal punto di vista economico. La leadership comprende diversi milionari e i quadri provengono dalla piccola e media borghesia. Questa organizzazione si è rapidamente trasformata in una formidabile macchina elettorale, che ha permesso al presidente Morsy di venire democraticamente eletto nonostante gli intrighi dei militari e dei rimasugli del vecchio regime. Ma Morsy non si è dimostrato particolarmente incline a utilizzare il potere così acquisito in modo altrettanto democratico. La libertà d'espressione, per quanto più ampia che sotto Mubarak, è sta limitata rispetto al periodo della transizione. L'assemblea costituente è stata unilateralmente egemonizzata dagli islamisti. Le elezioni per il nuovo parlamento sono state nuovamente posticipate. Morsy, che ha temporaneamente anche i poteri del parlamento, ha recentemente varato misure per mettere sotto controllo islamista anche il potere giudiziario e i vertici del sindacato di stato. E soprattutto ha garantito all'FMI, in cambio di un nuovo prestito, che il popolo egiziano ripagherà il “debito dittatoriale” contratto sotto Sadat e Mubarak. Le politiche neoliberiste che hanno portato al crollo di Mubarak stanno per ripresentarsi sotto spoglie barbute. Forti coi deboli e deboli coi forti, verrebbe da commentare. Di qui la settimana di scontri della gioventù rivoluzionaria contro islamisti e polizia, nello strenuo tentativo di far contare la forza della mobilitazione più di quella del denaro. La gioventù rivoluzionaria è determinata a far sì che il sangue e la memoria dei caduti non vengano ripuliti dall'opportunismo islamista.

* Lorenzo Fe è autore di In ogni strada. Voci di rivoluzione dal Cairo, cresciuto a Treviso e ora vive a Londra. Per Agenzia X ha pubblicato Londra zero zero e curato l’edizione italiana di All Crews.

Egitto - Il discorso televisivo di Morsi fa allargare le proteste


Dopo la notte di scontri al Cairo tra oppositori e sostenitori del presidente Morsi che ha portato ad un bilancio di almeno sette morti, 350 i feriti e oltre 300 arresti eseguiti dalla polizia nella capitale la protesta è continua anche oggi con altri cortei dell'opposizione che hanno sfidato l'ordine della Guardia Repubblicana che aveva intimato di non fare manifestazioni in particolare nell'area del palazzo presidenziale.
C'era attesa in giornata, oggi, per il discorso televisivo del presidente Morsi. Il suo discorso ha ribadito che: "la minoranza deve accettare il volere della maggioranza". Il presidente nel confermare il referendum del 15 dicembre sulla costituzione, contestata dalle opposizioni, ha anche giustificato il decreto che gli concede ampi poteri e alla fine ha fatto un generico invito alle opposizioni per un incontro sabato.
La posizione del Fronte di Salvezza Nazionale, che comprende una buona parte dell'opposizione resta ferma: il presidente deve ritira il decreto con cui ha accentrato su di sè il potere e bisogna rinviare il referendum sulla costituzione proposta dagli islamici con contenuti di restringimento delle libertà individuali e collettive.
Per domani sono annunciate nuove proteste e un nuovo appuntamento di piazza.
In tarda serata è giunta la notizia che oltre alla sede centrale dei Fratelli Musulmani al Cairo è stato dato alle fiamme così come è successo anche in altre città del paese.
Sulle minacce lanciate verso chi manifesta si è pronunciato anche un esponente dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani: "La gente ha il diritto di protestare pacificamente e di non essere uccisa o ferita nel farlo. L'attuale governo è arrivato al potere col sostegno di simili proteste e per questo dovrebbe essere sensibile alla necessità di tutelare i diritti di libertà, di espressione e di riunirsi pacificamente dei manifestanti".
Intanto anche l’Università Al-Azhar, l’istituzione più prestigiosa del mondo islamico sunnita, ha chiesto al presidente di sospendere il decreto. In un comunicato, Al-Azhar ha inoltre chiesto a Morsi di avviare un dialogo senza condizioni con i l’opposizione.
RASSEGNA STAMPA
Nena News
Da Lettera 43

mercoledì 5 dicembre 2012

Egitto - Continua la protesta contro Morsi che è costretto a lasciare il palazzo presidenziale

Intanto anche in Tunisia si manifesta contro la repressione e le provocazioni

Mentre in Tunisia continuano le proteste dopo la pesante repressione a Siliana e la giornata di oggi ha visto un nuovo corteo a Tunisi in risposta all'assalto avvenuto da parte di esponenti di Ennadha della sede del sindacato UGT, anche oggi in Egitto ci sono state nuove manifestazioni.
La protesta è arrivata fin sotto il palazzo presidenziale dove ci sono stati scontri con la polizia. I manifestanti hanno cercato di rompere il blocco davanti al palazzo e sono stati allontanati da un fitto lancio di lacrimogeni da parte dei poliziotti.
Alcune agenzie di stampa dicono che il Presidente Morsi ha lasciato la residenza nel quartiere di Heliopolis per andare a rifugiarsi nella residenza alla periferia della capitale. La stessa tv di stato egiziana ha detto che le forze di sicurezza si sono ritirate dal perimetro esterno del palazzo presidenziale, mentre Al Jazeera ha mostrato le immagini di un blindato della polizia seguito da un gruppo di poliziotti in tenuta antisommossa completamente circondato dai manifestanti.
Il bilancio della giornata è di numerosi manifestanti feriti ed intossicati dai gas lacrimogeni.
La manifestazione di oggi era stata annunciata come un "avvertimento finale" da parte dell'opposizione nei confronti di una costituzione, frutto della maggioranza islamista (nell'Assemblea costituente che l'ha approvata i laici ed i cristinai non hanno partecipato) e che mette a repentaglio le libertà democratiche oltre ai diritti delle donne e delle minoranze. E' questa costituzione che Morsi vorrebbe portare a referendum il 15 dicembre.

lunedì 3 dicembre 2012

Tunisia - La rivoluzione fallita


"Quasi una rivoluzione. Perché le cose nel Paese non sono poi così cambiate". Parla Meriem Dhaouadi, tunisina di uno tra i più influenti blog al mondo
di Meriem Dhaouadi *

Dall'esterno la Tunisia, il piccolo Paese che ha ispirato il mondo arabo alla rivolta, si sta muovendo verso una democrazia sostanziale. I manifestanti, di tutti i ceti sociali, sono scesi nelle strade del Paese e con una voce sola hanno gridato: "Le persone chiedono la caduta del regime". Anche se le richieste erano cristalline - "posti di lavoro, libertà e dignità" - l'attuale governo di coalizione, formato da Ennahda dopo le elezioni di ottobre del 2011, è stato praticamente paralizzato. Queste istanze sono state vigorosamente supportate dall’attuale leadership durante i giorni della campagna elettorale. Oggi il "governo legittimo" sta lavorando giorno e notte per negarle.
Decaduta sotto Ben Ali e ancora ai margini due anni dopo la rivolta popolare, Siliana, circa 120 chilometri a sud di Tunisi, è stata testimone mercoledì di una seconda giornata di scontri tra gli abitanti della città e le forze di polizia, che ha causato oltre 200 feriti. Proteste simili hanno avuto luogo in diverse parti della Tunisia, in particolare nelle regioni interne. L'obiettivo è ricordare al governo le priorità del popolo e la frustrazione per i lenti miglioramenti nello sviluppo e nella prosperità economica. L'atteggiamento ostile delle autorità nei confronti delle manifestazioni ha quindi incrementato la sfiducia del popolo in una possibile "rinascita" sociale.
Il giro di vite sui manifestanti non ha scoraggiato il popolo di Siliana a protestare per il terzo giorno consecutivo, per chiedere le dimissioni del governatore, la liberazione dei detenuti arrestati ad aprile, e l'attuazione di progetti che potrebbero dare impulso allo sviluppo della regione. I sindacati hanno invitato a manifestare e gli abitanti di Siliana hanno aderito in massa. Secondo i medici dell'ospedale di Siliana, diciannove persone sono rimaste parzialmente o totalmente accecate durante gli scontri con la polizia.
Quello che la classe dirigente non sembra capire è che la loro risposta violenta alle istanze sociali rinforzerà ancora di più la determinazione da parte del popolo a reclamare la rivoluzione perduta. Si è spesso pensato che l'eredità di Ben Ali fosse finita, ma è palesemente vero il contrario. Un attento esame della retorica dei capi della coalizione di governo rivela che lo stesso tono minaccioso è ancora vibrante. "Il governatore di Siliana è qui per restare", ha affermato il primo ministro della Tunisia Hamadi Jebali in un'intervista radiofonica. Per giustificare i loro fallimenti, i funzionari del governo hanno spesso puntato il dito contro le macchinazioni cospirazioniste orchestrate da alcuni elementi "controrivoluzionari".
Solo pochi mesi fa, ad agosto 2012, Sidi Bouzid, il luogo di nascita della cosiddetta "primavera araba", è stato teatro di violenti scontri tra le forze di sicurezza e alcune persone impegnate in un sit-in per chiedere il miglioramento della qualità di vita. Ancora una volta, gas lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati la risposta per affrontare la frustrazione della gente. Il ministro dell'Interno Ali Laarayedh ha accusato i partiti politici e l'opposizione di manipolare le masse. Il semplice fatto che le persone esercitino il proprio diritto di protesta è stato percepito ancora una volta con sospetto, come un complotto orchestrato. L'esclusione dal processo decisionale, la povertà e l’alto tasso di disoccupazione sono state tra le principali forze trainanti che hanno portato le masse in piazza contro Ben Ali: ora vivono ancora in condizioni simili, e continuano a chiedere giustizia sociale.
La coalizione di governo accusa tutti gli altri del calvario che ha afflitto la città di Siliana, e non è disposta ad assumersi le proprie responsabilità per gli scontri. La mentalità vittimista del governo è radicata nella convinzione che "noi" - il governo e i suoi sostenitori - siamo le forze della virtù, mentre "loro" sono le forze del male, che ostacolano il progresso dei rappresentanti della virtù. In una conferenza stampa tenuta giovedì, il capo dell'ufficio del partito politico Ennahda ha ironicamente giustificato l'uso delle armi contro i manifestanti per proteggere le strutture pubbliche e ha notato che le munizioni utilizzate sono state importate da Paesi democratici. Il fatto di usare armi fatte in Paesi democratici, come l'Italia o gli Stati Uniti, legittima la repressione delle proteste che reclamano la giustizia sociale?
L'immagine negativa della brutalità della polizia è ancora vibrante nella mente e nel cuore dei tunisini. Purtroppo, la riforma delle forze di sicurezza sembra muoversi al rallentatore, come tutto il resto in questo Paese. Violazioni dei diritti umani e abusi durante le proteste e nelle carceri si verificano ancora in Tunisia, mentre il governo chiude un occhio.
Recentemente, la World Bank e l’African Development Bank hanno entrambe annunciato prestiti consistenti per supportare la Tunisia, inclusi aiuti anche per le regioni svantaggiate. Il prestito della World Bank è di 500 milioni dollari e il prestito della African Development Bank è di 387.6 milioni di dollari. L'aiuto estero riuscirà a promuovere la stabilità economica e allo stesso tempo la prosperità di un Paese che lotta per raggiungere la libertà e l'uguaglianza sociale?
In passato, Ben Ali e il suo clan calcolarono male la volontà e la forza del popolo di plasmare il proprio destino. Che cosa succederà in futuro è possibile prevederlo, il recente passato ci serve da guida. Il regime di Ben Ali ha fatto affidamento sulle forze di polizia e sulla violenza per aggrapparsi al potere, il popolo ha invocato mezzi non violenti di protesta per reclamare diritti. La pazienza dei tunisini finirà per esaurirsi, non tollereranno il ritorno delle pratiche del regime che hanno rovesciato da due anni. Hanno abbattuto il muro di paura che li aveva privati a lungo della loro dignità di esseri umani.
* Meriem Dhaouadi è una blogger e attivista tunisina, laureanda in Lingua e Civiltà presso l'Università di Tunisi. Scrive per opendemocracy.net. e Nawaatun blog tunisino nato nel 2004 che ha coperto i recenti disordini e la rivoluzione nel Paese, presto trasformatosi in un motore di informazione senza censura importantissimo per tutto il nord-Africa. Nel 2011, Nawaat ha vinto tre importanti premi: The Reporters Without Borders Netizen Prize, The Index on Censorship Award, The Eff 2011 Pioneer Award. Ha inoltre rifiutato il premio Arab eContent Award 2011, in segno di protesta per la censura nel Bahrein e l'arresto di centinaia di attivisti e blogger. Tra i fondatori di Nawaat c'è Sami Ben Gharbia, un blogger e attivista tunisino, co-fondatore anche di Tunileaks. Foreign Policy lo ha indicato tra i 100 pensatori più influenti nel mondo per il 2011.

domenica 2 dicembre 2012

Tunisia - Al grido di “Dégage” riprendono le contestazioni al governo


Dopo tre giorni di manifestazioni e di violentissimi scontri a Siliana, nell’ovest della Tunisia, le proteste si sono estese in numerose altre città del Paese. Anche oggi ci sono state manifestazioni in tutto il paese nelle città di Kassarine, El Kef dove ci sono stati scontri tra manifestanti e polizia. Nella capitale ieri ed oggi manifestazioni di protesta. Mentre a Siliana continua la protesta 

Tunisi 30 novembre 2012
Oggi anche a Tunisi si è svolta una manifestazione di solidarietà agli abitanti di Siliana che richiedono più diritti, lavoro e libertà, oltre che le dimissioni del Governatore locale, nipote del primo ministro Jebali, entrambi esponenti del partito islamico Ennadha. Il Governatore di Siliana viene considerato illegittimo dai manifestanti in quanto non eletto dalla popolazione ma designato direttamente dal governo, dato che in nessuna regione della Tunisia si sono svolte ancora elezioni amministrative.
In tutte le delegazioni del governatorato di Siliana negli ultimi tre giorni migliaia di persone hanno partecipato allo sciopero generale indetto dal sindacato Ugtt. Ieri nel corso della manifestazioni migliaia di giovani, studenti e disoccupati sono stati dispersi dalle forze dell’ordine che hanno sparato, oltre che lacrimogeni e proiettili di gomma, anche proiettili di piombo con fucili da caccia(Rach) provocando oltre 200 feriti, anche gravi, di cui circa 20 rischiano di perdere la vista.
La manifestazione a Tunisi, indetta dagli studenti,è partita dal centro della città e si è diretta di fronte al Ministero dell’Interno, interamente circondato da mezzi blindati e filo spinato, piazzato nel corso della notte dai militari.
Una giovane donna spiega i motivi della protesta: "non si può accettare la repressione contro chi protesta per i propri diritti come a Siliana. Noi non torneremo indietro"

Dopo diverse ore di fronteggiamento tra le centinaia di poliziotti che presidiavano il palazzo e i manifestanti, sono partite delle violente cariche chesono sfociate in una vera e propria caccia all’uomo nelle vie che costeggiano l’arteria principale del centro di Tunisi, Avenue Bourghiba, in cui la polizia ha picchiato selvaggiamentee indiscriminatamente i manifestanti e alcuni tra i giornalisti presenti.
Nel corso della manifestazione sono stati scanditi ininterrottamente i cori che richiamano direttamente al periodo della rivoluzione, primo tra tutti il celebre ”Dégage” che è stato il simbolo della cacciata del dittatore Ben Ali, questa volta indirizzato al ministro dell’interno, diretto responsabile della violenta repressione di Siliana.
Nelle prossime ore si attende a Tunisi l’arrivo di una marcia degli abitanti di Siliana che porterà davanti ai palazzi del potere della Capitale la richiesta delle dimissioni del governo attuale, che ricalca medesime modalità del precedente regime.
Le manifestazioni di questi giorni e le drammatiche immagini dei feriti di Siliana hanno obbligato il Governo a fare un passo indietro sull’uso delle cartucce da caccia Rach.
La Rivoluzione de Gelsomini, che è stata un propulsore anche delle rivoluzioni in Egitto e in Medio Oriente si configura sempre più come incompiuta, e la transizione democratica appare ogni giorno più lontana. Ma se finora la popolazione tunisina è stata in fiduciosa attesa di un cambiamento che non c’è stato, d’ora in avanti sembra pronta a riconquistarsi il proprio futuro.

venerdì 30 novembre 2012

Congo - Dramma umanitario



Goma città fantasma. I ribelli non si ritirano. L'esercito, allo sbando, è accusato di saccheggi. E gli sfollati sono 1,6 mln.

di Michele Esposito

Un esercito regolare allo sbando, accusato di saccheggi e violenze. E una resistenza finora dimostratasi credibile ma capace, da un momento all’altro, di dar vita all’ennesima mattanza.
Lontano dai difficili negoziati di Kampala, a Goma, capitale del Nord Kivu situata nell’Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), regnano attesa e confusione.
La città, occupata dai ribelli del Movimento 23 Marzo (M23), è in stallo. Le voci di un ritiro dei ribelli si susseguono, ma sembrano ancora false. Migliaia di sfollati faticano a tornare nelle proprie case mentre diversi testimoni denunciano che le truppe regolari si sono rese colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani, accentuando quella che pare delinearsi come l’ennesima emergenza umanitaria per la tribolata ex colonia belga.
GOMA CITTÀ FANTASMA. La capitale del Nord Kivu appare ancora come una «città fantasma, dove la gente preferisce restare in casa, le attività sono solo in parte riprese e anche le scuole, nonostante gli inviti dei ribelli a riaprirle, restano in parte chiuse», ha raccontato a Letter43.it padre Piero Gavioli, direttore del centro giovanile don Bosco Ngangi che, da quando l’M23 ha preso Goma, ospita «7-8 mila sfollati». La situazione, ha sottolineato Gavioli, è comunque di «calma apparente» anche perché l’M23 si è «comportato correttamente» a dispetto dei soldati regolari che «prima di ritirarsi, hanno saccheggiato diverse abitazioni».
LE VIOLENZE DELL'ESERCITO REGOLARE. Alle parole di Gavioli fanno eco quelle di altri testimoni che, nelle città-satellite di Goma, hanno assistito alle violenze di un esercito dove disciplina e tutela dei diritti umani sembrano essere ormai una chimera.
«I soldati sono arrivati e hanno cominciato a sparare e a stuprare le nostre donne. Hanno rubato cibo e altri beni nei negozi e hanno detto che, se li avessimo denunciati, ci avrebbero ucciso», ha raccontato, restando nell’anonimato, un abitante di Minova, città a 50 km a sud di Goma dove l’esercito congolese si è ritirato.
Minova sembra essere la cartina di tornasole di un quadro militare quasi paradossale, che vede i circa 1.500 combattenti dell’M23 presentarsi come una formazione ben equipaggiata e disciplinata a fronte di un esercito congolese che, nonostante possa contare su decine di migliaia di unità, appare paranoico, pericoloso, affamato di ogni genere di beni, prossimo al collasso.
IL TIMORE DI NUOVE TRAGEDIE. L’inaffidabilità delle truppe regolari «per noi non è una novità», ha spiegato a Lettera43.it Stefano Merante, responsabile dei progetti del Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo) nell’Rdc, ricordando al tempo stesso come, nel recentissimo passato, saccheggi e violenze abbiano segnato anche la presenza dell’M23. Anche per questo, ha sottolineato Merante - in costante contatto con i tre volontari italiani operanti al don Bosco - nel centro «c’è un clima di attesa e scoramento», accentuato dal timore che la ripresa dei combattimenti si possa trasformare nell’ennesima «tragedia».

Nell'est della Repubblica del Congo oltre 1,6 milioni di sfollati

Un figlio di profughi congolesi riscalda l'acqua al campo Mugunga, fuori da Goma.(© LaPresse) Un figlio di profughi congolesi riscalda l'acqua al campo Mugunga, fuori da Goma.
Per ora, gli sfollati del don Bosco così come i profughi dei 12 campi dell’area monitorati dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), sono riusciti ad ottenere assistenza alimentare sufficiente per i prossimi giorni.
Ma se «i negoziati andranno per le lunghe come sembra, tornerà l’emergenza», ha avvertito Merante parlando di decine di bambini giunti al don Bosco in uno stato di «malnutrizione». E proprio donne e bambini, è l’allarme lanciato dal responsabile del Vis, sono le principali vittime della prolungata instabilità delle sponde occidentali del lago Kivu, teatro ormai da mesi di quella che «già si era profilata come una catastrofe umanitaria», con almeno «590 mila sfollati interni» registrati sin dalla recrudescenza delle ostilità, nella scorsa primavera.
CONDIZIONI SANITARIE DISPERATE. Famiglie spesso costrette in alloggi di fortuna, in condizioni igienico-sanitarie disperate, che, loro malgrado, hanno ulteriormente destabilizzato un’area che conta in totale 1,6 milioni di profughi. Ma «la causa umanitaria è da tempo passata in secondo piano» mentre le pattuglie dei migliaia di caschi blu della missione Monusco, da quando su Goma sventola il vessillo dell’M23, quasi non si vedono per le strade della città, segno della colpevole impotenza della più grande missione di pace delle Nazioni Unite.

Mercoledì, 28 Novembre 2012

Tratto da: Lettera 43

mercoledì 28 novembre 2012

Egitto - La rabbia del Cairo non si ferma


Piazza Tahrir si riempie di nuovo, questa volta in protesta contro il presidente Morsi. Decine di migliaia hanno affollato le strade della capitale
Fortissime anche ieri le proteste contro il giro di vite attuato da Morsi. Tre cortei nel centro della capitale sono confluiti in Piazza Tahir, ad Alessandria ci sono stati scontri con i sostenitori del Governo e a Mahalla, nel Delta, ci sono stati gravi incidenti.
Le opposizioni denunciano come il decreto del Presidente, non a caso emanato dopo essersi accreditato anche internazionalmente con la mediazione su Gaza, che accentra i poteri nelle sue mani, si configura come un golpe strisciante. Le piazze piene, soprattutto di giovani attestano come la transizione in Egitto sia un processo tutto da definire ed anche che il vento di libertà della primavera araba non ha ancora smesso di alimentare la protesta.
Tahrir, il «giorno dei milioni»
 La piazza fa il dissenso.Lo sanno bene gli attivisti egiziani. Sono le strade a formare le coscienze di chi si oppone a imposizioni autoritarie. Ed è tanto più vero dopo la manifestazioni di ieri, nella grande protesta contro il decreto presidenziale: la dichiarazione pigliatutto di Morsi che ha spaccato il paese. Tra i vicoli dei centri urbani, così come nelle campagne del Delta del Nilo, è montato il risentimento contro chi nulla concede alla piazza. Se le riforme costituzionali di Mubarak erano opposte da un timido dissenso, le decisioni del presidente «rivoluzionario» sono sottoposte al vaglio delle strade e non ci sono sconti.
Migliaia di manifestanti si sono raccolti ieri a Tahrir partendo da vari punti della città. Decine di partiti e movimenti della società civile hanno partecipato alle manifestazioni: Khaled Ali, l'unico candidato comunista alle passate elezioni presidenziali, è arrivato in piazza guidando un corteo che è partito nell'area industriale e operaia del nord del Cairo. «Pane, libertà, abbasso l'Assemblea costituente», urlavano questi attivisti. Altri più avanti gridavano: «Loro (i Fratelli musulmani, ndr) dicono che siamo una minoranza, noi facciamo la marcia dei milioni».
I giovani del movimento 6 aprile e i socialisti del Tagammu si sono incontrati nel pomeriggio intorno alla moschea Fatah, nel centro della città, per iniziare la loro marcia verso Tahrir. Sugli striscioni si leggevano dure frasi di opposizione alla dichiarazione costituzionale. I liberali si sono dati appuntamento invece nei pressi dell'università di Ayn Shamps insieme a decine di studenti. L'esponente del partito degli egiziani liberi, Mohamed al-Koumy, ha detto: «costringeremo il regime alle dimissioni, ci prepariamo ad un sit-in e allo sciopero generale». Durante la marcia verso Tahrir, è arrivata la notizia della morte di Fathy Gharib. Il sessantenne è stato ucciso dopo aver respirato gas lacrimogeni negli attacchi contro i manifestanti che hanno avuto luogo la mattina di martedì avanti al ministero dell'interno in via Sheykh Rihan al Cairo. «Morsi è Mubarak. Anche lui ordina di sparare contro la folla», ha detto Mohamed Shaaban, un avvocato che prendeva parte al corteo. Tuttavia, gli islamisti hanno negato ogni responsabilità nelle violenze. «Le forze dell'ordine - ha fatto sapere, Usama Ismail, dirigente del ministero degli interni - hanno in dotazione solo gas lacrimogeni e le direttive del ministro sono per la massima moderazione».
In piazza Tahrir, sono arrivati anche i leader laici da Amr Moussa a Mohammed el-Baradei. Hanno preso parte alle manifestazioni la quasi totalità dei giudici e dei pubblici ministeri egiziani. Mentre si teneva una riunione straordinaria del consiglio della magistratura per valutare il prossimo passo nell'opposizione al decreto. «Ha più poteri lui (Morsi, ndr) di un faraone, è una presa in giro della rivoluzione che lo ha portato al potere», ha insistito Mohammed el-Baradei. Il leader liberale ha difeso poi tutti i politici (30 su 100) che si sono ritirati dall'Assemblea costituente in segno di protesta contro il decreto Morsi. «Temiamo che i Fratelli musulmani vogliano far passare un documento che marginalizzi i diritti delle donne e delle minoranze religiose», ha accusato el-Baradei. Tra la folla di Tahrir, c'era anche il presidente della giuria del festival internazionale del cinema del Cairo, Marco Muller. L'apertura del festival è stata spostata a oggi a causa delle proteste, ma molti cineasti egiziani hanno deciso di ritirare i loro film in segno di critica verso la decisione del presidente.
Manifestazioni simili a quella del Cairo si sono svolte a Suez, Luxor, Beni Suif e nelle città del Delta. A Tanta e Mahalla ci sono stati scontri fra sostenitori dei Fratelli musulmani e oppositori di Morsi. Secondo testimoni, nel governatorato di Gharbeya un fitto lancio di bottiglie incendiarie ha reso lo scontro cruento, causando decine di feriti. Tranne alcuni giovani del movimento, sostenuti dal vicepresidente del movimento Essam el-Arian, i Fratelli musulmani non sono scesi in piazza e hanno sminuito la portata delle proteste. Ma la piazza ha fatto la sua parte e ha motivato gli egiziani a non arrendersi ad un nuovo autoritarismo.

Nuove proteste a Piazza Tahrir
Decine di migliaia di persone stanno di nuovo protestando al Cairo contro le riforme approvate il 22 novembre dal presidente egiziano Mohamed Morsi. I manifestanti, riuniti in piazza Tahrir, accusano il presidente e il suo partito, i Fratelli musulmani, di aver tradito la rivoluzione dello scorso anno.
Violente proteste erano già scoppiate il 23 novembre, riempiendo il centro della capitale egiziana. La polizia ha reagito sparando dei lacrimogeni e un uomo è morto per un attacco di cuore dopo aver respirato il gas. Il popolo contesta il decreto costituzionale di Morsi, che estende i poteri del presidente impedendo a qualsiasi tribunale di contrapporsi alle sue decisioni. Una riforma che di fatto lo sottrae al potere di controllo della magistratura.
“Non vogliamo una nuova dittatura. Il regime di Mubarak era una dittatura. Abbiamo fatto una rivoluzione per ottenere giustizia e libertà”, ha dichiarato un manifestante. Le proteste sono in corso anche ad Alessandria d’Egitto. Il resoconto della Bbc.
“Non esistono dittatori temporanei. Tutte le leggi autoritarie vengono imposte con la pretesa che siano temporanee, ma alla fine prendono il potere per sempre. Se permetti a un dittatore di sospendere la legge per un giorno, sarà un dittatore per sempre”, ha commentato lo scrittore Alaa al Aswany. Il link all’articolo completo, in arabo.

martedì 6 novembre 2012

Mali - Il prossimo Afghanistan?


di Immanuel Wallerstein
Fino a poco tempo fa ben pochi avevano sentito parlare del Mali, a parte i suoi vicini e la sua vecchia potenza coloniale (la Francia) ed ancor meno persone ne sapevano qualcosa della sua storia e della sua politica. Oggi, il nord del Mali è stato preso militarmente da gruppi "salafiti" che condividono il punto di vista di Al Qaeda e praticano le forme più dure della sharia – con lapidazioni e amputazioni come pena.
L'occupazione militare è stata condannata con voto unanime dal consiglio di sicurezza dell'ONU, che ha affermato che "costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale". La risoluzione cita "il rapido deterioramento della situazione umanitaria" e il "finanziamento sempre maggiore di elementi terroristici" e le loro "conseguenze per i paesi del Sahel e altri paesi". L'ONU ha dichiarato di essere preparata a considerare la costituzione di una "forza militare internazionale (...) per recuperare (...) le regioni occupate nel nord del  Malí".
La risoluzione è stata unanime, però non ha mosso niente. Oggi il Mali rappresenta il caso più chiaro di paralisi geopolitica. Tutti i poteri importanti e minori nella regione ed anche più in là sono genuinamente costernati; nonostante ciò nessuno pare disposto o capace di fare qualcosa per paura che fare qualcosa porti a quello che viene definito un processo di ""afghanizzazione" del Malí.
Ci sono per lo meno una dozzina di attori implicati e quasi tutti  sono divisi profondamente tra di loro.
Come è cominciato tutto questo?

venerdì 19 ottobre 2012

Africa - Europa, Usa, Cina, Ruanda: il Congo è terra di conquista


Rivoluzionario o signore della guerra? Kakule Sikula Lafontaine è l’ambiguo generale a capo del gruppo ribelle dei Mayi-Mayi nella zona settentrionale del Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo (Rdc).
È sulla breccia, pur con alterne fortune, da oltre dieci anni e già questo ne testimonia le capacità diplomatiche. Nel 2002 partecipò alla Conferenza di Sun City (Sudafrica), dove le diverse fazioni in lotta si confrontarono sul futuro della Rdc, senza tuttavia raggiungere soluzioni definitive. Oggi Lafontaine è un personaggio meno pittoresco di quando indossava (e faceva indossare ai suoi uomini) gli abiti della tradizione locale, mutuandone anche metodi di combattimento e riti d’iniziazione. Veste in grigioverde militare e la sua scorta è armata di kalashnikov.
Lafontaine e il suo gruppo si sono macchiati di nefandezze e soprusi nei confronti della popolazione del Nord Kivu: in molti, tuttavia, continuano a riporre in loro gran parte delle proprie speranze di pace, e gli incaricati dell’Onu considerano il generale un possibile strumento di stabilizzazione dell’area. Il territorio su cui si muove la banda di Lafontaine, il Nord Kivu, è popolato in prevalenza dalla tribù Nande, la stessa da cui provengono i suoi membri. È tra le regioni più ricche di risorse al mondo (qui si trovano in abbondanza oro, diamanti, coltan, cassiterite, legname e acqua), eppure i suoi abitanti vivono di mera sussistenza. La Rdc, con 400 $ annui, ha l’infausto primato del pil pro capite più basso del pianeta.
Da qualche mese il “Movimento 23 marzo” (M23) - gruppo ribelle a maggioranza tutsi, sospettato di forti contiguità con il Governo ruandese e guidato da Bosco Ntaganda, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra - ha occupato militarmente diverse zone del Nord Kivu, proponendosi come interlocutore politico e nominando un proprio gabinetto il 19 agosto. In questa fase si assiste a una temporanea quando paradossale convergenza di interessi tra l’M23 e i Mayi-Mayi di Lafontaine: entrambi i gruppi, pur con obiettivi diversissimi, vorrebbero infatti rovesciare l’attuale presidente Joseph Kabila, la cui posizione sarebbe ormai compromessa agli occhi della comunità internazionale. A fine agosto Lafontaine ha incontrato nel mezzo della foresta pluviale, nel territorio di Lubero, alcuni emissari dell’Onu, impegnati nel progetto Ddrrr (finalizzato all’individuazione, al disarmo e al rimpatrio dei combattenti stranieri sia nel Nord che nel Sud Kivu).
Di seguito l’intervista concessa al termine del colloquio con le Nazioni Unite.

lunedì 1 ottobre 2012

Sudafrica - Video messaggio in appoggio a l@s zapatistas

Eco Mondiale in Apoggio a l@s Zapatistas



Con un nuovo e poderoso video messaggio, Zodwa e Mnikelo, membri del movimento a base comunitaria più grande delSudafrica, l'Abahlali base Mjondolo (Movimento degli Abitanti delle Case di Cartone), inviano parole di speranza e solidarietà del corazón alle molte comunità zapatiste che in questo momento stanno soffrendo una feroce repressione da parte del governo del Messico, al prigioniero politico zapatista Francisco Sántiz López, alle donne zapatiste come anche a tutte le donne del mondo. Dalla sua fondazione nel 2005, il Movimento degli Abitanti delle Case di Cartone ha subito gli effetti della repressione sulla propria carne, sopportando attacchi costanti, sfollamenti forzati, arresti arbitrari, distruzione di beni e anche morti, repressione articolata da elementi del governo localeRiflettendo su queste esperienze, i nostri compagni e le nostre compagne del Sudafrica affermano che si deve andare avanti uniti/e e decisi/e verso le nostre metee che è necessario renderci conto del fatto che tutte le nostre lotte si basano in una sola, poiché la meta principale della repressione è quella di distruggere i nostri vincoli come movimenti e comunità. 
Da parte del Movimiento por Justicia del BarrioLa Otra CampañaNewYork, è una gioia poter condividere con voi questo video messaggio. Vi chiediamo di farlo volare da tutte le parti. Muchas gracias.

Per appoggiare la campaña “Eco Mundial,” e per informarsi sulla situazione:
1.    Scrivere a:
laotranuevayork@yahoo.com
2.    Date un'occhiata al sito web della campagna “Echo Mundial en Apoyo a l@s Zapatistas”:

http://sanmarcosaviles.wordpress.com/
(nel sito, c'è la traduzione in italiano - come anche in altre lingue - della maggioranza dei messaggi, delle informazioni sui fatti, del progredire della campagna, delle adesioni e proposte, ecc.)

giovedì 13 settembre 2012

Libia - Ombre sull'attacco di Bengasi


di Luca Salerno
Una fonte anonima dell'intelligence USA ha definito l'attacco "troppo cordinato e professionale per essere spontaneo". Funzionari americani ed europei ha dichiarato che mentre molti dettagli circa l'attacco sono tutt'ora poco chiari, gli assalitori sembravano organizzati, ben addestrati e pesantemente armati, e sembravano avere almeno un certo livello di pianificazione anticipata. I funzionari hanno detto che vi erano indicazioni che i membri di una fazione militante che si fa chiamare Ansar al Sharia - Sostenitori della Legge Islamica - sono state coinvolti nell'organizzazione l'attacco al Consolato degli Stati Uniti. "È raro che un RPG7 (un'arma portatile anticarro, ndr) sia presente in una protesta pacifica" hanno affermato fonti ufficiali americani. Ma i funzionari ritengono che sia troppo presto per dire se l'attacco fosse collegato all'anniversario dell'attacco alle Twin Towers, anche se questa ricostruzione sembra non convincere gli esperti.

martedì 11 settembre 2012

Egitto - La Rivoluzione è viva.

Intervista al collettivo hip hop alessandrino Revolution Records

L'autore dell'intervista è Lorenzo Fe autore di "In ogni strada. Voci di rivoluzione dal Cairo."
L'Egitto post-rivoluzionario è stretto nel braccio di ferro tra il Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf) e il movimento islamista moderato dei Fratelli Musulmani (Fm), che è riuscito a ritagliarsi sostanziali spazi di autonomia all'interno dello stato. Tramite questo conflittuale matrimonio di convenienza, l'Egitto sembra aver evitato l'Algeria, ovvero una sanguinosa guerra civile tra militari e islamisti, per avviarsi verso la Turchia, cioè un regime semi-democratico con forti tratti autoritari in cui la destra conservatrice scende a compromessi con il potere extra-elettorale delle gerarchie militari.
Il vero sconfitto della transizione è la gioventù rivoluzionaria, in particolare le sue componenti liberali o di sinistra, represse dall'intesa tra esercito e islamisti configuratasi nei mesi immediatamente successivi alle dimissioni di Mubarak. Non resta che chiedersi come, dati gli attuali rapporti di forza, la gioventù rivoluzionaria possa mantenere ed espandere gli spazi di libertà finora conquistati. Ne parliamo con Revolution Records, il collettivo di produttori e MC hip hop raccolti attorno all'omonima etichetta, esponenti di spicco del rap politico egiziano, noti soprattutto per il loro singolo Kazeboon [Bugiardi], in cui denunciano le stragi di stato perpetrate dall'esercito ai danni del movimento rivoluzionario. Hanno partecipato all'intervista Ahmed Rock, TeMraz, Czar e Rooney.
Domanda: Come vi siete avvicinati alla cultura hip hop?
Revolution Records: Eravamo semplicemente dei ragazzi appassionati di musica, all'inizio ascoltavamo pop arabo, non c'era altro a portata d'orecchio. Ma non sopportavamo che l'unico tema fossero le storie d'amore, così ci avvicinammo alla musica straniera, e arrivammo all'hip hop. Era un genere sconosciuto in Egitto, ma parlava delle lotte della vita vera, ci innamorammo del suo realismo.
D: Come nasce Revolution Records?
RR: Nel 2001 Ahmed Rock e TeMraz si incontrarono alle superiori e cominciarono a rappare. Registrarono il primo pezzo solo nel 2005 e da lì nacque l'idea di formare un collettivo di MC e produttori ribelli nell'anima. L'etichetta esordì ufficialmente nel 2006, tutto autoprodotto. Parlavamo già di politica, ma dopo la rivoluzione la libertà d'espressione è aumentata significativamente e noi abbiamo potuto urlare più forte. Ora i nostri pezzi sono in TV e siamo in grado di fare arrivare il nostro messaggio a testate locali e internazionali.

D: Come esprimevate la vostra opposizione al regime prima della rivolta del 25 Gennaio 2011?
RR: Cercavamo di motivare la gente, e di diffondere un pensiero e uno stile di vita rivoluzionari. Come molti altri egiziani, consideravamo inaccettabile il regime di Mubarak. Dovevamo alzare la testa contro l'oppressione e le canzoni erano il nostro canale per farlo, per esempio Waqt Al Thawrageya [Il tempo dei ribelli] e Mamnu' men El taghyeer [Proibito cambiare]. Ma non era facile fare delle critiche esplicite e dirette, saremmo stati arrestati.

D: Cosa avete fatto tra il 25 Gennaio e il giorno delle dimissioni di Mubarak?
RR: Siamo stati nelle piazze e nelle strade dal primo giorno della rivoluzione, come tutta la gioventù in lotta del paese. Sentimmo che il tempo delle canzoni era finito, era ora di passare ai fatti.

D: Come giudicate la condotta di Scaf e Fm dopo le dimissioni di Mubarak?
RR: Lo Scaf ovviamente ha tentato di uccidere la rivoluzione e di proteggere i simboli del vecchio regime fin dall'inizio. Dopo Mubarak, i vari gruppi politici, e gli egiziani in generale, hanno cominciato a dividersi sulla direzione da prendere e ci sono state varie campagne diffamatorie intestine. Questo ha contribuito alla vittoria degli islamisti alle parlamentari e alle presidenziali. Gli islamisti hanno tradito la vera anima della rivoluzione, portando avanti una politica del compromesso estremo. Hanno indebolito la volontà di lottare della gente e la loro vittoria è stata una profonda ferita allo spirito della rivoluzione.

D: Il ballottaggio delle presidenziali ha visto Morsy, candidato Fm, contro Shafik, di fatto l'uomo dei militari. Ne è risultato un forte dibattito interno alla gioventù rivoluzionaria per decidere se sostenere il male minore dei Fm o opporsi indiscriminatamente a islamisti tanto quanto a esercito. Quali sono le vostre posizioni?
RR: La questione era inevitabile e decisiva, e ha creato innumerevoli divisioni interne. Gli uni sostenevano il boicottaggio delle elezioni come l'unico modo per continuare la rivoluzione, perché essendo state organizzate e influenzate dall'esercito ne sancivano la posizione dominante e perché i Fm si erano dimostrati una forza contro-rivoluzionaria. Gli altri erano a favore dell'appoggio a Morsy, perché i Fm si erano comunque schierati dalla parte dei ribelli prima delle dimissioni di Mubarak e perché la vittoria di un candidato del vecchio regime sarebbe stata la fine più rovinosa per la rivoluzione. Nemmeno noi abbiamo potuto mantenere una posizione unitaria, alcuni della RR hanno boicottato, altri hanno votato.

D: Come può la gioventù rivoluzionaria continuare la lotta per i diritti nel modo più efficace?
RR: Che piaccia o no a Scaf, Fm e rimasugli del vecchio regime, la rivoluzione è viva. Tutti coloro che si sono trovati faccia a faccia con la morte o che hanno perso dei cari non abbandoneranno mai il loro diritto alla libertà. Probabilmente la strategia migliore sarebbe quella di raccogliersi attorno a un partito o una coalizione rivoluzionaria in grado di opporsi ai partiti che cercano solo il potere per se stessi. Unità è la parola chiave per recuperare lo spirito e gli obiettivi della rivoluzione.

D: In che modo la vostra musica si inserisce in queste lotte?
RR: Manterremo viva la coscienza dei nostri diritti e la memoria della rivoluzione, dei martiri e di tutte le ingiustizie. Il nostro unico scopo è questo: la rivoluzione deve continuare finché tutti i suoi obiettivi saranno stati raggiunti.

giovedì 6 settembre 2012

Sudafrica - Manifestazione a Marikana


Circa 3.000 minatori hanno marciato in appoggio allo sciopero per richiedere aumenti salariali.
E' la prima manifestazione a Marikana da quando la polizia ha ucciso i 34 minatori.
Alcuni manifestanti hanno rotto le barricate davanti alla miniera Lonmin e poi sono tornati in corteo dopo l'intervento di alcuni rappresentanti della chiesa.
Intanto circa 50 minatori sono stati prosciolti dalle accuse per le uccisioni dello scorso mese mentre altri 220 sono ancora sotto custodia e forse dovrebbero essere rilasciati nei prossimi giorni.
Lo scorso 16 agosto la polizia aveva aperto il fuoco uccidendo 34 minatori, durante lo sciopero iniziato il 10 agosto. Alla fine del mese di agosto decine di minatori erano stati accusati di "proposito comune" nelle uccisioni, rispolverando un reato utilizzato durante l'apartheid per incarcerare gli oppositori. Il reato prevede che chi si trova coinvolto in situazioni in cui ci sono morti e feriti possa essere ritenuto comunque responsabile dell'accaduto.
La manifestazione di mercoledì è stata continuamente sorvegliata da elicotteri che hanno volteggiato sui manifestanti che sfilavano armati di bastoni. Il corteo ha sfilatao davanti alla Lonmin, l'impresa che è tra i primi estrattori al mondo di platino. La direzione ha fatto sapere che a suo avviso solo il 5% dei lavoratori ha partecipato allo sciopero.
Tra i manifestanti molti portavano cartelli con scritto  "We want 12,500 rand ($1,480; £935) - nothing else", ribadendo le richieste di aumento salariale alla base delle mobilitazioni.

venerdì 15 giugno 2012

Egitto - Oggi manifestazioni contro spettro golpe

Tensione alta. In migliaia si riverseranno in Piazza Tahrir per protestare contro l'annullamento delle elezioni legislative che puzza di colpo di stato.


A 24 ore dal voto per scegliere il nuovo capo dello stato, l'Egitto è rimpiombato nel caos politico. Intellettuali, esponenti politici ma soprattutto i Fratelli Musulmani, descrivono come una sentenza politica, se non addirittura un golpe, la decisione presa ieri dalla Corte Costituzionale di dichiarare nulle le votazioni legislative dello scorso inverno, vinte dagli islamisti. 

Secondo i massimi giudici egiziani, i partiti hanno invaso anche i seggi destinati agli indipendenti, invalidando tutto il voto e rendendo necessario sciogliere l'intera Assemblea del Popolo. 
La Giunta militare che guida la transizione politica, ha subito ripreso il controllo del potere legislativo.
E' stato uno choc per milioni di egiziani. Molti sospettano che il passo sia volto ad annullare la vittoria elettorale dei Fratelli musulmani che, peraltro, con Mohammed Morsy hanno la possibilità di conquistare anche la presidenza. 

domenica 27 maggio 2012

Egitto - L’incubo del ritorno al passato e il bel risultato socialista.


«Ora sia Fotuh a sostenerci al secondo turno» dichiara al Manifesto, Mohammed Mursi, leader del partito dei Fratelli musulmani e vincitore del primo turno delle elezioni presidenziali in Egitto. «Il suo programma non differisce dal nostro.
È il tempo dell’unità» – continua Mursi. «Daremo la vice presidenza a uno dei candidati che non ha superato il primo turno» – aggiungono i leader della fratellanza nella conferenza stampa di sabato, organizzata per dichiarare la vittoria.
Si sono chiuse da 48 ore le urne, non ci sono ancora i risultati definitivi,ma con oltre il 25% dei voti Mohammed Mursi passa al secondo turno insieme all’ex uomo di Mubarak, Ahmed Shafiq (24,8%).
Mursi è l’unico dei candidati con alle spalle la grande organizzazione di un partito (Libertà e giustizia) con un controllo capillare del territorio. In più, gli sheikh delle moschee hanno chiesto ai fedeli di votare per l’esponente della fratellanza nei sermoni del venerdì. Mentre militari entrano ed escono dai seggi, al caffè Marusa di via Port Said nel quartiere di Sayeda Zeinab si festeggia il grande risultato dell’«aquila» di Hamdin Sabbahi.
La grande sorpresa dell’Egitto del dopo rivolte sono i socialisti. Hanno conquistato nuovo spazio, nonostante la retorica nazionalista li abbia per decenni disattivati nel sistema del partito unico voluto da Nasser e dai suoi successori. Sabbahi, nasserista, ex leader di Karima (dignità), «è l’unica alternativa al populismo nazionalista e islamista», assicura Khaled. Il giovane attivista porta al braccio il simbolo di Amr Moussa. «Per un giorno di campagna elettorale mi hanno pagato 150 ghinee (circa 18 euro,ndr). Ma l’unico successo per la rivoluzione può venire da Sabbahi, che non aveva i mezzi per fare campagna elettorale». E così, il terzo posto di Sabbahi, con il 20%, sembra davvero incredibile. L’ex sindacalista ha convinto gli elettori dei grandi quartieri urbani del Cairo, Giza e Alessandria dosando elogi e critiche per riforma agraria e capitalismo di stato di Nasser. «Sabbahi era in piazza Tahrir ed è uno dei pochi candidati che, ufficiosamente, abbiamo sostenuto contro il vecchio regime» – aggiunge al manifesto Ahmed Maher di «6 Aprile».
D’altra parte, il quarto posto di Abou el-Fotuh, progressista espulso dalla fratellanza musulmana, chiarisce come sinistra secolare e islamismo riformista abbiano un nuovo spazio da organizzare nella società egiziana. Nella sede del movimento di Fotuh nel quartiere di Helmeya non si nasconde la delusione.
«Non sosterremo chi ci ha cacciato» - dichiara affranto Ahmed Samir – «Fotuh è l’uomo del progresso per giovani e poveri, ma la campagna elettorale per le strade non ha pagato». In realtà, anche l’incognita del voto salafita si è finalmente sciolta. Nessuno di el-Nour ha appoggiato Fotuh. «Mursi sarà il nostro candidato al secondo turno» – ammette Emad Ghafour, insieme ai network salafiti, incluse le gama’at al-islamiyya.
Poche le luci e tante le ombre di questo voto: «è un incubo. Ora perchi dovrei votare?» – dice Walaa, attivista dei movimenti di resistenza extraparlamentare in piazzaTahrir.
Il secondo posto di un feloul (uomo del vecchio regime), come Ahmed Shafiq, preoccupa non poco. «È vero che gli egiziani vogliono sicurezza e stabilità, ma l’elezione di Shafiq porterebbe soprattutto nuove manifestazioni» – commenta Gamal Gawad del Centro studi Al-Ahram. «Shafiq ha ottenuto l’appoggio di militari, degli ex uomini del Partito nazionale democratico e della Chiesa copta», continua l’analista. E così, come dimostrato dalla strage dello stadio di Port Said del febbraio scorso, l’ex partito di Mubarak è in grado ancora di controllare «un sistema di piccola criminalità e di voto di scambio» che attiva violenze o impone alla polizia di non intervenire per sedare incidenti.
Per queste ragioni, da deputati e intellettuali si sono immediatamente levate voci contro Ahmed Shafiq, che dovrà rispondere delle accuse di frodi elettorali.
In questo senso, il deputato liberale Amr Hamzawi ha chiesto a Mursi di dimettersi, perchè tutto il fronte delle opposizioni al vecchio regime «si unisca intorno a Sabbahi». Nonostante ciò, proprio i liberali sono i grandi sconfitti di questo voto. El-Baradei ha lasciato i paese, dichiarando l’illegittimità del nuovo presidente «in assenza della nuova Costituzione». La milionaria campagna elettorale di Amr Moussa, quinto, ha raccolto una fredda accoglienza nel popolo egiziano. Si attendono le indicazioni di voto di Fotuh e Sabbahi per capire quante possibilità abbia Ahmed Shafiq di sconfiggere Mursi al secondo turno puntando, da una parte, sul pericolo di un presidente islamista e, dall’altra, sulla promessa di un premier della Fratellanza.
È certo che in Egitto dalla gioia di andare al voto senza conoscere già il risultato si è passati in poche ore all’incubo del ritorno al passato.
Tratto da Il Manifesto

Egitto - Ha vinto la democrazia non la rivoluzione

Mohammed Morsi dei Fratelli musulmani e Ahmed Shafiq, espressione dell’ancien regime, vanno al ballottaggio di metà giugno, che potrebbe essere a tre con il nasserista Hamdeen Sabahi. Deciderà la Commissione elettorale. Rabbia e delusione tra i giovani rivoluzionari.

Il  candidato dei Fratelli musulmani Mohamed Morsi con il 25,3 per cento dei voti e il controverso esponente laico Ahmed Shafiq (l’ultimo premier dell’ex raìs-faraone Hosni Mubarak) con il 24 per cento, hanno vinto il primo turno delle elezioni  presidenziali del 23 e 24 maggio. Si sfideranno in un faccia e faccia, senza precedenti nella storia egiziana degli ultimi decenni, nel ballottaggio di metà giugno. Sfida che potrebbe essere allargata a tre, dato che il terzo classificato, il candidato nasserista e della sinistra Hamdeen Sabahi, ha ottenuto un sorprendente 22 per cento. La legge elettorale infatti prevede, se i primi due candidati conseguono un numero piu’ o meno uguale di voti, che al secondo turno venga incluso un terzo candidato. Presto si conoscerà la decisione della Commissione elettorale.

mercoledì 23 maggio 2012

Egitto alle elezioni


Oggi più di 50 milioni di egiziani si recheranno alle urne per eleggere il presidente della Repubblica. Dovrebbe essere l’ultimo passaggio del periodo di transizione iniziato il 25 gennaio del 2011, quando piazza Tahrir diventò il centro del mondo e dopo trenta anni il regime di Hosni Mubarak è finito. Tanti sono, però, i dubbi e le incertezze che ruotano attorno al voto. Riportiamo l'intervista fatta da E il mensile online sulle elezioni egiziane a Marcella Emiliani, docente di Storia e Istituzioni del Medio Oriente e di Relazioni Internazionali del Medio Oriente presso la Facoltà di Scienze Politiche a Forlì e di Sviluppo Politico del Medio Oriente presso la Facoltà di Scienze Politiche di Bologna, autrice di Medio Oriente, una storia dal 1918 al 1991 e, appena pubblicato da Laterza, la seconda parte: Medio Oriente, una storia dal 1991 a oggi.
di Cristian Elia
Cosa si aspetta dal voto? Qual’è la situazione in Egitto?
Il clima non è tranquillo. Quello che gli egiziani temono di più è che queste elezioni siano causa di violenze, di scontri tali da ‘costringere’ i militari a rimanere al potere. Il quadro politico è estremamente confuso, debole. Perché è vero che ci sono decine di partiti emersi da questo processo di democratizzazione, ma non sono partiti realmente rappresentativi, al di là della Fratellanza Musulmana sulla quale però bisogna fare un discorso molto chiaro: i sondaggi dei quotidiani egiziani parlano di una grande flessione di consenso dalle legislative a oggi. Lo slancio della repressione subita in passato da Nasser, Sadat e Mubarak, che ha garantito un voto di protesta, pare ridimensionato.
Che idea si è potuta fare dei candidati?

lunedì 21 maggio 2012

Egitto - Una guerra per l'acqua

Molti paesi africani dell'alto corso del Nilo rivendicano una spartizione più equa delle acque del fiume. Ma l'Egitto si oppone e si prepara ad affrontare una vera e propria battaglia per il controllo delle risorse idriche.


di Anna Clementi

“L’Egitto è un dono del Nilo” scriveva lo storico greco Erodoto nel V secolo a. C.. Le acque di questo fiume che percorre più di 6700 chilometri di terra africana e le periodiche inondazioni che depositano sul terreno il limo – uno strato di fango molto fertile – rappresentavano e continuano a rappresentare la linfa vitale dell’Egitto. Tuttavia oggi la costruzione di grandi opere idriche, l’intensa irrigazione, l’evaporazione, le torride estati e la crescente popolazione stanno pian piano costringendo gli egiziani a ripensare a come utilizzare le risorse idriche del Nilo. Sebbene la quota annuale destinata all’Egitto sia di 55.5 miliardi di metri cubi di acqua, secondo quanto affermato da una ricerca di Fathi Farag, un esperto egiziano delle risorse idriche, l’Egitto perde circa cinque miliardi di metri cubi a causa dell’evaporazione. Inoltre circa il 40% di quello che rimane viene sprecato a cause di perdite nelle tubature, e altri 2,5 miliardi di metri cubi vengono utilizzati per produrre elettricità.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!