Nel vertice Onu sugli Obiettivi di sviluppo del millennio, molta retorica e pochi fatti concreti: i paesi ricchi spendono ancora troppo per proteggersi da se stessi e poco per creare condizioni di pace e giustizia sociale
Si è aperto ieri presso la sede delle Nazioni unite a New York la tre giorni di verifica decennale dei passi compiuti in vista dell'attuazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio (Mdgs in inglese). Nel 2000, l'unanimità delle nazioni, riunite all'interno dell'Assemblea generale dell'Onu, aveva approvato otto obiettivi di sviluppo. L'iniziativa, ispirata da un millenarismo in positivo, aveva grandi ambizioni: non solo sconfiggere la povertà, ma assicurare la fruizione dei Diritti economici sociali e culturali a quanti ne erano esclusi.
Una prospettiva nata dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della Guerra fredda: gli Obiettivi del Millennio come risultato della «fine della storia». Un piano di lavoro su quindici anni, 2000-2015, che richiedeva da parte della nazioni ricche un impegno fissato allo 0,7% del loro Pil. Per un paio di anni, sino al fatidico 11 settembre 2001, le cose sembrarono marciare, anche perché ancora non si erano presi impegni economici precisi, anche se l'Occidente era impegnato a cancellare l'idea che esistesse un altro modello di sviluppo, oltre al suo.
Gli attentati alle Torri gemelle hanno scoperchiato il vaso di Pandora delle tensioni internazionali, e proiettato la politica estera Usa, e dei suoi alleati, su un crinale bellico che derubricava l'importanza della cooperazione internazionale allo sviluppo, e la sostituiva con la «guerra permanente globale contro il terrorismo», dispositivo neogiuridico costituente di un nuovo ordine mondiale basato sul warfare e non sul welfare. La guerra ha eroso spazi politici ed economici alla centralità degli Mdgs per tutto il periodo Bush-Blair, poi la recente crisi economico-finanziaria ha fatto il resto: i fondi a disposizione non hanno mai superato lo 0,3% del Pil dei paesi donatori, con punte di vergogna come quelle dell'Italia, attualmente allo 0,1%. La denuncia delle organizzazioni non governative internazionali impegnate nel sostegno degli Mdgs è stata subito chiara: siamo a meno della metà dei fondi promessi e di questo passo gli Obiettivi non saranno raggiunti. Oggi, è ancora peggio, se possibile, dell'inizio del secolo. I problemi sono sia quantitativi che qualitativi. Intanto, come detto, nessun paese ricco è andato oltre lo 0,3% del suo Pil, con eccezioni positive certo, come i paesi del nord Europa, ma siamo a meno della metà dei fondi previsti e non sembra che il trend cambierà. Il secondo ordine di problemi è legato alla crisi economica che pesa in maniera terribile sui paesi poveri. Se i ricchi devono dimagrire, i poveri muoiono: basta pensare all'innalzamento del prezzo dei cereali ed al fatto che solo in occasione di questa ultima crisi alimentare sono aumentati di 300 milioni le persone a rischio di morte per fame. Certo, progressi sono stati fatti, in certe aree del mondo la mortalità infantile è diminuita, ma non certo perché la cooperazione internazionale allo sviluppo si è mostrata efficace; semplicemente sono aree che hanno preso in mano il loro destino in termini di redistribuzione del reddito e delle opportunità, e non perché favorite dai flussi finanziari dai paesi ricchi.
La proposta di Dichiarazione finale di questo summit, in larga parte già condivisa, va dunque analizzata alla luce di queste evidenze internazionali, ma anche rispetto ai cambiamenti dell'ultimo anno, dovuti anche in parte alla presidenza Obama e al nuovo multilateralismo, sebbene sempre a guida Usa, che si avverte nel linguaggio utilizzato. La prima cosa che si evidenzia è la centralità attribuita alle Nazioni unite nella leadership e nel coordinamento degli Mdgs. Non è una cosa scontata, quando pensiamo che Bolton, ambasciatore Usa presso il Palazzo di vetro per conto di Bush, diceva che bisognava «ridurre» l'Onu di una decina di piani. Un altro accenno importante è quello sul rispetto delle differenze culturali, evidenziate come ricchezza e non come ostacolo per gli Obiettivi di sviluppo. Non è poco, visto lo «scontro tra civiltà» che andava di moda solo un lustro fa. Centrale, nella proposta di Dichiarazione, anche la presa d'atto del ruolo negativo dei cambiamenti climatici e della riduzione delle biodiversità e, di converso, la sottolineatura del ruolo centrale delle donne nei processi di sviluppo.
Tutto bene? Ovviamente rimangono gli ostacoli di fondo, dato che il quadro di riferimento generale (esplicito e riaffermato all'unanimità), dei paesi membri, è quello dell'economia di mercato «regolata» dagli accordi del Wto, dai prestiti della Banca mondiale e del Fmi, ritenuti centrali nell'armonizzazione del sistema degli scambi commerciali, e ai quali viene riconosciuto un ruolo positivo nel recente passato e fondamentale per i prossimi anni. Il contraltare di questa centralità inquietante è l'auspicio che «i paesi in via di sviluppo abbiano più peso nelle loro decisioni», anche se non si dice come. Ai paesi poveri, oltre agli aiuti ripromessi e ribaditi, si propone di essere «più flessibili» secondo i criteri Wto, mentre i paesi ricchi promettono di investire più capitali nel Sud del mondo e diminuire il loro dumping sulle produzioni alimentari: lo si dice da almeno dieci anni in sede Wto. Di fronte al disastro sanitario provocato dall'Aids, si contempla la possibilità di fare eccezioni mirate al regime dei Trips ma solo per quello che concerne i farmaci salvavita. Viene inoltre ribadita l'importanza dei Diritti umani e la loro universale salvaguardia. Una buona quantità di retorica onusiana, sempre importante per chi la prende seriamente, accompagnata da grandi quantità di liberismo, che deve contribuire a far girare a pieno ritmo la macchina dell'economia mondiale - sotto stress per la recente crisi «grave quanto quella del '39» -, e per ridistribuire ricchezza dall'alto ai più poveri, secondo uno schema tricle down cioè di sgocciolamento, che non ha mai funzionato, tranne che nei paesi ricchi nei momenti rampanti del capitalismo fordista. Infine, evocata dalla Dichiarazione come supporto irrinunciabile, anche se non sostitutivo, ai fondi dell'Aiuto pubblico allo sviluppo, la partnership pubblico-privato, vera e unica innovazione nelle politiche di aiuto, che vedono una progressiva «privatizzazione» di questa parte delle politiche estere dei paesi ricchi, affidate ai privati e alla loro necessità di apparire filantropici per esigenze pubblicitarie.
Per il fronte delle Ong, gli impegni internazionali verso la povertà sono invece altrettanto importanti di quelli commerciali, e non vanno subordinati agli affari. I paesi ricchi spendono troppo per proteggersi da se stessi e troppo poco per creare le condizioni per un mondo di pace.
*Presidente Terre Des Hommes