Alla conferenza di Londra sull’Afghanistan si discute di pace e di negoziati con i talebani, ma intanto si continua a fare la guerra e a preparare nuove offensive
di Enrico Piovesana
Mentre a Londra si aprivano i lavori della conferenza internazionale sull'Afghanistan - in cui per la prima volta si discuterà di trattative con i talebani - a Kabul un giovane imam, Mohammad Yunus, 36 anni, moriva al volante della sua auto, crivellata dai colpi di mitra sparati da un soldato statunitense dalla torretta del suo blindato, che evidentemente temeva fosse un kamikaze.
L'ennesimo "incidente", che ha immediatamente scatenato una rabbiosa protesta popolare davanti alla base militare Usa di Camp Phoenix. "Ci dispiace molto, ma sono cose che capitano. La famiglia sarà risarcita", è stato il commento ufficiale del comando Nato - che intanto prepara una nuova grande offensiva militare nella provincia meridionale di Helmand per "liberare" dai talebani il distretto di Garmsir: lo stesso dove pochi giorni fa l'esercito afgano aveva sparato sulla folla che protestava contro i violenti rastrellamenti dei marines nei villaggi della zona.
La contraddizione della conferenza di Londra sta tutta qui. Nella capitale britannica, gli Stati Uniti e i loro alleati si dicono pronti a negoziare con il nemico per trovare una soluzione politica al conflitto afgano. Ma in Afghanistan continuano a fare la guerra uccidendo indistintamente talebani e civili, anzi, pianificano un'escalation militare che farà del 2010 l'anno più sanguinoso dall'inizio del conflitto e che, secondo la logica del bastone e della carota, dovrebbe indebolire il nemico fino a costringerlo ad accettare la trattativa. Insomma: o ti arrendi o ti uccido: "Con chi non rinuncia alla violenza - ha spiegato il premier britannico, Gordon Brown - l'unica scelta è la soluzione militare".
Karzai ha annunciato di voler convocare una Loya Jirga (il tradizionale gran consiglio afgano cui partecipano tutti i leader tribali, religiosi, politici e militari del paese) alla quale verranno invitati i leader talebani per avviare un processo di pace, e ha presentato il suo "piano per la riconciliazione nazionale" che consiste in un fondo da almeno mezzo miliardo di dollari (da finanziare con fondi pubblici dei governi occidentali) con i quali "reintegrare" nella società i combattenti talebani comprando la loro resa. Ma il presidente afgano ha anche chiesto che alle truppe straniere di rimanere in Afghanistan "per cinque-dieci anni", fino a quando l'esercito afgano non sarà in grado di sbrigarsela da solo.
Clinton: "Nessuna exit strategy". L'altra parola d'ordine della conferenza di Londra, oltre a "riconciliazione" e "reintegrazione", è stata infatti "transizione", ovvero il graduale passaggio del testimone dalle truppe straniere alle forze afgane, a cui verrà progressivamente affidato il compito di combattere la resistenza armata talebana per conto e con la supervisione dell'Occidente. Un processo lungo e difficile, che implica la continuazione dell'occupazione militare molti anni a venire e che, anche dopo, presuppone una sorta di protettorato militare straniero sul paese. "Deve essere chiaro che la transizione non è un'exit strategy", ha tenuto a sottolineare il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Insomma, nessun disimpegno, nessun ritiro.
La risposta dei talebani. “E’ causa di grande dispiacere per noi vedere che gli invasori guidati dagli Usa continuano a seguire un approccio militare alla questione afgana”, si legge in un comunicato diffuso oggi dal Consiglio Supremo dei talebani. “Se vogliono risparmiare ulteriori perdite umane e finanziarie, gli invasori non devono perdere tempo a ingannare il loro popolo con piani e strategie illusorie, continuando a causare ulteriori sofferenze e problemi al nostro popolo. Devono accettare il completo ritiro delle loro forze dal nostro paese e liberare i detenuti dalle prigioni in Afghanistan, in Pakistan, a Guantanamo e altrove. (…) Il nemico non riuscirà a indebolirci con trucchi e stratagemmi. Già in passato hanno offerto denaro, lavoro e comodità ai mujaheddin che avessero abbandonato il jihad. Ma si sbagliano se pensano che essi abbiano imbracciato le armi per avere denaro e potere. Se i mujaheddin fossero mossi da obiettivi materiali, avrebbero accettato subito il dominio degli invasori, ottenendo una bella vita, denaro e potere. Ma l’Emirato Islamico non baratterà mai la nostra fede, la nostra coscienza, la nostra terra, il nostro pese per dei benefici materiali”
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