sabato 16 giugno 2012

Brasile - Rio+20 : future swap!


Rio+20, il nuovo summit delle Nazioni Unite sarà un campo di battaglia fondamentale: i killers dell'economia e le loro mani sul pianeta contro il pianeta delle genti. Qualcosa che non si può ignorare quando si parla di "uscire dalla crisi".
di Luca Tornatore
A giorni, dal 20 al 22 Giugno, si aprirà a Rio de Janeiro la conferenza ONU sullo sviluppo sostenibile, già ipotecata dall'opzione di cooperazione con le grandi corporations sul terreno della green economy, in una prospettiva che ignora del tutto le cause profonde della crisi ecologica e si appiattisce sull'ideologia della crescita economicaentro un tecno-paradigma di mercato.

Vent'anni fa, proprio a Rio, l'Earth Summit, al di là delle mancanze, dei difetti e delle insoddisfazioni, riuscì comunque a stabilire definitivamente che l'ecosistema – inteso come insieme della biodiversità e delle risorse necessarie alla vita – è “common concern of humankind”, per mezzo di trattati legalmente costrittivi.
“Concern” nel doppio senso inglese di “pre-occupazione” ed “interesse”, “common” perché come tale include tutti e ciascuno: un bene comune, nel lessico politico di oggi.
Quindi un terreno di conflitto, di riconquista, oltre che di coalizione.

Per due ordini di motivi.
In primo luogo perché la possibilità di accedere globalmente ad una vita piena e ricca di godimento (o anche semplicemente ad una vita) dipende dalla capacità dell'ecosistema di mantenere e rigenerare le condizioni necessarie alla vita stessa. E questa capacità è oggi gravemente compromessa, a causa della pressione antropica globale.
C'è quindi un legame diretto tra crisi ecologica, impatto del tecnomondo e imposizione della struttura del mercato capitalistico, con la sua razionalità di accumulazione senza limiti, come luogo obbligato di incontro dei bisogni e della loro soddisfazione.
Ne consegue che c'è anche un legame necessario tra l'uscita dalla crisi economico-finanziaria e l'uscita dalla crisi ecologica ed energetica.

In secondo luogo, perché il discorso sui “beni comuni”, sulle risorse naturali di cui stiamo parlando qui e che saranno oggetto delle discussioni a Rio+20 – il cibo, l'energia, l'acqua, la biodiversità, .. – non è perimetrabile solo nello spazio neutro della catalogazione scientifica.
Poiché l'accesso alla ”natura” è mediato da un'organizzazione sociale e tecnologica, il nostro discorso su di essa si deve incarnare nel suo rapporto vivo con l'umano.
Deve districarsi là dove la “natura” cessa di essere soggetto astratto e diviene invece relazione produttiva, organizzazione, là dove si traduce in risorse raffinate (cibo, energia, acqua potabile), nel lavoro per estrarle e distribuirle, nel lavoro per restituirle e re-istituirle intatte.
Dove, insomma entra in relazione diretta con il bios antropomorfo e sociale che “abita” la “natura” e dove, quindi, assume uno statuto giuridico ed è materia di conflitto.
Entrambe questi aspetti, la fisicità dell'ecosistema e il suo statuto giuridico, sono profondamente in gioco a Rio+20.

Il “Green Economy Report” (2011) delle nazioni unite, che è stato il documento base dei colloqui preparatori a Rio+20 e gode dell'appoggio esplicito del WTO e della Banca Mondiale, spinge fortemente per una commodification della natura, i cui “servizi” andrebbero precisamente scomposti in unità funzionali indipendenti, misurate, valutate e quindi affidate a meccanismi di mercato simili al carbon trading, mentre le tecnologie su cui viene posto l'accento includono aspetti controversi come l'incenerimento di biomasse, biocombustibili, bio- e nano-tecnologie, ecc.
Un approccio popolare anche presso la Commissione Europea, per ovvi motivi: da una parte rientra perfettamente nella allureneo-liberal e finanziaria che sta rimodellando l'Europa, dall'altra si tratta sostanzialmente di estendere a tutto l'ecosistema le stesse politiche di mercato in cui l'Europa ha molto investito in materia di cambiamenti climatici.
Non che il Report manchi di elementi di buon senso, ma a causa del suo impianto generale, la preoccupazione fondata è che la green economy escluda completamente l'approccio precedente, basato sull'analisi ed il riequilibrio dei flussi di consumo e produzione e sulla necessità di ristabilire l'eguaglianza fra nord e sud del mondo (un concetto, quest'ultimo degli assi di asimmetria, che oggi deve essere sostituito con una geopardizzazione dei diritti violati e dell'ingiustizia).
La spinta verso l'estrema mercificazione dell'ecosistema, in binomio con una visione tecnicista ed economicista, è quanto di più opposto si possa immaginare alla prospettiva aperta, ad esempio, dal governo Boliviano e dall'assemblea dei popoli di Cochabamba di una vita umana armonica con una “madre terra” poratrice di diritti costituzionali.

Un'opposizione inevitabilmente destinata ad intensificarsi, molto probabilmente proprio a partire da Rio+20.
Innanzitutto perché la qualità e la quantità di risorse naturali e benefits fondamentali per la vita sono ormai drammaticamente insufficienti per un numero enorme, e crescente, di esseri umani: una piccola minoranza riesce a malapena a mantenerle per sé a costo di spaventose disuguaglianze ed ingiustizie globali, imposte rozzamente manu militari o, in modo più raffinato ma non meno letale, per mezzo dell'asettica ma feroce mano del mercato e della finanza.
E pure all'interno di quella minoranza, l'accesso ai beni comuni è ormai frammentato, segmentato a seconda del segmento sociale di appartenenza, nell'illusione di poter segmentare anche la capacità di rigenerare la vita.
La crisi ecologica che affrontiamo è l'epigono ovvio ed inevitabile di uno sviluppo economicista bulimico e senza senso, spinto da un capitalismo, ora spavaldamente finanziario, vorace e senza prospettiva, fondato sull'ipotesi irreale e cirminalmente assurda di risorse infinite.
Dal cambiamento climatico (che coinvolge non solo la composizione chimica dell'atmosfera, ma i cicli dell'acqua, del carbonio, dell'azoto, le biomasse e il suolo) all'estinzione di biodiversità, dall'utilizzo del suolo alla progressiva ubiquità di composti tossici l'impatto del tecnomondo è indubbio e profondo, determinante della crisi crescente dei benefits diretti ed indiretti dai quali dipendono il benessere e addirittura la sopravvivenza della nostra specie (e di molte altre). La purificazione dell'aria e dell'acqua, la produzione di cibo, la de-composizione e il riciclo dei nutrienti, il flusso di risorse genetiche che proviene alla biodiversità e una rete di innumerevoli servizi “critici”: la crescente difficoltà dell'ecosistema nel provvedere tutto questo è dissimulata quasi completamente dall'immersione nel tecnomondo, a costi sempre maggiori e al prezzo aggiuntivo della più profonda ed estesa situazione di sfruttamento e di ingiustizia sociale ed economica che si sia mai conosciuta nella storia dell'umanità.
Per questo è fondamentale che la necessità di mantenere e potenziare l'equilibrio e la vitalità dell'ecosistema sia sancita per quello che è: un inter-essere, una rete che determina un legame profondo di tutti con tutti. Se non per la scelta di un'etica profonda, quanto meno perché le condizioni della vita non sono segmentabili: o esistono ovunque ed in pienezza per tutti o non si danno per nessuno mai, proprio a causa dell'estensione e dell'intensità dell'impatto antropico sul pianeta.

“Todo para todos” assume così una pienezza di significato.
E questa pienezza sarà uno dei terreni di conflitto a Rio+20, dove in gioco inevitabilmente sarà lo statuto della natura e dei beni comuni. Rozzamente: di merce o di bene comune, di mercato o di cooperazione sociale, a disposizione dello sfruttamento o portatori di diritti come “madre terra”.

Lo statuto delle risorse, ovvero la loro “biologia” (il discorso sul bios) giuridica più che fisica, ne definisce conseguentemente anche l'accesso: proprietario, privato ed esclusivo, oppure comune, libero e garantito.
In quest'ultimo caso i beni comuni e l'ecosistema diventano il terreno di una costruzione comunitaria, diventano il campo su cui rilanciare e costruire un tessuto sociale e produttivo che sfugga all'isomorfismo con il mercato in quanto struttura universale delle relazioni e dei nessi di governance.
Nel primo caso, al contrario, l'ecosistema diventa un terreno di conquista e un mezzo di dominio, esattamente per la sua ineliminabile necessità biologica: ad un tempo leva di comando per assoggettare i bisogni, determinare le relazioni, esercitare la microfisica del potere e anche merce dal cui controllo proprietario estrarre un valore inesauribile.
Una valorizzazione che si declina dalla mercificazione di beni comuni o “servizi” comuni (come l'acqua, la terra, il cibo,..) o dal trarre vantaggio privato dal funzionamento globale dell'ecosistema.

Un esempio paradigmatico è il grande fallimento delle COP di Copenhage, Cancun e Durban, in materia di cambiamento climatico proprio quando, simbolicamente, era in scadenza l'unico trattato legalmente stringente su questa materia, per quanto insoddisfacente esso fosse.
Mentre l'unico obbiettivo ormai fattibile potrebbe essere quello di mantenere l'incremento di temperatura entro i 2 gradi centigradi in questo secolo, ciò richiederebbe provvedimenti reali e drastici nel campo della produzione e dell'energia, come, ad esempio, la riduzione del 40-45% delle missioni dei paesi del “Nord” entro il 2020 rispetto ai livelli del 1992. E come l'imposizione a tutti – compresi i paesi del “Sud” – di un paradigma energetico e produttivo del tutto differente da quello fossile, esponenzialmente accumulativo e senza limiti.
Nulla di tutto ciò è apparso nelle discussioni, la decisione sulla seconda fase di Kyoto è stata rimanda al COP del 2012 senza nessun chiaro impegno di lavoro da parte di nessuno, e anche ogni accenno alla giustizia climatica e alla responsabilità degli emettitori (comprese le companies e non solo i paesi) sta sparendo dai documenti come se fosse stata scritta con l'inchiostro simpatico.
Nel frattempo, il pianeta è lanciato inesorabilmente verso un aumento della temperatura media compreso tra i 4 e i 5 gradi, probabilmente ben prima del secolo. Uno scenario insensato che contempla la distruzione di aree enormi, di ecosistemi preziosissimi per gli equilibri attuali, la probabile morte di miliardi di persone e l'esodo di centinaia di milioni. Uno scenario che non sarà circoscrivibile né dalle diplomazie, né dai cannoni, né dai future swaps, che rimescolerà le definizioni di Nord e Sud del mondo – peraltro già oggi quasi del tutto vanificate dalla realtà dei nessi materiali e dello sfruttamento.
Una violenza enorme, inimmaginabile, agita contro miliardi di persone e un intero pianeta da poche migliaia di individui, governanti, funzionari, presidenti di istituzioni diverse (FMI, WB, WTO,..), CEOs di companies o semplici killers dell'economia.
Quando, anche nel dibattito italiano ed europeo sulla crisi, si parla di sviluppo, si parla anche di ciò. Anzi, non si parla anche di ciò, insieme a molte altre cose.
Possiamo fare finta che non sia un problema all'ordine del giorno, che sia possibile continuare a disgiungere il discorso sull'ecosistema dal discorso sulla crisi e sui diritti, sul futuro e sulla vita.

A Rio l'agenzia ONU per la protezione ambientale, l'UNEP, tenterà di giocare definitivamente la carta dellagreen economy – la traduzione contemporanea dello “sviluppo sostenibile” – come unica prospettiva di uscita dalla crisi economica e ecologica, forte delle partnerships che nel decennio scorso (a partire da Rio+10) sono state strette con il gotha delle multinazionali della top 500 globale.
Scorrendo lo showcase su www.business.un.org, la preoccupazione che la “collaborazione” con lecorporations diventi invece una “incorporation”delle agenzie ONU negli interessi di mercato, appare del tutto fondata. Un numero notevole di multinazionali hanno firmato partnerships multiple con più di una agenzia ONU.
Ad esempio:
SHELL e BP sulla biodiversità e sulla minimizzazione delle minacce all'ambiente, BASF e CocaCola sull'urbanizzazione sostenibile, Allianz sul microcredito, Adecco sulla promozione dell'occupazione giovanile in Sud America, SUEZ, CocaCola e Nestlè sull'accesso all'acqua potabile, ai servizi igienici e all'energia, e molte altre.
Una galleria che ha dell'incredibile per l'arroganza con cui le companies si procurano progetti esattamente sul terreno dei loro interessi, spingendo sostanzialmente il loro business e praticando disinvolte operazioni di green- e blu-washing, mentre le agenzie ONU diventano sempre più dipendenti da questi finanziamenti truccati.
Un approccio che ha l'apice nel global compact, un accordo-quadro di dieci principi generali che promuove il “miglioramento volontario” nel mondo degli affari, firmato da Kofi Annan e la Nestlè nel 2000 e che ora include circa 7000 companies. Un ottimo allineamento di facciata ai principi dell'ONU ma senza nessun meccanismo di verifica e sanzione, fortemente criticato, peraltro, dalla Inspection Unit della stessa ONU.

Rio+20, il nuovo summit delle Nazioni Unite sarà quindi un campo di battaglia ideologico, tanto più dopo il plateale fallimento degli ultimi round dei COP, le Conferenze delle Parti, da Copenhagen nel 2009 a Durban nel 2012, in materia di cambiamenti climatici.

La riproposizione di meccanismi di accumulazione esponenziale, l'assenza di un “senso della terra” – del bene e del male, potremmo dire – non potrà offrire nessuna soluzione alla crisi ecologica, l'economia green non essendo altro, nella sua proposizione, che la continuazione dell'economia black con altri mezzi, con altri obbiettivi di predazione, con altre sorgenti di energia.
Si tratta, piuttosto, di una ancora maggiore estensione della predazione.
E, insieme, dello slittamento del paradigma di governance e dispiegamento del potere.

Non ci sta bene. Vogliamo, pretendiamo, che l'economia, la “regola della casa”, di questa casa che non è solo l'Europa ma l'intero pianeta, sia decisa a partire da un “discorso sulla casa e della casa su sé stessa”, da un'ecologia insomma, che non è altro che il riprendersi in mano tutti insieme l'unica cosa che abbiamo veramente: la vita e la possibilità di riprodurla.

Questo è il futuro che vogliamo, l'altro non ci sta bene: ci serve un future swap.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!