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mercoledì 30 maggio 2012

Siria - Al collasso: condanna Onu, Annan a Damasco


Nuove violenze in Siria dopo la dura condanna del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro il regime di Bashar al-Assad, ritenuto colpevole della strage di Houla di venerdì notte dove hanno perso la vita oltre 100 persone. Kofi Annan, inviato speciale di ONU e Lega Araba, è in viaggio verso Damasco, dove è atteso per oggi.
Attacco delle forze governative nella città di Hama
Sarebbero almeno trenta le vittime dell’attacco di ieri alla città di Hama in Siria: secondo fonti dell’opposizione siriana i tank dell’esercito governativo avrebbero attaccato alcuni quartieri residenziali considerati base dei ribelli. In mattinata è partito il lancio di missili, dopo una serie di attacchi contro l’esercito da parte di gruppi armati di opposizione al regime di Bashar.
Scontri che seguono alla dura dichiarazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il cui intervento è considerato dai ribelli ancora troppo blando. Alle opposizioni, in particolare, non piace la missione di osservatori di ONU e Lega Araba, “fallimentare perché incapace di prevenire le violenze”. “La delegazione di osservatori è inutile e non ha preso alcuna iniziativa, tranne quella di contare le vittime il giorno dopo un massacro, esattamente come accadeva a Sarajevo e Srebrenica in Bosnia”, si legge in una dichiarazione del Consiglio Rivoluzionario.
Il Consiglio di Sicurezza ONU contro i massacri in Siria. La risposta di Damasco
Ieri il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha duramente condannato l’utilizzo da parte del governo siriano di artiglieria pesante contro la popolazione della città di Houla: venerdì notte l’attacco ha provocato la morte di almeno 108 persone (tra cui 49 minori) e il ferimento di altre 300.
Nella dichiarazione, sottoscritta anche dalla Russia, la più fedele alleata di Bashar, l’ONU dichiara che le morti sono il risultato di “attacchi che hanno coinvolto l’artiglieria governativa in quartieri residenziali” e chiede al presidente Assad di abbandonare l’utilizzo di armi pesanti in aree popolate – secondo quanto previsto dal piano in sei punti che Kofi Annan aveva fatto firmare a Damasco a marzo.

mercoledì 11 aprile 2012

Bahrain - La folle corsa

di Ivan Grozny

Era il 14 febbraio 2011, giorno in cui la maggioranza sciita ha iniziato a protestare contro il governo sunnita, in Bahrain. Da quel giorno non c’è stata pace.
Non se ne parla molto ma ci sono stati un numero imprecisato di morti, scontri in piazza, il solito vago numero di persone scomparse nel nulla, ecc..
Questo video è solo di qualche giorno fa, ma spiega bene lo stato delle cose. Ce ne sono tantissimi come questo, in rete. Certo, molti sono di qualità scadente, altri poco nitidi, ma questo è solo un altro aspetto che ci spiega che regime è quello del Bahrain. Controlla tutto.
Reportage ce ne sono stati diversi invece, come questo che vale la pena vedere, che è postato sulle pagine di www.nena-news.globalist.it, uno dei pochi siti di informazione che si occupa ancora di Medio Oriente.
Tra qualche settimana, domenica 22 aprile, in questo Paese si svolgerà il Gran Premio di Formula 1.Bernie Ecclestone, il capo indiscusso del circus  sta svolgendo ancora in questi giorni incontri con i diplomatici del Paese per capire se ci sono rischi nell’organizzazione di questo evento. Rischi? Mi sembra esagerato, Bernie..
La popolazione ha capito che questa potrebbe essere un’opportunità per fare conoscere al mondo quanto sta accadendo da quelle parti e sta facendo di tutto per fare saltare l’appuntamento. Un ragazzino di 12 anni è morto a fine marzo di quest’anno in una di queste manifestazioni. Soffocate con il sangue. Freddato da un colpo di arma di fuoco, non da un proiettile di gomma, sparato dagli agenti sauditi per disperdere la folla. E badate, soldati sauditi.

venerdì 6 aprile 2012

Siria - Kofi Annan: subito la tregua


Conto alla rovescia per la il cessate il fuoco che entrera' in vigore il 10 aprile. Lo scetticismo e' forte ma l'inviato dell'Onu crede nelle possibilita' del suo piano per mettere fine alla crisi siriana.

 Kofi Annan incassa la dichiarazione di pieno sostegno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite e procede verso l’attuazione del suo piano in sei punti volto a dare una soluzione politica alla crisi siriana che ha fatto già 9mila morti. Ieri l’inviato speciale dell’Onu ha confermato l’arrivo a Damasco del team incaricato di preparare la missione degli osservatori dell’Onu che vigileranno sul rispetto del cessate il fuoco atteso il prossimo 10 aprile. Annan ha sottolineato che dalla Siria continuano ad arrivare notizie allarmanti di uccisioni e abusi, e per questo, ha detto, è essenziale «mettere a tacere carri armati, elicotteri, mortai, e fermare esecuzioni, torture, abusi sessuali e tutte le altre forme di violenza». Fonti delle opposizioni ieri hanno riferito ancora di decine di vittime, denunciando che l’esercito circonda ancora i centri abitati ribelli e informato inoltre di bombardamenti che avrebbero ucciso tra mercoledì e giovedì sera un centinaio di persone. Kofi Annan invece ha detto di «aver ricevuto informazioni» del ritiro «parziale» delle truppe governative da almeno tre città: Idlib, Zabadani e Daraa nel sud.

Bahrain - Repressione in pole position


La monarchia non pensa ad altro che al big event, il GP di Formula Uno tra due settimane. Nel frattempo la repressione delle proteste popolari continua e rischia di morire in carcere l'attivista dei diritti umani Abdelhadi al Khawaja.
 
di Michele Giorgio

I tabelloni pubblicitari elettronici nelle strade di Manama fanno il conto alla rovescia. «Meno 18 giorni… meno 17 giorni». Si riferiscono al big event, il Gran Premio di Formula Uno di fine aprile, fiore all’occhiello della monarchia assoluta (sunnita) di Hamad bin Isa al Khalifa.
Gran parte della popolazione fa un altro conto alla rovescia, ben più drammatico, e sgomenta si domanda quanti giorni di vita ha ancora Abdelhadi al Khawaja, il fondatore del Gulf Centre for Human Rights, condannato all’ergastolo «per aver complottato contro la monarchia», giunto al 58esimo giorno di sciopero della fame. Le sue condizioni sono critiche eppure è intenzionato a continuare la sua battaglia anche, fa sapere, a costo della vita.

Nessuna intenzione di liberarlo
«Il suo avvocato mi ha detto che è molto debole – riferisce Reem Khalifa, opinionista del quotidiano indipendente al Wasat e attivista dei diritti umani – il lungo digiuno rischia di danneggiare irreparabilmente alcuni organi vitali». Le autorità, consapevoli che al Khawaja potrebbe entrare in coma, lo hanno trasferito nella clinica del ministero dell’interno. Ma continuano a tacere e, più di tutto, non mostrano alcuna intenzione di liberare il prigioniero di coscienza. «Mio padre vuole la libertà, non ha commesso alcun crimine, ha solo denunciato la negazione di diritti fondamentali. Ci ripete che è meglio la morte che rimanere vivo in carcere», spiega da parte sua Maryam al Khawaja, la figlia dell’attivista bahranita.

giovedì 8 marzo 2012

Iran - Elezioni: la resa dei conti

Iran

di Nicola Pedde
La resa dei conti tra la Guida suprema Ali Khamenei e il presidente Mahmoud Ahmadi-Nejad si è consumata nelle urne venerdì 2 marzo.
È ancora presto per valutare l’impatto effettivo delle elezioni, e nonostante la stampa abbia già decretato la vittoria schiacciante della Guida sul presidente, è bene ricordare ancora una volta come quelle del 2 marzo scorso siano state elezioni caratterizzate essenzialmente da uno sprova di forza all’interno dell’ala conservatrice.
Le forze riformiste sono state pressoché assenti in virtù di un processo di sistematica esclusione, ma anche per il perdurare della detenzione di molti dei loro rappresentanti; ciò ha impedito di fatto una reale competizione alle urne.
I candidati di questa tornata elettorale ruotano quasi esclusivamente nell’orbita del sistema conservatore, sebbene con posizioni spesso assai divergenti. Due schieramenti si sono contrapposti in modo chiaro, con la Guida Suprema da una parte a sostegno delle forze fondamentaliste, e il presidente alla guida di quelle scissioniste dei principalisti.

sabato 18 febbraio 2012

Siria - Retata contro attivisti, arrestata ancora Razan Ghazzawi


La nota blogger siriana è al secondo arresto, dopo quello dello scorso dicembre. Presi anche il direttore del Centro siriano per i Media e per la Libertà d'espressione, Mazen Darwish, e altri dodici dissidenti politici.

di Giorgia Grifoni
Nuovo, duro colpo di Damasco alla libertà d’espressione in Siria. Ieri pomeriggio, a poche ore dal voto dell’ennesima risoluzione Onu di condanna al regime di Bashar al-Assad, le forze di intelligence siriane hanno fatto irruzione negli uffici del ‘Centro Siriano per i Media e per la Libertà d’espressione’ arrestando il suo direttore, l’attivista Mazen Darwish, assieme ad altri 13 dipendenti, tra cui la blogger Razan Ghazzawi.  L’attivista , con doppia nazionalità siriana e americana, era stata fermata circa due mesi fa al confine con la Giordania e incarcerata per due settimane.
Secondo i Comitati di coordinazione locale dell’opposizione, gli uomini dell’intelligence, coperti da forze armate operative, avrebbero assaltato gli uffici in abiti civili mentre l’esercito transennava l’area intorno all’edificio. Non ci sono ancora notizie sul luogo della loro detenzione, ma potrebbe trattarsi dei tristemente famosi centri dei servizi d’intelligence di Kafr Souseh o di Mezzeh, entrambi alla periferia di Damasco. Assieme a Darwish e alla Ghazzawi, sono stati arrestati anche i loro colleghi Rita Dayyoub, Hussein Ghazir, Hani Zeitani, Jwan Faraso, Mayana Khalil, Maha al-Sablati, Hanadi Zahlout, Sanaa Zeitani e Yara Badr, moglie di Darwish.
Razan, nota nella rete dei blogger mondiali per la sua militanza contro il regime siriano e a favore delle minoranze senza diritti del paese – siano esse curde, palestinesi o omosessuali – era stata una degli ultimi attivisti a essere presi di mira dal Governo. Nonostante fosse una delle poche a firmare i post con il suo vero nome, era stata arrestata solo lo scorso dicembre, mentre si stava recando a una conferenza sulla libertà d’espressione nel mondo arabo ad Amman. Rilasciata dopo 15 giorni, rischia dai tre ai quindici anni di carcere per aver “indebolito il sentimento nazionale”, “creato un’organizzazione che mira a cambiare lo stato sociale ed economico del Paese” e “ravvivato le dissensioni confessionali”. Prima di lei, decine di blogger erano stati arrestati dal regime: anche Darwish era stato incarcerato numerose volte, l’ultima delle quali nel marzo scorso per aver fatto un discorso pubblico contro la repressione di Assad nella città meridionale di Deraa.
Il Centro siriano per gli Studi legali, per voce di uno dei suoi avvocati Anwar Bunni, ha condannato la retata compiuta ieri nei confronti dei quattordici attivisti e ha chiesto alle autorità siriane il loro rilascio immediato. Secondo la Fondazione ‘Electronic Frontiers’, che promuove e difende la libertà di espressione sul web, gli arresti di ieri potrebbero essere  il segno dei rinnovati sforzi del governo siriano di schiacciare la dissidenza politica all’interno del Paese in un momento di forte pressione internazionale. Ma potrebbe anche trattarsi di un modo per entrare nel network degli attivisti siriani e scovarne altri, assieme al nuovo metodo di controllo degli sms tramite un software che filtra alcune parole-chiave dei dissidenti e ne blocca l’invio. In tempo di pace come in guerra, la censura siriana non dorme mai.

tratto da Nena News

martedì 26 luglio 2011

Israele - Proteste e accampamento contro il carovita


Tel Aviv - Proteste

Gli «indignados» di Tel Aviv resistono. L’accampamento di viale Rothschild non smobilita, nonostante le cariche della polizia a cavallo di sabato sera e le decine di fermi effettuati tra le oltre 20mila persone che hanno sfilato nelle vie del centro per protestare contro le «case d’oro», gli affitti stratosferici, il costo della vita insopportabile e a favore dell’aumento dei salari e di ciò che rimane dello stato sociale. Al contrario la mobilitazione si intensifica. Oggi centinaia di manifestanti hanno bloccato alcuni degli incroci stradali più trafficati a Tel Aviv e in altre città, come Haifa e Rosh Hain. Un campo di tende improvvisato è spuntato all’improvviso accanto alle Torri Azrieli mandando in tilt il traffico. Ma nessun taxista e automobilista ha protestato, il consenso alle iniziative degli indignati è ampio in tutto il paese. Tutti si sentono nella stessa barca.

lunedì 16 maggio 2011

Nakba: morti a confini Libano-Siria-Israele, scontri a Gaza, manifestazioni in Egitto e Giordania

Nena News propone le immagini girate ieri lungo le linee d'armistizio sul Golan, dove centinaia di profughi palestinesi e cittadini siriani sono entrati a Majdal Shams

Una fiammata di proteste, come non si vedeva da anni per l’anniversario della Nakba (la “catastrofe” nazionale palestinese), ha avvolto ieri i confini tra Israele, Libano e Siria, oltre ai valichi tra lo Stato ebraico e la Striscia di Gaza. Incidenti sono avvenuti anche in Giordania e ieri sera al Cairo  Il bilancio di morti oscilla tra 10 e 12. I feriti sono centinaia.
Il fatto più eclatante è avvenuto sulle Alture del Golan (territorio siriano occupato da Israele) dove centinaia di profughi palestinesi e cittadini sriiani hanno superato  di slancio le barriere sulle linee d’armistizio e sono arrivati fino al villaggio druso di Majdal Shams nel territorio controllato da Israele. I militari delo Stato ebraico sono stati colti di sorpresa ma pochi minuti dopo sono intervenuti con forza aprendo il fuoco e uccidendo almeno cinque manifestanti. Decine di feriti. Fonti ufficiali israeliane hanno riferito di feriti anche tra i soldati. Sono stati, di fatto, gli scontri più gravi dalla guerra del 1973-74 tra Israele e Siria, lungo linee armistiziali dove per oltre 30 anni la situazione è rimasta sostanzialmente calma.

mercoledì 20 aprile 2011

Siria - Il manifesto dei ragazzi di Dera'a


Leadership della Gloriosa Rivoluzione dei Giovani del 15 Marzo,
Dera'a Siria

Al popolo siriano, ai discendenti di Salih al Ali, Sultano Pasha al Atrash, Ibrahim Hananoi; a tutto il popolo libero della Siria in tutte le province siriane; a tutti i figli dell'orgogliosa tribù araba, ai fratelli curdi, e a  tutte le confessioni religiose con le quali noi condividiamo la nostra vita sulla terra di questa nazione.
Noi vi promettiamo di continuare la nostra rivoluzione fino a quando questo regime criminale che uccide i suoi figli a sangue freddo possa cadere. Noi speriamo che tutti i fratelli domani verranno alla dimostrazione e annunceranno la disobbedienza civile e il rifiuto di andare a lavorare e di raggiungerci in questa gloriosa rivoluzione e di sostenerla nelle province di Deraa, Latakia, Homs, Az Zabadani, Douma, Daria, al Kiswa, Damascus,  e nel resto delle province che si stanno rivoltando fino a che il regime cada e gli obiettivi della rivoluzione sono raggiunti, questi ultimi sono:

venerdì 1 aprile 2011

Venti di guerra - La Libia nel nostro Mediterraneo

Aggiornamento continuo di articoli, comunicati e contributi

Egitto - Divieto di sciopero e rabbia


"Nella tradizione, quando qualcuno della famiglia viene ucciso, non ci si può radere per i successivi 40 giorni e finché non viene fatta giustizia. E' dal 25 gennaio che non mi rado e sto ancora aspettando". Con queste parole Ahmad, istruttore di immersioni nel Mar Rosso,........................
 

Foto Benghazi

One two tre merci Sarkozé

di Gabriele Del Grande
Viaggio a Benghazi, 21 marzo 2011
“No all'ingresso degli stranieri”. È scritto di rosso su uno sfondo bianco con su disegnata una montagna di teschi neri sorvolata da un elicottero da guerra. È il manifesto più grande sotto il tribunale di Benghazi.

Gino Strada: “Bisognava pensarci prima. La guerra? Non si deve fare mai”

21 / 3 / 2011
L'opinione pubblica tace e le coscienze dormono, ma secondo il leader di Emergency, nonostante sia stato preso alla sprovvista, "il ..

Emergency condanna la guerra in Libia

21 / 3 / 2011
Ancora una volta i governanti hanno scelto la guerra. Oggi la guerra è "contro Gheddafi": ci viene presentata, ancora una volta, come ...

Libia - Dall’alba della Pace alla notte della Guerra. In Italia migranti nei campi di confinamento

di Fulvio Vassallo Paleologo
21 / 3 / 2011
Gli attacchi delle forze della coalizione internazionale che stanno martellando tutta la Libia rischiano di produrre effetti diversi da ...

Odissey Dawn

di Augusto Illuminati
21 / 3 / 2011
Il piccolo Satana Gheddafi, falliti incoraggiamenti e aiuti a Ben Ali e alla sua sciampista, si è dedicato con zelo feroce a soffocare la ...

  

Libia, il gran ballo degli alleati

di Christian Elia

Lega Araba, Turchia, Cina e Russia si dicono scettiche sui bombardamenti che continuano
21 / 3 / 2011
Il secondo giorno delle operazioni militari sui cieli della Libia (dibattito aperto sul nome: Odissea all'alba o Alba dell'odissea?) passa ...

Comunicato dall'isola - Lampedusani e immigrati ridotti all’esasperazione dal governo italiano

Dall’Associazione culturale ASKAVUSA di Lampedusa
21 / 3 / 2011
In questi giorni a Lampedusa stiamo assistendo al più completo fallimento politico in materia di....

Tragica ipocrisia

di Alessandra Mecozzi

Ancora una volta, con tragica ipocrisia, la retorica umanitaria viene usata per coprire una nuova guerra imposta dall’occidente contro ...

Libia - L 'angoscia di Bengasi

Le esplosioni cominciano alle prime luci dell'alba. Botti in lontananza, dalla parte ovest della città. Continui, martellanti. Fumo nero ..

 

Libia - La battaglia di Benghazi

di Gabriele Del Grande
Il prossimo da portare via è Mohamed Said Mahdi. L'hanno appena lavato. Il corpo è avvolto in un lenzuolo bianco dalla vita in giù.

Con le lotte per la democrazia, con i diritti dei migranti contro l’intervento militare

Cosa c’entrano gli attacchi aerei su mezzi terrestri con una no-fly zone? Neppure è cominciata, la no-fly zone, ed è subito attacco ...

Libia No fly no party

di Gabriele Del Grande
Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione di Benghazi. Che questa volta festeggiano davvero. È da ..

Crisi libica - Italia a rischio? Dopo tante menzogne i fatti si impongono

19 / 3 / 2011
Dal trattato di amicizia al silenzio sulle violazioni dei diritti umani, dall’emergenza sbarchi allo stravolgimento del sistema di ..

Deportazioni dai C.A.R.A. verso Mineo - Lo stravolgimento del diritto d’asilo

Mentre Benghazi è sotto le bombe di Gheddafi, l’Italia inizia le deportazioni da Bari alla Sicilia: dirtto d’asilo negato
Benghazi è sotto un attacco del Governo libico senza precedenti ed in queste ore seguiamo con attenzione le notizie che ci vengono da ...

giovedì 3 marzo 2011

One two tre merci Sarkozé


Foto Benghazidi Gabriele Del Grande
Viaggio a Benghazi, 21 marzo 2011
“No all'ingresso degli stranieri”. È scritto di rosso su uno sfondo bianco con su disegnata una montagna di teschi neri sorvolata da un elicottero da guerra. È il manifesto più grande sotto il tribunale di Benghazi. Oggi in piazza sono in migliaia e l'hanno sistemato bene in vista, perché finisca dentro l'inquadratura del cameraman di Al Jazeera, che dal terrazzo del palazzo di fronte filma i manifestanti il giorno dopo il bombardamento degli alleati. I manifestanti non vogliono l'occupazione militare, sanno bene cos'è diventato l'Iraq. Quegli stessi manifestanti però nella stessa piazza sventolano la bandiera francese cantando a squarciagola slogan sgrammaticati tipo: “One two tre, merci Sarkozé!” oppure “Shukran marra thania lil Faransa wal Britania!”. Ovvero “Un due tre, grazie Sarkozy”, e “Grazie due volte alla Francia e all'Inghilterra”. E tra la folla c'è addirittura qualcuno che pronuncia frasi impensabili fino a pochi giorni fa, del tipo: “Ringraziamo dio e gli Stati Uniti d'America!”.
Forse non piacerà ai tanti che in Italia credono giustamente alla cultura della pace e che quindi si oppongono per principio all'uso della guerra come strumento per la controversia dei conflitti internazionali. Ma queste sono le parole della piazza di Benghazi, e che ci piacciano o meno, vanno raccontate. Per capire da dove nasca questo improvviso amore per Francia, America e Gran Bretagna, basta fare una gita fuori porta. Ci accompagna Gheif sul suo fuoristrada. Parla un ottimo inglese, è tornato a Benghazi da quattro mesi, dopo il suo master in business all'università di Manchester. La località dove ci porta si chiama Jarrutha e si trova a una ventina di chilometri dal centro. È qui che hanno bombardato i francesi la notte di sabato e la mattina di domenica. La strada è paralizzata dal traffico. Centinaia di ragazzi di Benghazi sono venuti a vedere i carri armati colpiti dai missili per farsi una foto e portare a casa qualche ricordo di guerra
Quando riusciamo a farci largo tra la gente, vediamo davanti a noi un paesaggio surreale. Il fumo si leva ancora da quel che resta delle gomme dei camion. I carri armati sono aperti in due. E dei camion delle munizioni non resta che il telaio attorcigliato su se stesso dalla botta dei missili. Altrove invece le macchine e i camion sono soltanto bruciati, come da una nube di calore, ma senza segni evidenti di esplosione, né sui mezzi né sul terreno agricolo intorno, dove l'erba è ancora verde.
Lungo un'area di pochi chilometri, contiamo 26 carri armati, sette camion lanciamissili Grad, due pickup lanciarazzi, 19 camion, una batteria antiaerea, tre autocisterne, cinque autobus, 45 macchine, e un lanciamissili attrezzato di radar. Tutti esplosi e ridotti in cenere dalle fiamme. La domanda della gente è una sola: “E se fossero entrati a Benghazi?”. Sì perché erano questi i rinforzi destinati a stanare “i ratti” della rivoluzione, “casa per casa”, “vicolo per vicolo”, “senza pietà”, come gridava da giorni infuriato in televisione il colonnello Gheddafi. A sfondare le inconsistenti linee difensive dei ragazzi ci avevano provato già sabato scorso. Una battaglia urbana devastante, durata tutta la mattina e costata la vita a almeno 94 ragazzi dell'armata popolare. I segni di quella battaglia sono ancora scritti sulle facciate dei palazzi che affacciano su Sharaa Tarabulus, la strada che porta a Tripoli. I muri sono crivellati di colpi e le pareti sfondate dalle granate. Con il senno di poi, la strategia di Gheddafi era facilmente intuibile. Giocare di forza opponendo l'artiglieria pesante all'agilità dei due o tremila ragazzi dell'armata popolare. Una volta portati i carri armati e i lanciamissili in città infatti, l'aviazione francese non avrebbe potuto bombardarli, perché troppo vicini ai centri abitati. E gli squadristi dei Lijan thauriya avrebbero potuto seminare il terrore.
La prima fase del piano è stata bloccata dal bombardamento. La seconda invece sembra essere andata comunque in porto. Almeno a giudicare dalle sparatorie che abbiamo sentito nelle ultime due notti in pieno centro. Si muovono quando fa buio, arrivano in macchina a tutta velocità e sparano qualsiasi cosa si muova. Sono gli squadristi delle falangi di Gheddafi. In arabo si chiamano Lijan thauriya, che tradotto in italiano suona tipo i comitati rivoluzionari, ma che di fatto sono corpi speciali di polizia segreta che dai tempi delle riforme del 1977, con l'istituzione del governo delle masse, la Giamahiriya, sono stati incaricati prima di terrorizzare e reprimere gli oppositori, quindi di controllare il paese e di conseguenza ricoprire i ruoli che contano nei gangli del potere. Secondo fonti bene informate, nella sola città di Benghazi potrebbero contare su almeno mille persone. Le loro caserme sono state tutte distrutte e date alle fiamme dai ragazzi del movimento del 17 febbraio. Inizialmente il consiglio transitorio aveva lanciato un appello via radio in nome della riconciliazione e della pace, offrendo loro l'amnistia in cambio della dissociazione dal regime di Gheddafi.
Ma da quando i Lijan thauriya sono tornati in forze e hanno iniziato a sparare sui ragazzi della rivoluzione, ad esempio durante la battaglia di sabato scorso contro le milizie di Gheddafi, il consiglio ha deciso per le maniere forti. E allora oggi hanno lanciato loro un ultimatum. Chi non consegnerà le armi entro le prossime 24 ore sarà tratto in arresto. E insieme a loro, prima o poi, sarà arrestato anche Gheddafi. Questa è la speranza di tutti. Nessuna negoziazione. Lo ha detto in conferenza stampa anche il portavoce del consiglio nazionale transitorio, Abdelhafid Ghoga: “Con Gheddafi non si discute. Deve essere processato per ogni singola goccia del sangue che ha versato. Per rispetto dei martiri della rivoluzione, ma anche per tutti i martiri degli anni Ottanta e Novanta”.
Mentre pubblico questi pezzi, in Italia si manifesta contro la guerra in Libia, nel nome della cultura della pace. Non prendetemi per un interventista, perché non lo sono, ma il mio lavoro è raccontare quello che vedo, anche quando è diverso da quello che vorrei vedere. E la piazza di Benghazi usa parole diverse da quelle dei pacifisti italiani. Dove stia la verità non lo so. E probabilmente sono troppo vicino ai morti di Benghazi per saperlo. Ma ascoltare questa piazza credo serva a tutti, anche a chi ritiene inamovibili le proprie posizioni. Chiediamoci seriamente cosa possiamo fare, al di là del no alla guerra. Ieri a Misratah, con la città sotto assedio, la popolazione è scesa in piazza per una manifestazione. Gli hanno sparato addosso i miliziani di Gheddafi. Quaranta morti, 180 feriti e una città allo stremo, senza acqua e elettricità da una settimana. Di nuovo, chiediamoci seriamente cosa possiamo fare in queste ore. Lo dobbiamo al coraggio di questa gente

Tratto da:
http://fortresseurope.blogspot.com

mercoledì 2 marzo 2011

Gino Strada: “Bisognava pensarci prima. La guerra? Non si deve fare mai”

Libia - Tornado21 / 3 / 2011
L'opinione pubblica tace e le coscienze dormono, ma secondo il leader di Emergency, nonostante sia stato preso alla sprovvista, "il movimento arcobaleno reagirà"“La guerra è stupida e violenta. Ed è sempre una scelta, mai una necessità: rischia di diventarlo quando non si fa nulla per anni, anzi per decenni”. Gino Strada, fondatore di Emergency (che tra l’altro proprio in questi giorni sta lanciando il suo mensile E, in edicola dal 6 aprile), mentre arriva il via libera della comunità internazionale all’attacco contro la Libia e cominciano i primi bombardamenti, ribadisce il suo “no” deciso alla guerra come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, citando la Costituzione italiana.

Intervista di Wanda Marra
Che cosa pensa dell’intervento militare in Libia? Questo è quello che succede quando ci si trova davanti a situazioni lasciate incancrenire. L’unica cosa che auspico è che si arrivi in fretta a un cessate il fuoco. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu è molto ambigua nella formulazione: vanno adottate “tutte le misure necessarie per proteggere la popolazione civile”. Vuol dire tutto e niente.Dunque, lei è contrario? Assolutamente. Il mio punto di vista è sempre contro l’uso della forza, che non porta da nessuna parte.Ma allora bisogna stare a guardare mentre Gheddafi bombarda la sua popolazione? Sono un chirurgo. Non faccio il politico, il diplomatico, il capo di Stato. Non so in che modo si è cercato di convincere Gheddafi a cessare il fuoco. E poi le notizie che arrivano sono confuse e contraddittorie.Però, alcuni punti sembrano chiari: che Gheddafi è un dittatore, contro il quale c’è stata una rivolta popolare e che sta massacrando i civili, per esempio…Che Gheddafi sia un dittatore è molto chiaro. Che stia massacrando i civili è chiaro, ma impreciso: lo fa da anni, se non da decenni. E noi, come Italia, abbiamo contribuito, per esempio col rifornimento di armi. Se il principio è che bisogna intervenire dovunque non c’è democrazia, mi aspetto che qualcuno cominci i preparativi per bombardare il Bahrein. Che facciamo, potenzialmente bombardiamo tutto il pianeta? Sia chiaro, non ho nessuna simpatia per Gheddafi, ma non credo che l’uso della violenza attenui la violenza. Quanti dittatori ci sono in Africa? Bisogna bombardarli tutti? E poi: con questo ragionamento, la Spagna potrebbe decidere di bombardare la Sicilia perché c’è la mafia.Questo conflitto però viene percepito come intervento umanitario, più di quanto non sia accaduto, per esempio, con quelli in Afghanistan e in Iraq. Lei non crede che questo caso sia diverso da quelli?Ogni situazione è diversa dall’altra. I cervelli più alti del pianeta hanno una visione della politica che esclude la guerra. Voglio rifarmi a ciò che scrivono Einstein e Russell, non a ciò che dicono i Borghezio e i Calderoli. Sarkozy non mi sembra un grande genio dell’umanità. E dietro ci sono sempre interessi economici.Ma qual è la soluzione?A questo punto è molto difficile capire cosa si può fare. Si affrontano le questioni quando divengono insolubili. A questo punto che si può fare? Niente, trovarsi sotto le bombe. Non è possibile che si ragioni sempre in termini di “quanti aerei, quante truppe, quante bombe”. Invece, magari avremmo potuto smettere di fare affari con Gheddafi.Che cosa pensa della posizione italiana?Vorrei conoscerla. Frattini un paio di giorni fa ha detto che “il Colonnello non può essere cacciato”. Cosa vuol dire: che non si deve o non si può? Noi non abbiamo nessuna politica estera, come d’altra parte è stato ai tempi dell’Afghanistan e dell’Iraq.Salta agli occhi come questa guerra stia scoppiando senza una vera partecipazione emozionale. E senza nessuna mobilitazione pacifista. Per protestare contro l’intervento in Afghanistan ci furono manifestazioni oceaniche in tutto il mondo.A Roma eravamo tre milioni.E adesso dove sono quei tre milioni? Non è un dettaglio il fatto che le forze politiche che allora promuovevano le mobilitazioni, in Parlamento poi hanno votato per la continuazione della guerra. E, infatti, la sinistra radicale ha perso 3 milioni di voti.Ma al di là della politica, l’opinione pubblica tace. Questa guerra è arrivata inaspettata: se andrà avanti sicuramente ci sarà una mobilitazione per chiedere che si fermi il massacro.Inaspettata o no, il silenzio del movimento pacifista colpisce. Il movimento pacifista esiste e porta avanti le sue battaglie, da quella per la solidarietà, alla lotta contro la privatizzazione dell’acqua, al no agli esperimenti nucleari. E certamente si farà sentire per chiedere la fine del massacro.Dunque, secondo lei non c’è un addormentamento delle coscienze?Certo che c’è, e non potrebbe essere il contrario. Abbiamo un governo guidato da uno sporcaccione, e nessuno dice niente. Ha distrutto la giustizia, e nessuno dice niente. Sono anni che facciamo respingimenti e si incita all’odio e al razzismo. Non sono cose che passano come gocce d’acqua.
Tratto da:   Micromega

Emergency condanna la guerra in Libia

Emergency cielo21 / 3 / 2011
Ancora una volta i governanti hanno scelto la guerra. Oggi la guerra è "contro Gheddafi": ci viene presentata, ancora una volta, come umanitaria, inevitabile, necessaria.
 Nessuna guerra può essere umanitaria. La guerra è sempre stata distruzione di pezzi di umanità, uccisione di nostri simili. "La guerra umanitaria" è la più disgustosa menzogna per giustificare la guerra: ogni guerra è un crimine contro l'umanità.

Nessuna guerra è inevitabile. Le guerre appaiono alla fine inevitabili solo quando non si è fatto nulla per prevenirle. Se i governanti si impegnassero a costruire rapporti di rispetto, di equità, di solidarietà reciproca tra i popoli e gli Stati, se perseguissero politiche di disarmo e di dialogo, le situazioni di crisi potrebbero essere risolte escludendo il ricorso alla forza. Non è stato questo il caso della Libia: i nostri governanti, gli stessi che ora indicano la guerra come necessità, fino a poche settimane fa hanno finanziato, armato e sostenuto il dittatore Gheddafi e le sue continue violazioni dei diritti umani dei propri cittadini e dei migranti che attraversano il Paese.

Nessuna guerra è necessaria. La guerra è sempre una scelta, non una necessità. È la scelta disumana, criminosa e assurda di uccidere, che esalta la violenza, la diffonde, la amplifica. È la scelta dei peggiori tra gli esseri umani.

Ai governanti che vedono la guerra come unica risposta ai problemi del mondo, rivolgiamo di nuovo l'appello del 1955 di Bertrand Russell e Albert Einstein nel loro Manifesto:
 
«Questo dunque è il problema che vi presentiamo, netto, terribile e inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l'umanità dovrà rinunciare alla guerra?»

Come ha scritto il grande storico statunitense Howard Zinn: «Ricordo Einstein che in risposta ai tentativi di "umanizzare" le regole della guerra disse: "la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire". Questa profonda verità va ribadita continuamente: che queste parole si imprimano nelle nostre menti, che si diffondano ad altri, fino a diventare un mantra ripetuto in tutto il mondo, che il loro suono si faccia assordante e infine sommerga il rumore dei fucili, dei razzi e degli aerei».

Emergency è contro la guerra, contro tutte le guerre. Ce lo impongono la nostra esperienza, la nostra etica e la nostra cultura, la nostra umanità prima ancora che la nostra Costituzione.

Chiediamo che tacciano le armi e che si riprenda il dialogo, anche attraverso l'invio degli ispettori delle Nazioni Unite e di osservatori della comunità internazionale; chiediamo l'apertura immediata di un corridoio umanitario per portare assistenza alla popolazione libica.

Libia - Dall’alba della Pace alla notte della Guerra. In Italia migranti nei campi di confinamento

Libiadi Fulvio Vassallo Paleologo

21 / 3 / 2011
Gli attacchi delle forze della coalizione internazionale che stanno martellando tutta la Libia rischiano di produrre effetti diversi da quelli auspicati nella Risoluzione n.1973 delle Nazioni Unite, nella quale si stabiliva “un divieto su tutti i voli nello spazio aereo della Jamahiriya araba” al fine di proteggere i civili, perseguendosi dunque l’interesse di salvaguardare le popolazioni vittime dei “crimini contro l’umanità” commessi da Gheddafi e dalle sue forze, tra le quali un numero crescente di mercenari. Anche il Consiglio della Lega degli Stati arabi del 12 marzo 2011 aveva chiesto “l’istituzione di una zona di non volo sull’aviazione militare libica e di stabilire aree sicure in luoghi esposti al bombardamento come misura precauzionale che permette la protezione del popolo libico e cittadini stranieri che risiedono nella Giamahiria araba libica”.
Si corre adesso il rischio che l’intervento militare, assai tardivo, dopo settimane di divisioni causate dai divergenti interessi politici ed economici delle grandi potenze mondiali, non riesca a fermare i massacri delle truppe di Gheddafi già penetrate nelle città ribelli e adesso all’assalto di Bengasi e Misurata.
D’altra parte il massiccio attacco aereo su Tripoli, addirittura per colpire direttamente Gheddafi, sembra addirittura ingenuo, se non del tutto sconsiderato, perché legittima nuovamente il dittatore agli occhi del proprio popolo e di quegli stati africani che per lungo tempo lo hanno mantenuto alla presidenza dell’Unione Africana. Se le truppe, i velivoli e i carri armati di Gheddafi, andavano fermati e tenuti fuori dalla città, e se la zona di divieto di volo avrebbe dovuto essere imposta da settimane, il lancio di missili Tomahawk e Cruise verso Tripoli, con il prevedibile contorno di scudi umani e di vittime civili, rischia di delegittimare i ribelli e di consegnare l’intera regione ad una condizione di instabilità politica e militare che potrebbe mettere a rischio l’autodeterminazione dei popoli ed i processi democratici appena avviati in Tunisia ed in Egitto.
Occorre quindi che il Consiglio di Sicurezza ritorni ad esaminare con urgenza la situazione in Libia, e definisca in modo rigoroso il mandato delle forze militari della coalizione che devono intervenire per mettere in sicurezza le popolazioni civili delle città assediate dalle forze di Gheddafi. Infatti nella Risoluzione n.1973 si legge chiaramente che il Consiglio autorizza gli Stati membri che ne avevano fatto richiesta “a prendere tutte le misure necessarie, in deroga paragrafo 9 della risoluzione 1970 (2011), per proteggere i civili e aree popolate civili sotto la minaccia di un attacco in Giamahiria araba libica, tra cui Bengasi, pur escludendo una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma, su qualsiasi parte del territorio libico”. Misure necessarie anche “per far rispettare la conformità con il divieto di voli”, che sarebbero state poi sottoposte al controllo ed al riesame da parte dello stesso Consiglio di Sicurezza. I bombardamenti massicci su Tripoli, e non soltanto su installazioni militari o convogli di carri armati, rischiano di stravolgere il senso di quella risoluzione e di mettere la pietra tombale sulle speranze di rivoluzione civile che, come in tutti i paesi arabi, anche in Libia sembrava potersi affermare.
In questo quadro il ruolo giocato dall’Italia è risultato prima troppo vicino all’alleato Gheddafi, che non andava “disturbato” nella soluzione delle sue questioni interne, poi -anche troppo rapidamente- Berlusconi e il governo, con la rottura eclatante della Lega, si è allineato alle posizioni più aggressive delle potenze occidentali, addirittura fino al punto da configurare, nelle dichiarazioni del ministro della difesa La Russa, la possibilità di un intervento militare diretto. Varie ragioni avrebbero invece consigliato maggiore prudenza, anche nella concessione delle basi, sia per la collocazione geografica dell’Italia, che per i preesistenti rapporti con Gheddafi, con diversi accordi dal 2004 al 2009, contro i quali in Italia si sono battute sparute forze, e che oggi in tanti fanno finta di ignorare o di considerare carta straccia, salvo a ripescarne le parti che riguardano l’immigrazione, auspicando, comunque vada a finire, la ripresa dei respingimenti collettivi dei migranti verso la Libia.
Nel “Trattato di amicizia” firmato nel 2008 da Gheddafi e Berlusconi si prevedeva che “Le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite. Ed all’art. 4 si aggiungeva il principio di “non ingerenza negli affari interni”, con le previsioni che:
1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.
Il trattato è stato solo “sospeso” e non “denunciato” dall’Italia, come si sarebbe dovuto fare da anni, per i gravissimi abusi commessi dai libici ai danni dei migranti e degli oppositori politici. Nel quadro della Risoluzione dell’ONU n.1973, e della sua prima attuazione, l’atteggiamento interventista e bellicista del governo italiano, dopo i ritardi iniziali, rischia adesso di aggiungere altri danni sul piano internazionale. Ed è singolare come negli ultimi tempi siano state proprio l’Italia e la Francia i principali fornitori di armamenti in favore della Libia. Per queste ragioni l’Italia avrebbe fatto bene a mantenersi al di fuori dell’intervento militare deciso dalle Nazioni Unite, senza concedere le basi militari “a scatola chiusa”.
Nel frattempo, sul piano interno, le scelte del governo italiano, tra allarmi di “invasioni bibliche” e tentativi di nascondere l’inconsistenza del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, hanno reso insostenibile la situazione a Lampedusa, e stanno dimostrando come, di fronte ad una emergenza umanitaria, ancora una volta il governo Berlusconi sia capace soltanto di inviare reparti militari in missione di ordine pubblico e trattare la materia dei cd. sbarchi, in realtà salvataggi in alto mare, con i consunti strumenti della “lotta all’immigrazione clandestina”. Insomma una accoglienza dietro le sbarre o sotto la sorveglianza di pattuglioni di polizia in assetto antisommossa.
Occorre che il governo adotti al più presto un provvedimento che stabilisca la possibilità di rilasciare permessi di soggiorno per motivi umanitari o per protezione temporanea ex art. 20 del D.Lgs 286/98, nei confronti di coloro che stanno arrivando dalla Tunisia e che potrebbero presto arrivare anche dalla Libia. I migranti rinchiusi a Lampedusa devono essere evacuati con un ponte aereo e la loro accoglienza va praticata in tutte le regioni italiane, senza “campi di raccolta” come si annuncia quello di Mineo.
Le scelte del governo in materia di politica internazionale, e le modalità meramente repressive di “gestione” di un emergenza sbarchi, creata ad arte con il concentramento di diverse migliaia di profughi in luoghi simbolo come Lampedusa e Mineo, ormai sulla linea di un confine di guerra, stanno dimostrano come l’Italia sia governata da politici che badano solo al proprio vantaggio elettorale ed alla difesa di tutte le zone più ricche e di tutte le sacche di privilegio. Anche a costo di scatenare una “guerra tra poveri”, tra i migranti e le popolazioni delle aree più deboli del paese. Contro questa classe di governo, che si avvantaggia di una opposizione parlamentare sempre più debole, occorre costruire giorno per giorno nuove reti di solidarietà dal basso, aprire nuovi canali di comunicazione autogestiti e costruire soggetti politici che siano capaci di aggregare sui territori tutte le forze dell’opposizione sociale

Odissey Dawn

Odissey Dawndi Augusto Illuminati

21 / 3 / 2011
Il piccolo Satana Gheddafi, falliti incoraggiamenti e aiuti a Ben Ali e alla sua sciampista, si è dedicato con zelo feroce a soffocare la propria rivolta interna. La coalizione occidentale-saudita (Lega Araba ma non Unione Africana), il grande Satana, cerca ora di schiacciare o deformare l’intero e inarrestabile movimento che percorre tutto il Medio Oriente e il Nord Africa e lo fa proprio nel momento in cui la catastrofe giapponese segna i limiti del nucleare e rende preziose le risorse di gas e petrolio. Una nuova guerra coloniale (francese e inglesi, insieme ai sauditi, in primo piano, americani più defilati) è perfetta per cercare di riguadagnare il controllo, calmierare il gas russo, tener lontani dall’Africa i cinesi, svalorizzare energie alternative e biogas. Con il che abbiamo anche spiegato le riserve sull’intervento di Russia, Cina, Germania e Brasile. E l’Italia? Cornuta e mazziata, compromessa prima con Gheddafi e troppo tardi con i ribelli cirenaici, rischia di perdere tutti i vantaggi del passato collaborazionismo e di subire in prima linea l’impatto dei migranti, per esorcizzare il quale si era addivenuti ai più vergognosi accordi con il raìs di Tripoli. Non basteranno 8 miseri Tornado per risalire la china. Che poi il keynesismo militare (cioè la distruzione bellica in funzione anticiclica) sia uno strumento tradizionale per dilazionare la crisi economica è un vecchio espediente. Andiamo con ordine e ignorando i finti dilemmi in cui si macera la sinistra, al riparo della risoluzione 1973 Onu e di Napolitano, che sta surrogando un governo lacerato e ansimante. Ancor più trascurando i (n)eurodeliri di Repubblica che sogna una rivincita della Ue sul bushismo.
Non per teorizzare corsi e ricorsi storici, ma anche il primo cinquantenario dell’Unità d’Italia, marzo 1911, saldò la sua retorica celebrativa al fervore patriottico che accompagnò l’impresa libica dell’ottobre 1911. Lo sventolìo tricolore bi-partisan del 17 marzo sta sfociando in analoghe tentazioni, con il controcanto rissoso e provinciale di una Lega timorosa soltanto del prevedibile afflusso di nuovi disperati e asilanti sulle nostre coste. La Russa e Casini sembrano, in questo inopportuno centenario coloniale, la parodia dei concordanti impulsi nazionalisti e cattolici degli inizi Novecento, mentre purtroppo alla logica di conquista della Banca di Roma corrisponde oggi a rovescio il rischio di estromissione dal gioco di Unicredit, Finmeccanica ed Eni, compromessi con Gheddafi e scalzati dal vivace interventismo anglo-francese (ovvero di altri poli finanziari, della Total e di BP).
Anche lo scenario più ravvicinato suggerisce evidenti analogie. Il meccanismo è sempre quello: un tiranno (dalle origini rivoluzionarie) che controlla un’area strategica rilevante e risulta un ostacolo alle pretese economiche e geopolitiche occidentali e del blocco più conservatore dei paesi arabi (a guida saudita). Ieri Saddam, oggi Gheddafi. Per certi versi funzionò così per l’ex-comunista poi nazionalista serbo assatanato Milosevic in Jugoslavia. Si trae partito da odiose pratiche oppressive (i Kurdi, la Cirenaica, il Kosovo) e si esporta la democrazia bombardando e frammentando il paese. In tutti questi casi l’opposizione all’intervento egemonico “umanitario” ha dovuto prescindere da qualsiasi simpatia per una vittima politica, indifendibile –contro Gheddafi, anzi, i movimenti si erano scagliati quando era ben in auge alla corte di Berlusconi (o Berlusconi alla sua). Aggiungiamo qui che, se nella vicenda italiana il servilismo del Papi nazionale era particolarmente osceno (essendo il raìs libico il suggeritore del copione bunga bunga), non dimentichiamo che i “nobili” Blair e Sarkozy erano altrettanto ammanigliati e il secondo pare avesse pure ricevuto sostanziosi contributi elettorali. Che poi l’invio dei Mirages serva a rilanciare la campagna elettorale francese per il 2012 è di tutta evidenza, complementare alla sostituzione della filo-benalista Alliot-Marie con il rodato e bellicista Juppé e al recupero degli “umanitari” Kouchner e Bernard Henry-Lévy.
Come valutare allora questa guerra e il complesso degli effetti che scatena? E perché, a parte gli scontati temporeggiamenti dell’Onu, si è deciso di scatenarla con tanto ritardo rispetto al momenti in cui è apparso chiaro che la vicenda libica non seguiva lo stesso percorso di Tunisia ed Egitto, ma si invischiava in un conflitto tribale con palesi prospettive di separatismo territoriale (e pur minime tracce di fondamentalismo senussita)? La decisione di intervenire all’ultimo minuto, ammanettando quindi gli insorti sconfitti alla causa occidentale e saudita, è stato probabilmente dettata da due ordini di fattori: la presa d’atto, dopo il collasso delle centrali atomiche giapponesi, delle buie prospettive di una politica energetica nucleare, che ha rivalutato in automatico l’importanza del controllo sulle risorse di gas e petrolio, la paura per il diffondersi dei tumulti in tutto il mondo arabo, in particolare nello Yemen e ai margini dell’Arabia saudita (Bahrein, Oman), tanto più insidioso in quanto spesso sotto il segno di una rivolta sciita sostenuta dall’Iran. I bombardamenti sulla Libia suonano anche da ammonimento a Teheran e sono una boccata d’ossigeno per Israele. Che poi la no-fly zone sarebbe opportuna anche per Gaza e che bisognerebbe arrestare l’invasione saudita in Bahrein o le stragi nello Yemen resta, in termini geopolitici, un mero auspicio, ma pur sempre un’efficace replica al moralismo con cui la stampa italiana condisce la brutalità della guerra.
Il tardivo e ondivago sostegno italiano alla guerra (dall’iniziale «non disturbiamo Gheddafi» del compagno di merende Berlusconi e del suo Leporello Frattini alla successiva offerta delle soli basi agli ardori bombaroli del maestro di sci che ci ritroviamo agli Esteri e di La Russa per l’occasione in sahariana) rientrerebbe nella peggior tradizione nostrana del cambiar casacca, se non rivelasse alcune contraddizioni significative. La più vistosa è quella del rapporto fra Pdl e Lega; quest’ultima si è dissociata con argomentazioni demagogiche e odiose (ci rubano il petrolio –cosa vera– e ci riempiono di immigrati che il resto d’Europa non vuole prendersi), ma si è dissociata. Scegliendo, contro Inghilterra e Francia, una linea “tedesca”. Badate bene, non solo privilegiando un principio di precauzione sull’intervento, ma aderendo alla scelta di fondo della Merkel sulle energie alternative. La retromarcia di Tremonti sul nucleare è nettissima: se puntiamo sul sole e sul vento, è insensato combattere per il controllo del petrolio e ci risparmiamo le spese per lo smantellamento delle centrali atomiche e lo smaltimento delle scorie, correggendo così i confronti internazionali sui deficit e sui Pil. Per un Berlusconi sempre più inviso agli Usa e ormai aggrappato solo al “neutrale” Putin non è un bel segnale, sebbene il chiasso giapponese e libico e il clima emergenziale di guerra possano servire nel breve periodo a distrarre gli italiani dagli scandali di Arcore e dai processi. Sull’interventismo “legale” della sinistra sarebbe carità tacere, se non per rimarcare come il suo tardivo patriottismo “costituzionale” (ma l’art. 11?) torni a gravitare sull’asse anglo-americano più che tedesco –a differenza dalla guerre balcaniche– e non prometta alcuna unità interna del Pd. In realtà chi più si avvantaggia dell’eclettico consenso bi-partisan a doppia colonna sonora (Mameli e Nabucco) è il centro di Fini e Casini. Corsi e ricorsi storici, ancora: la guerra di Libia del 1911-12 fece confluire cattolici e nazionalisti e indusse Giolitti al patto Gentiloni per strappare un parziale consenso agli elettori cattolici...Ironie sempre della signora storia: allora il Banco di Roma, da lunga pezza colluso con il corrotto Giolitti, promosse la conquista della Libia, oggi, confluito in Unicredit, vede una bella presenza di capitale libico (e personale del clan Gheddafi) che orienterà le scelte future del governo...
Che fare? Lasciamo alle anime belle l’illusione che si tratti di un intervento mirato e di breve periodo. Questa è solo l’alba di una lunga Odissea. Occorrerò una mobilitazione antagonista di ampio respiro. Il no alla guerra coloniale e il sostegno agli insorgenti di Benghazi, Sana’a e del Bahrein, ai moti di Algeria e Marocco, agli oppressi in Palestina e alle contraddizioni tuttora aperte in Egitto e Tunisia, devono entrare organicamente nel discorso sullo sciopero generale del 6 maggio e sui referendum di giugno, così come una drastica revisione della politica delle quote e dei permessi di soggiorno, la più solidale accoglienza ai migranti (altro che blocco di Lampedusa, Cie e terrorismo leghista!), la definizione giuridica del diritto d’asilo e il blocco della deportazione degli asilanti nel villaggio di Mineo nonché un’effettiva estensione della cittadinanza secondo il diritto del suolo devono costituire parte integrante di una politica alternativa al governo attuale e a quelli futuri di centro-destra. Questi sono i contenuti del nostro tumulto, della risposta della costa nord a quanto avviene sulla costa sud-est del Mediterraneo. La cooperazione delle lotte contro l’intervento degli aerei e delle cannoniere, un modello moltitudinario contro la velleitaria riproposizione di logiche sovrane e coloniali, una via di uscita dalla crisi che non sia la spesa militare a perdere e il controllo delle fonti di energia.

Libia, il gran ballo degli alleati

LibiaLega Araba, Turchia, Cina e Russia si dicono scettiche sui bombardamenti che continuano.

di Christian Elia

21 / 3 / 2011
Il secondo giorno delle operazioni militari sui cieli della Libia (dibattito aperto sul nome: Odissea all'alba o Alba dell'odissea?) passa tra il frastuono delle bombe e nella bulimica ricerca di notizie dei media generalisti.
Prigionieri della propaganda. Misurata, per esempio. Durante l'avanzata furiosa delle truppe lealiste, nei giorni scorsi, la città libica era scomparsa dalle cronache, superata dal conto alla rovescia del cammino verso Bengasi capitale dei ribelli. Data per conquistata dagli uomini di Gheddafi, si scopre oggi che si combatte ancora, il governo di Tripoli la proclama oggi di nuovo conquistata. Una situazione spinosa, un ginepraio dove è difficile riconoscere la verità.
Un effetto immediato, e temuto, è la reazione della popolazione di Tripoli e, in generale, della Tripolitania. Migliaia di persone, armate nei depositi lasciati aperti dai militari di Gheddafi, sono in piazza, pronti a difendere il loro leader dall'invasione esterna. Un classico, da queste parti. Non sarà facile bombardare zone chiave, sapendo di colpire tutti, anche civili con un kalashnikov.
Un altro effetto delle bombe, previsto anche questo, è la sequela dei distinguo. Comincia la Lega Araba che, pur partecipando alla riunione di ieri di Parigi, oggi scopre di non aver votato proprio un bombardamento sulla città. Di cosa hanno discusso, allora? Hanno atteso che Amr Moussa, candidato presidente in Egitto e attuale segretario generale della Lega, andasse in bagno per votare? Non basta, arrivano anche gli scetticismi di Cina e Russia. Astenuti in Consiglio di Sicurezza e oggi scettici. Ma allora per quale motivo non hanno posto il veto quando si votava la risoluzione 1973?
Una risposta arriva dalla Turchia, da anni impegnata a ridisegnare il suo ruolo geopolitico, volto a diventare da uno stato satellite dell'Occidente un attore protagonista, ponte tra mondo islamico ed Europa. Il governo di Ankara, oggi, ha chiesto di rivedere le regole d'ingaggio.
Un bel problema, dopo soli due giorni di bombardamenti. Come se qualcuno si fosse illuso che una no fly zone sia un pranzo di gala. L'ammiraglio Mike Mullen, coordinatore del comando interforze Usa, annuncia oggi che i presupposti per l'imposizione della no fly zone sono stati già raggiunti. Finita, quindi? Evidentemente no, al punto che gli alleati sono un po' sorpresi. Come sono stati colti di sorpresa gli stessi statunitensi, bruciati sul tempo dal primo attacco francese.
Gheddafi minaccia e, intanto, gioca le carte da prestigiatore che lo hanno sempre caratterizzato. Annuncia fuoco e fiamme, ma mentre si nasconde proclama il cessate il fuoco unilaterale e chiede una riunione d'urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Puntando alle divisioni interne agli alleati, mettendoli in imbarazzo come sempre di fronte alla parola 'guerra' e sapendo che - come tutti gli interventi militari della guerra umanitaria - il diritto internazionale avrebbe moto da dire a riguardo.
Lo stesso presidente italiano Napolitano, oggi, ha dato il via al balletto delle definizioni imbarazzanti per non usare la parola 'guerra', come in un gioco di società. Il governo, nel dubbio, va alla guerra e i primi caccia bombardieri italiani muovono per prendere parte ai bombardamenti mentre un pezzo importante dell'esecutivo, la Lega Nord, rende la peggior immagine del provincialismo italiota preoccupandosi dei migranti e del suo elettorato.
Un natante italiano, intanto, è stato sequestrato da un gruppo di libici armati, dopo essere arrivati in Libia per un servizio di assistenza alle compagnie petrolifere. Nessuno sa dov'è, nessuno dove fa rotta e dove si dirige.
La sensazione è che la crisi non sarà di breve durata. La mancanza dell'opzione dell'attacco via terra rende i tempi lunghi. Anche annichilita la contraerea di Gheddafi e dei suoi mezzi d'assalto, la guerriglia sul terreno può durare mesi, pur sapendo che i ribelli - appena si saranno riorganizzati e magari verranno riarmati dagli alleati - proveranno a riprendere le posizioni perdute.
Christian Elia

Tratto da:    PeaceReporter

Libia - Il dramma nel dramma: i migranti africani in Libia


Deserto LibiaC’è un dramma particolare nella tragedia libica. Si svolge in silenzio, lontano dalle telecamere e dalle equazioni politiche consumate tra le cancellerie occidentali e il Consiglio di sicurezza dell’Onu. È il dramma di migliaia di migranti africani rimasti bloccati nel paese nordafricano dal crollo del regime di Gheddafi. Secondo l’emittente panaraba Al Jazeera, sono decine i migranti morti, uccisi tanto dagli oppositori del regime quanto dalle forze ancora legate al colonnello Gheddafi e al suo clan. I primi sospettano indistintamente tutti i non libici di far parte dei famigerati reparti di mercenari che sarebbero stati lanciati contro le manifestazioni anti-regime. Le forze legate a Gheddafi, invece, sparano sui migranti o li abbandonano nei campi in mezzo al deserto dove sono stati ammassati, in alcuni casi per anni, a causa del blocco costiero delle partenze verso l’Europa. Tra i migranti presi a bersaglio dalle due parti in lotta, ci sono migliaia di lavoratori impiegati in diversi settori produttivi del paese, dall’industria petrolifera alle costruzioni, abbandonati dalle aziende di sub-appalto che li avevano fatti arrivare in Libia.

martedì 1 marzo 2011

Tragica ipocrisia

Libia di Alessandra Mecozzi
20 / 3 / 2011
Ancora una volta, con tragica ipocrisia, la retorica umanitaria viene usata per coprire una nuova guerra imposta dall’occidente contro la popolazione di un paese arabo, la Libia, in cui da settimane ad una rivolta popolare il governo di Gheddafi risponde con bombardamenti e stragi, senza che ci siano stati atti da parte della comunità internazionale volti a metter loro fine.
La risoluzione delle Nazioni Unite che formalmente pone al primo posto il cessate il fuoco e la difesa della popolazione civile, è non solo tardiva, ma apre la strada all’intervento militare – sotto la pressione di Governi interventisti come la Francia e la Gran Bretagna, vogliosi di intervenire militarmente e conquistarsi una presenza nell’area.
Pedissequamente e irragionevolmente il governo italiano, mollato dalla Lega, che teme l’«invasione» dei profughi, ma sostenuto dalla opposizione,  si lancia in una avventura bellica, dopo aver per anni fornito a quel Governo – oggi esecrato – ossequi, affari e grandi quantitativi di armi.
Parlare di difesa dei diritti umani dei libici, attraverso interventi militari che quasi inevitabilmente data la natura del conflitto armato in corso, supereranno la sola interdizione dello spazio aereo, mentre i diritti umani di migliaia di migranti sono da giorni calpestati nell’isola di Lampedusa, è grottesco e offensivo, in primo luogo per la popolazione di quell’isola, oggi esposta anche alla paura di possibili rappresaglie dalla Libia, e di tutto il nostro paese.
La marcia delle «rivoluzioni della dignità» arabe, in cerca di democrazia, libertà e giustizia sociale, una grande speranza del mondo, avrebbe meritatoe meriterebbe dall’Europa, dalla Comunità internazionale tutta, ben altra attenzione, sostegno intelligente e strumenti di intervento, per poter avanzare.
Non ce ne sono tracce, mentre la rivolta si estende in Medio Oriente.
Le rivolte popolari che in queste ore sono sanguinosamente represse in altri paesi mediorientali, come Yemen, Bahrein, Siria, come quelle che hanno pacificamente portato, pur con un prezzo di sangue, alla caduta dei regimi di Tunisia ed Egitto, rischiano di essere o definitivamente e sanguinosamente stroncate o bloccate, dalla «soluzione militare» del processo in Libia.
Si poteva fare diversamente? Sì, la strumentazione e l’iniziativa diplomatica e politica, insieme a quella umanitaria, potevano – e vorremmo augurarci che ancora possano – imprimere un andamento diverso alla iniziativa della comunità internazionale. Non ci si è neanche provato. L’Unione Europea ancora una volta non è stata in grado di svolgere alcun ruolo, e già i caccia francesi sorvolano i cieli della Libia, dopo che il governo Sarkozy ha fornito costosissimi aerei da guerra al colonnello Gheddafi (con i quali ha bombardato la sua popolazione), come quello italiano -, maggior fornitore di armi alla Libia -, che rulla i tamburi di guerra, appellandosi agli «interessi nazionali»; la Germania ha scelto sensatamente di astenersi.
La società civile italiana ed europea, i movimenti per la pace e per i diritti, che seguono e appoggiano la crescita e diffusione dei movimenti per la democrazia nella sponda sud del Mediterraneo hanno di fronte la responsabilità di mettere in opera tutte le iniziative possibili, una vera strategia politica, affinché quel processo possa continuare a svolgersi e restare nelle mani di coloro che lo hanno avviato. In primo luogo opporsi agli interventi militari, come quello che oggi si prefigura sulla Libia.

Alessandra Mecozzi Ufficio internazionale della Fiom-Cgil

Libia - L 'angoscia di Bengasi

Bengasi
Le esplosioni cominciano alle prime luci dell'alba. Botti in lontananza, dalla parte ovest della città. Continui, martellanti. Fumo nero che si alza. E poi i colpi, secchi, della contraerea. Bengasi si sveglia sotto assedio. Le truppe di Gheddafi sono subito fuori città. Nonostante il cessate-il-fuoco dichiarato urbi et orbi dal ministro degli esteri Moussa Koussa, i soldati lealisti sono avanzati e hanno cominciato a colpire con i razzi dalla parte sud-ovest. Sono arrivati da Ajdabiya, avanzando velocemente sulla strada della costa. «Non abbiamo intenzione di entrare a Bengasi», avevano affermato vari alti papaveri del regime solo l'altroieri.
Eccoli invece in città. Si avvicinano. L'esercito dei rivoluzionari del 17 febbraio alza le barricate. Risponde al fuoco. Fischiano razzi e contraerea. Andiamo a vedere. Facciamo un paio di chilometri. Vicino al fronte un miliziano ci fa segno di no. L'autista fa marcia indietro. Subito dopo si sente un colpo secco di razzo, vicinissimo. Scatta la contraerea. Fuggiamo sgommando a tutta velocità.
Nel cielo volteggia un aereo. Vola dalla stessa parte del mare. Le mitragliatrici entrano in azione. Lo colpiscono. Il velivolo va a fuoco e precipita. Il pilota si lancia con il paracadute. Dalla strada si levano grida di giubilo: "Allah Akbar", Dio è grande. Più tardi si scoprirà che era un mezzo dei ribelli di ritorno da una ricognizione. Secondo fonti del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), il governo messo in piedi a Bengasi dopo la rivolta del 17 febbraio, nel corso della giornata due aerei dei "giovani rivoluzionari" sono precipitati: uno è quello che abbiamo visto, colpito da fuoco amico, un altro sarebbe invece caduto per un problema al motore.
Le strade si riempiono di gente che fugge a est, verso la frontiera egiziana. Scappano come possono. In macchina, con i bagagli accatastati sul tetto. In furgoncino. In taxi. Vanno a casa di amici o di familiari. Alcuni dicono che vanno in Egitto. Il prezzo di un taxi collettivo per Tobruk, l'ultima città prima della frontiera egiziana, è schizzato da 70 a 250 dinari (da 35 a 125 euro). La città si svuota: i negozi chiudono. E' difficile anche trovare da mangiare.
Gli insorti si preparano alla battaglia finale: si schierano dietro trincee improvvisate. Preparano bottiglie molotov. Si fanno forza a vicenda. Ma il morale è basso. Solo verso mezzogiorno, c'è una fiammata di entusiasmo. I combattenti cominciano a girare per le strade strombazzando. "Li abbiamo respinti. Sono andati via". "Si sono ritirati a trenta chilometri dalla città". "No, a cinquanta". "Cosa dici? Si sono stabilizzati a dodici chilometri". Le notizie e le smentite si rincorrono. Non si capisce più nulla. I giovani rivoluzionari festeggiano inseguendo le voci di una vittoria che nessuno in realtà è in grado di confermare. Sparano in aria con il kalashnikov. Dicono di aver catturato due carri armati dell'esercito lealista e di averne bruciati altri tre. Ma l'impressione è esattamente opposta: il regime sta tornando. Gheddafi lo aveva detto: "Saremo spietati". "Vi troveremo". "Zenga, zenga, dar, dar", "Strada per strada, casa per casa". I rivoluzionari dicono che stanno vincendo. Ma gli abitanti di Bengasi se ne vanno, temendo la repressione del colonnello.
All'ospedale Jala, vicino al centro, ci sono decine di morti stesi per terra. "Sono ventisei", dice un infermiere. "E centinaia di feriti". Nella battaglia di Bengasi, nei tre ospedali della città sono arrivati settanta morti. Tre cadaveri carbonizzati giacciono sul suolo. Un uomo ha il dito alzato, l'espressione sospesa, quasi fosse stato investito improvvisamente da una grande fiammata. Un altro è un ammasso di carne e interiora, non ha più fattezze umane. E' chiuso in un sacco. In una stanza accanto, i cadaveri in condizioni migliori vengono lavati e messi in un lenzuolo, come prevede il rito musulmano. Un ragazzo ha un enorme buco dove prima c'era l'occhio sinistro. Un altro ha una ferita sul petto, con schizzi di sangue dappertutto che un ragazzo pulisce con una precisione certosina. C'è una confusione incredibile. "Ma che fanno gli occidentali. Quando arrivano?", grida un uomo sulla quarantina, appena entrato all'ospedale.
Un infermiere apre una cella frigorifera. Un lezzo nauseante si sparge per la stanza. L'odore acre della morte vecchia di almeno tre giorni. Dentro, ci sono quattro uomini. "Sono i miliziani di Gheddafi. Sono africani". Hanno effettivamente la pelle nera e i tratti dei sub-sahariani, anche se è difficile stabilire con certezza che non siano libici del sud. Li tengono lì per mostrarli ai pochissimi giornalisti rimasti in città. Per dimostrare che Gheddafi è isolato e che per sparare sul suo popolo può solo usare mercenari.
I cadaveri nel lenzuolo vengono portati fuori. Sono messi in bare di legno e portati via su diversi pick up. Vengono sparati colpi di kalashnikov in onore di ogni shahid, ogni martire della battaglia di Bengasi. All'interno dell'ospedale, ci sono decine di uomini armati. Arrivano ambulanze e feriti in macchina.
Un medico egiziano che è stato nei quartieri bombardati descrive scene raccapriccianti. I morti sono per lo più civili colpiti nelle loro case. In piccole bare, giacciono due bambini di circa dieci anni. Un uomo con il mitra piange in un angolo. "E' il padre?". Non risponde e va via. "Se entrano qui, faranno come ad Ajdabiya", dice sempre il medico egiziano. "Hanno sparato ovunque, senza pietà. Cecchini e soldati. Sono andati strada per strada, casa per casa. Zenga zenga, dar dar". Il bilancio del macello di Ajdabiya, secondo il dottore, sarebbe di 800 morti.
Alla piazza del Tribunale il morale è in caduta libera. Pochissime persone. Solo gli irriducibili. L'atmosfera festosa che c'era 24 ore prima si è trasformata in puro terrore. Dentro il palazzo non c'è anima viva. I membri del consiglio nazionale transitorio non ci sono. Sono tutti in località protette. Dalla facciata dell'edificio è scomparsa l'enorme bandiera della Francia che campeggiava fino a l'altroieri. "Che fine ha fatto?". "Fra un po' la rimettiamo", dicono alcuni signori. "La Francia è nostra amica". Ma intanto l'hanno levata. Aspettano i bombardamenti. Se non dovessero arrivare, gli amati francesi - e la comunità internazionale tutta - saranno i principali traditori del popolo libico, quelli che hanno abbandonato Bengasi al suo destino e alla vendetta spietata promessa dal colonnello Gheddafi.
Ashor Zgogo, uno studente di ingegneria che nei giorni scorsi passava le sue giornate al tribunale, è solo di fronte al Palazzo. Ha lo sguardo spento. "Tutto andrà per il meglio", dice con voce afona, gli occhi pietrificati. "La situazione sul terreno è a nostro vantaggio. Li abbiamo scacciati", ripete in modo meccanico, visibilmente sotto shock per quello che è successo nella mattina e per quello che potrebbe succedere nelle prossime ore. "Ci vediamo domani, ma stai attento", dice con un guizzo di vitalità, prima di ripiombare nel suo stato catatonico.
La televisione di stato libica annuncia che l'ex ministro degli interni di Tripoli, Abdelfattah Younis, passato con i ribelli dopo il 17 febbraio, è tornato all'ovile e ha ripreso le sue funzioni. Al Arabiya e Al Jazeera mandano in onda un'intervista telefonica in cui l'interessato smentisce. Accanto alla guerra sul terreno, sempre più vicina e sempre più pesante, continua a combattersi la guerra dell'informazione. Secondo notizie non confermate, un giornalista della tv irachena Al Hurriya sarebbe stato ucciso da un cecchino. "Era un libico. Lo hanno colpito apposta perché diffondeva la verità", dicono in piazza. Nulla si può verificare. I telefoni sono spenti completamente ormai da due giorni.
Nel pomeriggio la città è vuota. Le truppe di Gheddafi hanno interrotto l'attacco. Forse si sono ritirati, come sostengono gli insorti. Forse hanno ripiegato per colpire di nuovo più tardi, magari nel corso della notte. Ci sono barricate ovunque. Ognuno sembra rispondere per sé. Alcuni miliziani sono amichevoli. Altri un po' più aggressivi. Si sentono ogni tanto spari di kalashnikov, da tutte le parti. Si sparge la voce che uomini di Gheddafi in città, quelli della "Lijan Thauria", i cosiddetti "comitati della rivoluzione" creati dal colonnello in tutta la Libia, siano in strada e sparino all'impazzata sui passanti. Si diffonde il panico. Chi è rimasto, guarda la tv e ascolta la radio. Molti chiedono: "Che ora è a Parigi?". "Quando arrivano?". Il tramonto cala su una Bengasi deserta e spettrale, che aspetta una sola cosa: i bombardamenti degli occidentali. "Se non vengono, siamo finiti", dice un signore sulla cinquantina, l'aria visibilmente preoccupata. Un altro lo guarda negli occhi e gli punta il dito sul petto. "Non c'è nulla da temere. Fra poco arrivano, insh'allah".


BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!