di Giovanni Mafodda - Tratto da Limes
Il più recente colpo basso all’ottimismo di quanti ripongono nei Bric (Brasile, Russia, India e Cina) le speranze di una reale capacità di traino dell’economia mondiale fuori dalla perdurante “grande recessione” lo ha dato nei giorni scorsi l’aggiornamento trimestrale del Fondo Monetario Internazionale sull’economia globale e la stabilità finanziaria. L'Fmi ha corretto al ribasso le tutt’altro che rosee prospettive di crescita delineate con l’analisi precedente.
Il contagio che interessa le economie emergenti è amplificato da vulnerabilità peculiari ai rispettivi paesi, come nel caso già evidenziato del Brasile; vulnerabilità date per risolte, come per incanto, dalla performance drogata dall’eccesso di liquidità che ha caratterizzato la fase più recente del sistema economico internazionale.
I numeri delle correzioni al ribasso dell'Fmi sono per l’India i più severi tra quelli relativi ai paesi emergenti. Le previsioni di crescita dell’economia del subcontinente evidenziano un ulteriore taglio dello 0,7%, al netto del quale il pil dovrebbe posizionarsi a livelli non superiori al 6,1 e 6,5% rispettivamente per l’anno in corso e per il prossimo. Un ritmo ritenuto dai commentatori e da molti esponenti politici indiani insufficiente a far procedere su un reale percorso di crescita diffusa un paese di 1,2 miliardi di abitanti.
Nel 1991 la “rivoluzione economica” di Manmohan Singh, attuale primo ministro e da qualche settimana anche ministro delle Finanze, ha liberato l’India da molte delle pastoie del “license Raj”, un sistema improntato all’esempio dalle economie pianificate che sottoponeva, frustrandolo, ogni tentativo di esercizio imprenditoriale ad un complicatissimo ed imponente apparato di permessi, regole e licenze. La ricetta di Singh ha quadruplicato da allora la taglia dell’economia indiana, assicurando ritmi di crescita media annua superiori al 7%, con picchi del 9% nel biennio 2007/2009 e accumulando tra il 2007 ed il 2012 un incremento del 43% del pil secondo solo alla Cina (56%). Essa sembra però non bastare più ad assicurare ritmi di crescita sostenuti.
Le chiavi del miracolo indiano? Imponente base di consumo interno, politiche di produzione basate sull’outsourcing da parte dei paesi più avanzati, disponbilità liquide senza precedenti che hanno creato rilevanti flussi di investimento, corsi di valutazione della rupia molto bassi (essenziali a motivare il decollo dei flussi di export), rimesse degli emigranti a livelli record (oltre 20 miliardi di dollari all’anno) e non ultimo un sistema di controlli finanziari ben strutturato che ha risparmiato a Delhi tanto la crisi asiatica del ‘97/’98 che quella del 2008. L’ascesa dell’India appariva così inarrestabile che, in occasione dell’annuale forum di Davos, un rappresentante del paese ebbe a dichiarare: “l’India crescerebbe anche dormendo”. Non sembra, però, stia andando esattamente così.
La componente della crescita indiana legata a condizioni e contestualità esterne, verrebbe da dire “fortunose”, ha evidentemente avuto un peso ben maggiore di quanto si pensasse - tanto da indurre in errore il governo che nel suo ultimo piano quinquennale aveva previsto il tasso di crescita al 9% nel periodo tra il 2012 ed il 2017. All’inizio di quest’anno, in occasione del suo indirizzo alla nazione, il primo ministro Singh - a fronte di una crescita che a stento tocca il 6% - è stato costretto a precisare che “sarebbe errato concludere che l’India si trova stabilmente posizionata su un sentiero di rapida crescita”. I fattori che agiscono da freno alla crescita non solo economica dell’India riemergono ora in tutta la loro evidenza, al ritrarsi della “marea” dell’abbondanza di “credito facile” che ha caratterizzato il mondo post-guerra fredda. Si tratta di problemi tutt’altro che nuovi nel panorama socio-economico del paese, lasciati quasi intatti a dispetto del lungo periodo di crescita tumultuosa: un deficit pubblico crescente, una posizione internazionale debole, l’estrema povertà delle infrastrutture - anche di quelle più elementari - alti livelli degli indici che identificano il dilagare della corruzione.
Il deficit pubblico dell’India, tra il 9 ed il10% del pil (includendo anche quello dei singoli Stati), ha iniziato a crescere a partire dagli interventi anticiclici varati dal governo dal 2008. Il debito pubblico, pari a circa il 70% del pil e denominato in rupie, è interamente finanziato sul mercato interno con acquisti di banche per lo più di proprietà statale. Nessun problema in termini di capacità di ripagamento degli interessi, ma è indubbio che il sistema creditizio sia in difficoltà a far fronte alle richieste di finanziamento delle aziende indiane, che sono, pertanto, costrette a finanziarsi anche sui mercati internazionali esponendosi al rischio aggiuntivo del cambio.
Sui mercati degli scambi internazionali i segni di sofferenza sono sempre più chiari.
A causa della crisi che ha seriamente colpito molti dei suoi tradizionali partner commerciali, l’India ha un deficit delle partite correnti che viaggia verso la soglia del 4% del pil, tra i più alti nel gruppo dei paesi del G-20. Evidente in questo stato di cose la sostanziale “complicità” di un sistema politico che sembra resistere alle istanze di modernizzazione e che, per lo più, insiste su politiche di spesa pubblica che si mostrano poco efficaci. Esso utilizza modalità tipiche degli interventi di sussidio o serve il solito circuito chiuso di interessi che cinge il governo della cosa pubblica, a vantaggio di una élite politica ed economica che moltissimi analisti indiani definiscono particolarmente statica e chiusa in sè stessa. Patrick French, nel suo India: A portrait del 2010, osserva che tutti i componenti della Camera bassa del parlamento indiano sotto i trenta anni rientrano tra i cosidetti “deputati ereditari”: sono figli o comunque parenti di parlamentari.
Secondo la classifica stilata annualmente dal settimanale Forbes, dei dieci “top” miliardari indiani, ben 9 apparivano in graduatoria già nel 2006. Una sostanziale mancanza di ricambio che non si verifica negli altri paesi emergenti. Al di là di una pur vivacissima base di piccole e medie imprese, le aziende di Stato continuano a dominare la scena economica del paese e, come osservato qualche tempo fa da Satyajit Das, analista per l’India di Economonitor, “contrariamente a quanto appare dall’idea di India che viene coltivata dalle élites straniere, sul fronte dell’innovazione il paese rimane debole rispetto ai leader di mercato internazionali”.
Un altro aspetto problematico, già riscontrato nell'esperienza di altri paesi emergenti come ad esempio la Russia, risiede nel fatto che le stesse aziende indiane che negli scorsi anni hanno piazzato importanti performance di inserimento diretto sui mercati internazionali continuano ad essere molto timidequando si tratta di investire in patria.
Arvind Subramanian, che pronostica per questo decennio un tasso di crescita dell’India attorno all’attuale 6-7%, interrogandosi sulle reali capacità economiche di Delhi ha recentemente affermato che la domanda “non è come mai la crescita dell’India stia rallentando, quanto piuttosto perchè la crescita sia stata così alta negli anni che hanno preceduto la crisi”.