La resa dei conti tra la Guida suprema Ali Khamenei e il presidente Mahmoud Ahmadi-Nejad si è consumata nelle urne venerdì 2 marzo.
È ancora presto per valutare l’impatto effettivo delle elezioni, e nonostante la stampa abbia già decretato la vittoria schiacciante della Guida sul presidente, è bene ricordare ancora una volta come quelle del 2 marzo scorso siano state elezioni caratterizzate essenzialmente da uno sprova di forza all’interno dell’ala conservatrice.
Le forze riformiste sono state pressoché assenti in virtù di un processo di sistematica esclusione, ma anche per il perdurare della detenzione di molti dei loro rappresentanti; ciò ha impedito di fatto una reale competizione alle urne.
I candidati di questa tornata elettorale ruotano quasi esclusivamente nell’orbita del sistema conservatore, sebbene con posizioni spesso assai divergenti. Due schieramenti si sono contrapposti in modo chiaro, con la Guida Suprema da una parte a sostegno delle forze fondamentaliste, e il presidente alla guida di quelle scissioniste dei principalisti.
Sebbene i dati provvisori indichino una netta vittoria dei fondamentalisti sugli avversari, è bene ricordare come gli equilibri del sistema politico iraniano ruotino nell’orbita di interessi di fazione, assumendo spesso geometrie cangianti. Possono dar luogo a evoluzioni spesso imprevedibili.
In più di 30 circoscrizioni, inoltre, inclusa Tehran, alcuni candidati non hanno raggiunto il 25% delle preferenze necessarie per essere eletti: sarà necessario un ballottaggio. Solo 135 candidati hanno vinto direttamente al primo turno, conquistando quindi il 25% delle preferenze più una; i restanti 155 dovranno essere determinati nell’arco dei prossimi giorni.
L’affluenza alle urne è stata abbastanza alta: la media nazionale è stata del 64,2%, ma a Tehran c'è stato un vistoso calo: solo il 48% degli aventi diritto è andato a votare. In moltissimi, nelle città principali, hanno aderito al tam tam della richiesta di astensione lanciata dagli ambienti del riformismo, restando tuttavia alquanto delusi nel vedere che l’ex presidente Mahammad Khatami ha infine deciso di votare, giustificando la sua scelta con la necessità di impedire ai conservatori di sostenere che l’astensione fosse un’imposizione di forze straniere e ostili alla Repubblica Islamica.
La resa dei conti
Se l’Occidente avesse veramente voluto appoggiare una politica orientata al regime change in Iran, paradossalmente avrebbe dovuto sostenere a spada tratta il presidente, Mahmoud Ahmadi-Nejad.
Dal 1979 ad oggi mai nessuno aveva osato sfidare così apertamente l’autorità della Guida e del sistema di potere teocratico al vertice delle istituzioni iraniane. Se non si fosse letto - in modo miope - il messianismo che ha caratterizzato molte delle esternazioni presidenziali come espressione di una fede cieca e radicale, si sarebbe compreso da tempo come Ahmadi-Nejad sia portatore di un messaggio politico del tutto estraneo alle logiche della teocrazia e del velayat-e faqih.
Se si fosse evitato di ricorrere per anni alla semplice e stantia equazione del “non c’è contrasto, è tutta una messinscena”, come freneticamente ripetuto da molta parte della stampa sin dal primo giorno del primo mandato dell'attuale presidente, forse si sarebbe potuto interagire meglio con l’Iran e con il suo complesso sistema politico.
Invece ci si è trovati a dover constatare ancora una volta quanto difficili ed impenetrabili siano le dinamiche del potere e della politica in Iran. Senza, tuttavia, mai fare i conti con lo stereotipo che da trent’anni l’Occidente impone a sé stesso come chiave interpretativa del paese.
Il fronte fondamentalista
Se dovesse essere confermato il dato provvisorio emerso dalle urne, sembrerebbe profilarsi una netta vittoria del Fronte unito principalista (Upf), una coalizione leale alla politica della Guida composta da candidati di varia estrazione. Questa formazione è caratterizzata dalla presenza di candidati fondamentalisti decisamente ostili alla politica di Ahmadi-Nejad, ma non per questo etichettabili come "radicali", termine largamente utilizzato dalla stampa straniera.
Nel conteggio dei voti parziali l’Upf è seguito dal Fronte di stabilità della rivoluzione islamica (Sirf), altra coalizione caratterizzata da posizioni meno intransigenti verso il presidente, ma al tempo stesso allineate con la Guida.
C’è poi un cospicuo numero di candidati indipendenti, perlopiù presentatisi nei collegi minori, dove Ahmadi-Nejad sembra godere di maggiori simpatie, e che potrebbero presentare un quadro complessivo marginalmente differente rispetto a quello sinora sbandierato dall’Uff.
Entro pochi giorni sarà possibile determinare l’esito complessivo di queste elezioni; i nuovi deputati saranno ufficialmente annunciati e nominati, forse qualcuno prenderà apertamente posizioni differenti da quelle manifestate in campagna elettorale. Ciononostante, il risultato più probabile sembra confermare un forte calo del gruppo vicino ad Ahamadi-Nejad, sebbene sia presto per comprendere quanto questo calo sia pronunciato o meno.
All’interno del fronte conservatore si distinguono tre principali aggregazioni politiche. La prima è quella dei pragmatici e moderati, dominata dal sempre più potente clan familiare dei Larijani, dall’ex comandante dell’Irgc e attuale segretario del Consiglio del discernimento Gen. Mohsen Rezai, e dal sindaco di Tehran Mohammad Baqer Qalibaf. Si tratta di esponenti di spicco della politica iraniana, ma non di veri e propri protagonisti in grado di esporsi personalmente, ad eccezione di Qalibaf. Un’eccellente seconda linea, in sintesi. Sono accomunati da una visione liberale dell’economia, dal rigetto per le istanze radicali ed estreme, dalla lealtà alla Guida; sono promotori di una politica di evoluzione istituzionale lenta e graduale, senza pericolosi turbamenti.
La seconda è quella dei principalisti tradizionali, legati al sistema di potere del bazaar di Tehran e con le organizzazioni religiose tradizionali e attive politicamente. Non particolarmente radicali in termini religiosi, ma decisamente conservatori in politica economica, a difesa soprattutto dei lucrosi affari condotti dai propri aderenti e delle consolidate logiche di potere ed economiche del bazaar. Si tratta anche in questo caso di una fazione altamente eterogenea, riconducibile a una generazione solitamente anteriore rispetto a quella del primo gruppo, e con una visione della politica e dell’economia più rigida e conservatrice.
La terza è quella più vicina ad Ahmadi-Nejad e al suo alquanto diversificato gruppo di potere. I suoi critici la definiscono la formazione del “corso deviazionista”, attribuendole un significato estremamente negativo e contrario al dogma khomeinista. All’interno di questa aggregazione si distinguono due posizioni. Una più aggressiva, legata al presidente, che intende avere la meglio su quella che considera una generazione ormai non più in grado di governare l’Iran, corrotta e solo ipocritamente legata ai principi religiosi espressi dal fondatore della Repubblica islamica. La seconda più moderata, meno critica dell’operato della Guida e del suo entourage e soprattutto ostile al genero-Rasputin di Ahmadi-Nejad, Esfandiar Rahim Mashaei.
Quest'ultimo è un personaggio alquanto discusso in Iran; il presidente vorrebbe che fosse lui a prendere il suo posto nel 2013; Mashaei ha apertamente sfidato il regime con provocazioni ritenute gravi e inaccettabili, come quella su un compromesso con Israele. Nonostante le differenze, entrambe le fazioni “deviazioniste” condividono una visione fortemente nazionalista della politica e una visione proattiva della politica estera. Basata, quest'ultima, sulla consapevolezza del ruolo regionale dell’Iran, del suo status e della necessità di essere riconosciuto come una potenza regionale. Una posizione giudicata troppo rischiosa dalla Guida.
Quali conseguenze per l’Occidente?
Se dovesse essere confermato il risultato delle proiezioni, e la componente vicina al presidente fosse troppo minoritaria per ostacolare la nuova maggioranza parlamentare, con ogni probabilità si tornerebbe alla tradizionale politica del pragmatismo tipica di Khamenei.
Sul fronte della politica estera, e del rapporto con l’Occidente in particolare, ciò significherebbe da un lato la chiusura di ogni possibilità di dialogo con gli Stati Uniti, dall’altro l’apertura di più canali paralleli per garantirsi una linea di comunicazione indiretta e cercare di alleviare il pesante carico imposto dal più recente incremento delle sanzioni.
Questo significherebbe alleggerire - e non di poco - la posizione relativa allo sviluppo del progetto nucleare nazionale, cercando di contenere il rischio di un'escalation militare con Israele e, soprattutto, di un eventuale successivo allargamento del conflitto agli Stati Uniti.
Nella speranza che per tutto questo non sia ormai troppo tardi.
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