di Giuliana Sgrena
«Anche noi adesso abbiamo la nostra piccola Tahrir», mi dice una militante presente alla manifestazione di ieri in piazza Primo maggio, la piazza che ha visto tutte le manifestazioni storiche di Algeri. A dare coraggio e voglia di scendere in piazza ieri a molti algerini per sfidare le minacce della repressione è stato senza dubbio anche l’effetto Cairo: «Dopo l’Egitto e la Tunisia, adesso tocca a noi». Qualche migliaio di manifestanti contro 30 mila agenti della polizia, dei gruppi antisommossa - ha fatto il suo esordio anche un gruppo femminile più agguerrito che mai -, molti agenti in abiti civili. La manifestazione era convocata per le 11 ma già alle nove i primi gruppi di manifestanti sono arrivati nella piazza superando file di blindati, mezzi militari pesanti alcuni con una pala (sembra da spazzaneve, ma certamente non lo è) davanti, e poi file di poliziotti con scudi e manganelli che costituivano una muraglia. La tattica adottata dalla polizia è quella di lasciare arrivare un gruppetto e poi circondarlo, spingerlo, strattonarlo, se viene individuato un volto conosciuto viene subito portato via, poco importa se cantante, avvocato, deputato o semplice militante, in questo caso non c’è discriminazione.
1.500 le persone fermate, tra le quali 40 donne, una delle quali incinta, 200 gli arresti. Le donne vengono prese con forza dalle poliziotte che, evidentemente, al loro esordio devono dimostrare di essere ancora più dure e inflessibili dei colleghi maschi. Alcune donne vengono tirate per i capelli. Viene portata via anche Cherifa Kheddar, portavoce dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne e presidente di un’associazione delle vittime del terrorismo, Djazairouna. Quando viene rilasciata ci racconta che al commissariato gli slogan erano urlati persino più forte che sulla piazza. Persino il vecchio avvocato ultraottantenne della Lega per la difesa dei diritti dell’uomo, Ali Yahua Abdenuour, tornerà a casa con un grande ematoma sul braccio per gli strattonamenti ricevuti dai poliziotti, ma dichiara «che è solo l’inizio, ma la rivoluzione è cominciata». Qualche migliaio di manifestanti che avevano dovuto superare gli sbarramenti: la città era isolata da altri 10 mila agenti che avevano chiuso le entrate nella capitale fin dal giorno prima. Le autostrade erano state chiuse, fermati i treni. Per questo molti militanti si sono arrangiati a dormire nelle sedi dei loro partiti o si sono fatti ospitare da amici nella capitale pur di non mancare a questa prima prova di forza con il regime. Abbiamo trovato anche un giovane che ci ha detto di essere arrivato a piedi da Tizi Ouzou. Quelli che non sono riusciti ad arrivare alla piazza primo maggio hanno manifestato nei loro quartieri a Bab el Oued, El Harrach, Belcourt. La piccola Tahrir ha mutuato molti dei suoi slogan dall’Egitto e dalla Tunisia. Soprattutto il «Dégage» che ha cacciato Ben Ali qui viene usato per invocare la cacciata del regime, la fine di un sistema e non soltanto di Bouteflika. «Vogliamo un’Algeria libera e democratica», «l’Algeria è nostra». Gli slogan si alternano con canzoni, l’inno nazionale, oppure un’aria orecchiabile sulle parole: «Ne abbiamo abbastanza del regime, ne abbiamo abbastanza dei ladri e dei corrotti...». Le donne erano molto visibili, c’era anche chi aveva portato dei garofani bianchi, ogni rivoluzione deve avere il proprio fiore e il gelsomino aveva già avuto il suo ruolo in Tunisia. Una manifestazione assolutamente laica, gli algerini hanno pagato con tanto sangue la deriva islamista per avere delle tentazioni in tal senso. Qualche barbuto passa, osserva scettico e se ne va. L’unico che forse vorrebbe restare è Ali Benhadj, già numero due del partito islamista Fronte islamico di salvezza (fuorilegge), condannato a dodici anni di carcere e poi liberato. Ma la presenza di Benhadj non è apprezzata dalla folla, anche se non viene aggredito. La manifestazione è assolutamente non violenta, ma non sono mancate le provocazioni: un gruppo agguerrito di ragazzi giovanissimi che urlava slogan a favore del presidente («Bouteflika non è Ben Ali») prima di lasciarsi andare a urlare «stato islamico», ma forse non erano stati informati bene, e a fare esplodere petardi fumogeni tra la folla. La confusione era tale che verso l’una quando i poliziotti hanno deciso di disperdere i manifestanti e hanno cominciato a cacciare la gente con i manganelli, sono stati gli stessi giovani che fino a quel momento erano stati scortati dalle forze dell’ordine a lanciare loro sassi. La gente dei palazzi che circondano la piazza Primo maggio e che fino a quel momento avevano assistito alla violenza della repressione hanno cominciato a lanciare bottiglie dai balconi contro i poliziotti. La manifestazione non si è conclusa finché i poliziotti non hanno cominciato a lanciare lacrimogeni. La cosa non ha impedito ad alcuni gruppi di fare ritorno sulla piazza, che è ancora completamente presidiata dalle forze dell’ordine. La campagna lanciata dal regime con ogni mezzo per ridicolizzare la manifestazione (paventando anche il pericolo di atti terroristici) si è trasformata in una coraggiosa scesa in campo delle forze democratiche come non succedeva da tempo. Sebbene l’unico simbolo fosse la bandiera algerina, non è stata una manifestazione spontanea. A organizzarla è stato un Coordinamento per il cambiamento e la democrazia che ha al suo interno partiti, sindacati, associazioni di donne e anche comitati che negli anni bui si erano trovate su fronti opposti: come le vittime del terrorismo e «Sos disparu» (le vittime del regime) e questo rappresenta certamente una importante maturazione del campo politico algerino. Da parte del regime invece l’atteggiamento è stato quello di sempre. Forse contava sul fatto che gli avvenimenti egiziani avrebbero mantenuto spenti i riflettori sull’Algeria. Invece la caduta di Mubarak, proprio il giorno prima, è servita a dare alla rivolta algerina la continuità di una rivoluzione che sta travolgendo tutto il mondo arabo e i loro regimi autoritari.