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In Guatemala, a Iximulew, nei giorni 18, 19 e 20 di febbraio 2009, rappresentanti di organizzazioni Indigene Centroamericane (México, Panamá, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua) si sono riunite per discutere e analizzare la situazione dei territori indigeni rispetto le imprese estrattive e mega dighe.
Come pure sui metodi unilaterali e le politiche nazionali che i governi hanno adottato e sostenuto indiscriminatamente, con il conferimento di licenze per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse naturali e delle risorse del sottosuolo nelle loro terre e territori, mettendo in serio pericolo la vita, la continuità e l’esistenza della stessa madre natura, dei popoli indigeni e delle comunità locali.
Di seguito la dichiarazione finale.
Declaración de IXIMULEW
Los Pueblos Indígenas frente a las Empresas Extractivas y Mega-represas
Los pueblos indígenas y comunidades locales de Mesoamérica representados a través de sus organizaciones, abajo firmantes, reunidos en Iximulew (Guatemala) los días 18, 19 y 20 de febrero de 2009, para discutir y analizar la situación de los territorios indígenas frente a las empresas extractivas y mega-represas, así como las formas unilaterales y las políticas nacionales que los gobiernos de la región, han adoptado e implementado indiscriminadamente, con el otorgamiento de licencias para la exploración y explotación de los recursos naturales y los recursos del subsuelo en nuestras tierras y territorios, afectando seriamente la vida, la continuidad y la existencia misma de la madre naturaleza, de los pueblos indígenas y las comunidades locales.
Ante el riesgo inminente de destrucción de nuestro patrimonio natural y cultural, manifestamos a la opinión pública nacional e internacional, y a las autoridades gubernamentales de la región mesoamericana, lo siguiente:
•Primero, rechazamos las políticas sobre exploración y explotación de los recursos naturales y del subsuelo, principalmente por las aceleradas y arbitrarias medidas adoptadas por las autoridades nacionales, que violan los procesos de consulta y el consentimiento previo, libre e informado de los pueblos indígenas, frente a sus prioridades de desarrollo y han puesto en riesgo la vida, los bienes naturales, los recursos hídricos, la biodiversidad y los derechos sobre las tierras, territorios y recursos de los pueblos indígenas y comunidades locales.
•Segundo, exigimos de manera urgente a las autoridades nacionales, la aprobación de la moratoria y suspensión de licencias y operaciones mineras, hidroeléctricas, petroleras y otras empresas extractivas que se están ejecutando en aquellos sitios o territorios indígenas o comunidades locales, hasta que se cuente con nuevas leyes nacionales y políticas más coherentes con la protección del medio ambiente y los recursos naturales, así como con la vigencia y el respeto a los derechos de los pueblos indígenas y ¡a seguridad jurídica de sus territorios.
•Tercero, garantizar la participación plena y efectiva de los pueblos indígenas y de las comunidades locales en la revisión y reforma a las legislaciones nacionales y políticas sobre exploración y extracción, que contemple entre otros, los siguientes elementos:
Procesos participativos de reforma a las leyes y políticas nacionales sobre industrias extractivas y mega-represas: minería, petroleras e hidroeléctricas, entre otras, incluyendo el proceso de descentralización administrativa, que permita a los gobiernos locales y comunidades indígenas, tomar sus propias decisiones.
Realización de una Evaluación Ambiental Estratégica Independiente, que defina las zonas en las cuales no deberá desarrollarse la industria extractiva y mega-represas, incluyendo las cuencas hidrográficas y zonas de recarga hídrica, y principalmente las tierras y los territorios indígenas.
En aquellos casos en los cuales existen proyectos de exploración y extracción en ejecución, deberán realizarse evaluaciones periódicas que verificando los daños, se proponga la suspensión inmediata de estos proyectos; asegurando procesos de reparación y restitución.
Definición de mecanismos que garanticen la consulta y la participación plena y efectiva de los pueblos indígenas y las comunidades locales en la toma de decisiones, así como alcanzar su consentimiento previo, libre e informado ante proyectos que se desarrollen en sus territorios.
• Cuarto, exigimos a las autoridades nacionales y organismos regionales intergubernamentales parte del Sistema de la Integración Centroamericana SICA y los organismos financieros internacionales, la adopción de políticas y estrategias a nivel de la región Mesoamericana de programas e iniciativas que beneficien y respeten los derechos de los pueblos indígenas y las comunidades locales, sin afectar su buen vivir y sus propias formas de gestión, desarrollo e identidad.
Finalmente, nosotros los pueblos indígenas de Mesoamérica, instamos a la opinión pública a apoyar las demandas y luchas, a fin de determinar y hacer visible los grandes daños y costos ambientales, económicos, sociales y culturales, que las empresas extractivas y mega-represas realizan en nuestros territorios y que han generado más desigualdad y extrema pobreza, así como división entre nuestros pueblos, de igual manera a visibilizar los escasos beneficios que están dejando y dejarán a los países en las actuales condiciones legales y contractuales.
giovedì 26 febbraio 2009
Quelli che si vogliono mangiare il mondo. Rapporto 2008 sulle multinazionali.
Silvia Ribeiro - rebelion.org
Immersi in un’enorme crisi del capitalismo, madre di molte crisi convergenti, si riscatta con denaro pubblico le più grandi imprese private del pianeta, mentre continua ad aumentare la povertà ed il caos climatico.
Secondo l’economista messicano Andrés Barreda, ci troviamo all’interno di una brutale crisi di sovraccumulazione capitalista: gigantesco vomito di chi ha creduto di potersi inghiottire il mondo, ma non ha potuto digerirlo.
Le crisi attuali hanno un contesto di concentrazione crescente del potere corporativo, appropriazione di risorse naturali e deregolamentazione o leggi che beneficiano le imprese e gli speculatori finanziari.
Nel 2003, il valore globale delle fusioni e delle acquisizioni è stato di 1,3 miliardi di dollari. Nel 2007, è arrivato a 4,48 miliardi. Nell’industria alimentaria, il valore delle fusioni e degli acquisti tra imprese si è raddoppiato tra il 2005 ed il 2007 e la debacle finanziaria ha fatto fallire alcune imprese, favorendo oligopoli ancora più chiusi.
Che cosa significa questo per la gente comune? La relazione del Gruppo ETC “Di chi è la natura?” offre un’analisi nel contesto storico della concentrazione corporativa di settori chiave nelle ultime tre decadi.
Ha seguito le manovre di mercato delle cosiddette “industrie della vita” (biotecnologia in agricoltura, alimentazione e farmaceutica), aggiungendo ora le imprese che fanno convergere la biotecnologia con la nanotecnologia e la biologia sintetica, promuovendo nuove generazioni di agrocombustibili e cercando di generare un’economia post industria petrolifera, basata sull’uso di carboidrati e la vita artificiale.
Il settore agroalimentare continua ad essere uno degli esempi più devastanti, in quanto nessuno può vivere senza mangiare. È inoltre il maggior “mercato” al mondo e per queste due ragioni le multinazionali si sono lanciate con aggressività per cercare di controllarlo.
Nelle ultime 3-4 decadi, è passato da una situazione di quasi totale controllo da parte di piccoli agricoltori e mercati locali e nazionali, ad essere uno dei settori industriali globali con maggiore concentrazione corporativa. È quindi stato necessario un cambiamento radicale nelle forme di produzione e commercio di alimenti. Grazie ai trattati di “libero” commercio, l’agricoltura e gli alimenti si sono trasformati sempre più in merci da esportazione, in un mercato globale controllato da una ventina di multinazionali. Secondo una relazione della Fao sui mercati dei prodotti alimentari primari, agli inizi degli anni 60 i paesi del Sud globale avevano un’eccedenza commerciale agricola di circa 7 miliardi di dollari all’anno.
Alla fine degli anni 80 quest’eccedenza era scomparsa. Oggi tutti i paesi del Sud importano alimenti.
Durante gli anni 60, quasi la totalità delle sementi erano in mano agli agricoltori od alle istituzioni pubbliche. Oggi, l’82 per cento del mercato commerciale delle sementi dipende dalle proprietà intellettuali e dieci imprese controllano il 67 per cento di questo settore.
Queste stesse imprese (Monsanto, Syngenta, DuPont, Bayer, etc.) sono per la maggior parte produttrici di pesticidi, settore questo in cui le dieci maggiori imprese controllano l’89 per cento del mercato globale e sono anche tra le dieci più grandi imprese di farmaceutica veterinaria, controllando il 63 per cento di questo mercato.
Le dieci maggiori imprese di alimenti processati (Nestlé, PepsiCo, Kraft Foods, Coca-Cola, Unilever, Tyson Foods, Cargill, Mars, ADM, Danone), controllano il 26 per cento del mercato e cento catene di vendite al dettaglio controllano il 40 per cento del mercato globale.
Nel 2002, le vendite globali di sementi e pesticidi sono state di 29 miliardi dollari, quelle di alimenti processati di 259 miliardi e quelle delle catene di vendite al dettaglio di 501 miliardi.
Nel 2007, questi tre settori hanno aumentato le vendite a 49 miliardi, 339 e 720 miliardi di dollari rispettivamente.
L’impresa WalMart continua ad essere l’impresa più grande del mondo, essendo la 26 delle 100 più grandi economie del pianeta, di gran lunga superiore al Pil di interi paesi come la Danimarca, il Portogallo, il Venezuela o Singapore.
Dalle sementi al supermercato, le multinazionali vogliono imporre che cosa seminare, come mangiarlo e dove comprarlo. Di fronte alle crisi ci prescrivono sempre la stessa cosa: più industrializzazione, più chimici, più transgenici ed altre tecnologie ad alto rischio, più libero commercio.
Non è tanto strano, dato che hanno ottenuto grandi vantaggi dall’aumento dei prezzi e dalla fame, con un aumento del 108 per cento dei loro guadagni.
È anche cresciuta la disparità di entrate individuali a livello mondiale. La ricchezza accumulata dalle 1.125 persone più ricchi del mondo (4,4 miliardi di dollari) è quasi equivalente al Pil del Giappone, seconda potenza economica mondiale dopo gli Stati Uniti. Questa cifra è maggiore della somma delle entrate della metà della popolazione adulta del pianeta.
Nel 2007, 50 amministratori di fondi finanziari (hedge funds ed equity funds), i grandi speculatori che hanno provocato la “crisi”, hanno guadagnato una media di 588 milioni di dollari, circa 19 mila volte di più di un lavoratore statunitense tipo e circa 50 mila volte più di un latinoamericano. Sempre nel 2007, il direttore esecutivo della finanziaria Lehman Brothers, ora in bancarotta, ha guadagnato 17 mila dollari all’ora (dati dell’Institute for Policy Studies).
Riassumendo, un’assurda minoranza di imprese ed alcuni miliardari che possiedono le loro azioni controllano enormi percentuali delle industrie e dei mercati che sono basilari per la sopravvivenza, come quelli degli alimenti e della salute. Questo permette loro una pesante ingerenza nelle politiche nazionali ed internazionali, modellando le regole ed i modelli di produzione e consumo che si applicano nei paesi in base ai propri interessi.
È quindi urgente un cambiamento profondo del modello di agroalimentazione industriale e corporativa, includendo una forte critica a quelli che, in nome della crisi alimentaria e climatica, vogliono imporci lo stesso modello a base di transgenici e agrocombustibili.
Esistono già delle soluzioni e sono diametralmente opposte: sovranità alimentare a partire da economie agricole decentrate, differenziate e libere da brevetti, basate sulla conoscenza e sulle culture contadine.
Nota:
articolo originale http://www.rebelion.org/noticia.php?id=78510
Inserito in Nicarahuac n. 103 di Ass. Italia-Nicaragua
© (Traduzione Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua http://%20www.itanica.org/
Immersi in un’enorme crisi del capitalismo, madre di molte crisi convergenti, si riscatta con denaro pubblico le più grandi imprese private del pianeta, mentre continua ad aumentare la povertà ed il caos climatico.
Secondo l’economista messicano Andrés Barreda, ci troviamo all’interno di una brutale crisi di sovraccumulazione capitalista: gigantesco vomito di chi ha creduto di potersi inghiottire il mondo, ma non ha potuto digerirlo.
Le crisi attuali hanno un contesto di concentrazione crescente del potere corporativo, appropriazione di risorse naturali e deregolamentazione o leggi che beneficiano le imprese e gli speculatori finanziari.
Nel 2003, il valore globale delle fusioni e delle acquisizioni è stato di 1,3 miliardi di dollari. Nel 2007, è arrivato a 4,48 miliardi. Nell’industria alimentaria, il valore delle fusioni e degli acquisti tra imprese si è raddoppiato tra il 2005 ed il 2007 e la debacle finanziaria ha fatto fallire alcune imprese, favorendo oligopoli ancora più chiusi.
Che cosa significa questo per la gente comune? La relazione del Gruppo ETC “Di chi è la natura?” offre un’analisi nel contesto storico della concentrazione corporativa di settori chiave nelle ultime tre decadi.
Ha seguito le manovre di mercato delle cosiddette “industrie della vita” (biotecnologia in agricoltura, alimentazione e farmaceutica), aggiungendo ora le imprese che fanno convergere la biotecnologia con la nanotecnologia e la biologia sintetica, promuovendo nuove generazioni di agrocombustibili e cercando di generare un’economia post industria petrolifera, basata sull’uso di carboidrati e la vita artificiale.
Il settore agroalimentare continua ad essere uno degli esempi più devastanti, in quanto nessuno può vivere senza mangiare. È inoltre il maggior “mercato” al mondo e per queste due ragioni le multinazionali si sono lanciate con aggressività per cercare di controllarlo.
Nelle ultime 3-4 decadi, è passato da una situazione di quasi totale controllo da parte di piccoli agricoltori e mercati locali e nazionali, ad essere uno dei settori industriali globali con maggiore concentrazione corporativa. È quindi stato necessario un cambiamento radicale nelle forme di produzione e commercio di alimenti. Grazie ai trattati di “libero” commercio, l’agricoltura e gli alimenti si sono trasformati sempre più in merci da esportazione, in un mercato globale controllato da una ventina di multinazionali. Secondo una relazione della Fao sui mercati dei prodotti alimentari primari, agli inizi degli anni 60 i paesi del Sud globale avevano un’eccedenza commerciale agricola di circa 7 miliardi di dollari all’anno.
Alla fine degli anni 80 quest’eccedenza era scomparsa. Oggi tutti i paesi del Sud importano alimenti.
Durante gli anni 60, quasi la totalità delle sementi erano in mano agli agricoltori od alle istituzioni pubbliche. Oggi, l’82 per cento del mercato commerciale delle sementi dipende dalle proprietà intellettuali e dieci imprese controllano il 67 per cento di questo settore.
Queste stesse imprese (Monsanto, Syngenta, DuPont, Bayer, etc.) sono per la maggior parte produttrici di pesticidi, settore questo in cui le dieci maggiori imprese controllano l’89 per cento del mercato globale e sono anche tra le dieci più grandi imprese di farmaceutica veterinaria, controllando il 63 per cento di questo mercato.
Le dieci maggiori imprese di alimenti processati (Nestlé, PepsiCo, Kraft Foods, Coca-Cola, Unilever, Tyson Foods, Cargill, Mars, ADM, Danone), controllano il 26 per cento del mercato e cento catene di vendite al dettaglio controllano il 40 per cento del mercato globale.
Nel 2002, le vendite globali di sementi e pesticidi sono state di 29 miliardi dollari, quelle di alimenti processati di 259 miliardi e quelle delle catene di vendite al dettaglio di 501 miliardi.
Nel 2007, questi tre settori hanno aumentato le vendite a 49 miliardi, 339 e 720 miliardi di dollari rispettivamente.
L’impresa WalMart continua ad essere l’impresa più grande del mondo, essendo la 26 delle 100 più grandi economie del pianeta, di gran lunga superiore al Pil di interi paesi come la Danimarca, il Portogallo, il Venezuela o Singapore.
Dalle sementi al supermercato, le multinazionali vogliono imporre che cosa seminare, come mangiarlo e dove comprarlo. Di fronte alle crisi ci prescrivono sempre la stessa cosa: più industrializzazione, più chimici, più transgenici ed altre tecnologie ad alto rischio, più libero commercio.
Non è tanto strano, dato che hanno ottenuto grandi vantaggi dall’aumento dei prezzi e dalla fame, con un aumento del 108 per cento dei loro guadagni.
È anche cresciuta la disparità di entrate individuali a livello mondiale. La ricchezza accumulata dalle 1.125 persone più ricchi del mondo (4,4 miliardi di dollari) è quasi equivalente al Pil del Giappone, seconda potenza economica mondiale dopo gli Stati Uniti. Questa cifra è maggiore della somma delle entrate della metà della popolazione adulta del pianeta.
Nel 2007, 50 amministratori di fondi finanziari (hedge funds ed equity funds), i grandi speculatori che hanno provocato la “crisi”, hanno guadagnato una media di 588 milioni di dollari, circa 19 mila volte di più di un lavoratore statunitense tipo e circa 50 mila volte più di un latinoamericano. Sempre nel 2007, il direttore esecutivo della finanziaria Lehman Brothers, ora in bancarotta, ha guadagnato 17 mila dollari all’ora (dati dell’Institute for Policy Studies).
Riassumendo, un’assurda minoranza di imprese ed alcuni miliardari che possiedono le loro azioni controllano enormi percentuali delle industrie e dei mercati che sono basilari per la sopravvivenza, come quelli degli alimenti e della salute. Questo permette loro una pesante ingerenza nelle politiche nazionali ed internazionali, modellando le regole ed i modelli di produzione e consumo che si applicano nei paesi in base ai propri interessi.
È quindi urgente un cambiamento profondo del modello di agroalimentazione industriale e corporativa, includendo una forte critica a quelli che, in nome della crisi alimentaria e climatica, vogliono imporci lo stesso modello a base di transgenici e agrocombustibili.
Esistono già delle soluzioni e sono diametralmente opposte: sovranità alimentare a partire da economie agricole decentrate, differenziate e libere da brevetti, basate sulla conoscenza e sulle culture contadine.
Nota:
articolo originale http://www.rebelion.org/noticia.php?id=78510
Inserito in Nicarahuac n. 103 di Ass. Italia-Nicaragua
© (Traduzione Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua http://%20www.itanica.org/
mercoledì 25 febbraio 2009
La solidarietà internazionale nella Striscia mentre l’emergenza umanitaria continua
Gaza - Intervista a Vittorio Arrigoni, ISM
Dal sito del Free Gaza movement la denuncia di nuovi attacchi nei confronti della popolazione palestinese e degli stessi civili internazionali. "Dalla fine dell’Operazione Piombo Fuso l’esercito israeliano ha dichiarato "zona militare inaccessibile" la terra che si trova a un kilometro dal confine. In alcune parti la Striscia di Gaza è larga solo tre kilometri, ciò significa che un terzo della terra palestinese non dovrebbe essere accessibile ai palestinesi che tentano di vivere o sopravvivere con l’agricoltura a rischio della propria vita. Sono già due i contadini uccisi dall’esercito e diversi i ferimenti fra i pescatori di Gaza City e di Rafah. Se i pescherecci si spostano di un miglio e mezzo dalla costa vengono intercettati e trivellati di colpi." Con gli accompagnatori internazionali, gli agricoltori palestinesi sono più sicuri che se andassero da soli nei campi" sottolinea Vittorio Arrigoni dell’ISM (International Solidarity Movement). Proprio questo fine settimana l’esercito ha aperto il fuoco ferendo ad una gamba un agricoltore. Domani si preplica, ma la situazione in tutta la Striscia rimane drammatica. "Siamo ancora in piena emergenza umanitaria", continua Vittorio " i valichi continuano ad essere tenuti chiusi o aperti con il contagocce".
[ audio ]
Vedi anche:Attivisti Internazionali per i diritti umani accompagnano agricoltori a Khoza’
Dal sito del Free Gaza movement la denuncia di nuovi attacchi nei confronti della popolazione palestinese e degli stessi civili internazionali. "Dalla fine dell’Operazione Piombo Fuso l’esercito israeliano ha dichiarato "zona militare inaccessibile" la terra che si trova a un kilometro dal confine. In alcune parti la Striscia di Gaza è larga solo tre kilometri, ciò significa che un terzo della terra palestinese non dovrebbe essere accessibile ai palestinesi che tentano di vivere o sopravvivere con l’agricoltura a rischio della propria vita. Sono già due i contadini uccisi dall’esercito e diversi i ferimenti fra i pescatori di Gaza City e di Rafah. Se i pescherecci si spostano di un miglio e mezzo dalla costa vengono intercettati e trivellati di colpi." Con gli accompagnatori internazionali, gli agricoltori palestinesi sono più sicuri che se andassero da soli nei campi" sottolinea Vittorio Arrigoni dell’ISM (International Solidarity Movement). Proprio questo fine settimana l’esercito ha aperto il fuoco ferendo ad una gamba un agricoltore. Domani si preplica, ma la situazione in tutta la Striscia rimane drammatica. "Siamo ancora in piena emergenza umanitaria", continua Vittorio " i valichi continuano ad essere tenuti chiusi o aperti con il contagocce".
[ audio ]
Vedi anche:Attivisti Internazionali per i diritti umani accompagnano agricoltori a Khoza’
Facce nere in sciopero per 18 mesi - II parte
IL PADRONE
German Larrea, il colosso del sottosuolo col governo alle spalle.
Il Grupo Mexico non è un'impresa qualsiasi. Anzi, si potrebbe dire che la sua affermazione nel campo minerario a livello internazionale (è il terzo produttore al mondo di rame, il secondo di molibdeno, il quarto di argento e l'ottavo di zinco) è una di quelle classiche storie di arricchimento vertiginoso costruito con influenze e violazione impunita dei diritti dei lavoratori e delle leggi. La forza economica e politica dell'impresa le permette di espandersi per tutto il continente americano, dove acquisisce, per esempio, quella che oggi si conosce come la Southern Coper Corp., la importantissima impresa mineraria peruviana. I minatori che oggi protestano parlano di disinteresse e cinismo da parte del Grupo Mexico. Ed effettivamente i molteplici appelli da parte del sindacato sono rimasti tutti inascoltati. La storia del sindacato dei minatori in Messico mostra almeno due tappe. La prima, in cui l'impresa dimostra una certa tolleranza verso l'organizzazione dei lavoratori. Un periodo felice, in cui il sindacato gode di riconoscibilità e di benefici. Poi arriva la crisi economica del 2000 e l'impresa cambia rotta: ridurre i costi, a qualsiasi prezzo. La presenza del sindacato evidentemente innalza i costi di produzione. Comincia così la guerra tra German Larrea Mota-Velasco, il proprietario del Grupo Mexico e oggi azionista di maggioranza del maggior gruppo televisivo messicano, Televisa, e i lavoratori. E siccome tutto mondo è paese, l'imprenditore non ci pensa su due volte e cerca appoggio presso il governo «imprenditoriale» di Vicente Fox, allora presidente messicano. L'alleanza tra le due parti non tarda a manifestarsi. Nel 2006, subito dopo la tragedia di Pasta de Conchos, Vicente Fox, attraverso il procuratore generale delle repubblica che aveva nominato e che controllava, accusa di furto Napoleon Gomez Urrutia, il segretario nazionale del sindacato. «Napito» (come è chiamato per distinguerlo dal padre Napoleon Gomez Sada, a sua volta capo del sindacato minatori per quarant'anni) secondo l'accusa avrebbe rubato 55 milioni di dollari in azioni che il Grupo Mexico aveva ceduto al sindacato nel quadro dell'acquisto del sistema minerario proprietà dello Stato. «Un'accusa costruita ad arte da parte del governo federale», denunciano i minatori. Vera o falsa (probabilmente vera, ma per cifre molto diverse) l'accusa effettivamente non è stata mai ancora provata. Ma tanto è bastato perché le autorità federali scatenassero tutta la loro forza contro il sindacato. Assieme all'accusa, infatti, il governo riuscì a imporre una votazione straordinaria all'interno dell'organizzazione sindacale imponendo un proprio uomo, Elías Morales Hernández. È il golpe all'interno del sindacato. Pochi mesi dopo, nel maggio 2006, Gomez Urrutia scappava in Canada e chiedeva asilo politico. In Messico rimangono i minatori a lui fedeli - la maggioranza - che non riconoscono il nuovo segretario e continuano nella loro lotta. La nuova amministrazione federale, capitanata dal fraudolento Felipe Calderon, ha ripreso la battaglia contro il sindacato. Calderon non risparmia forze, non solo facendo pressioni sui lavoratori in sciopero con l'invio di centinaia di agenti della temibile polizia federale ma anche riprendendo la via legale: accuse e denunce contro i quadri intermedi del grande e potente sindacato nazionale, e alcuni arresti eccellenti come quelli contro il numero due e tre dell'organizzazione, lo scorso mese di dicembre. Una battaglia, spiegano i minatori, che si combatte su più fronti e che trova, nonostante la storica dispersione e divisione all'interno del sindacalismo messicano, la solidarietà di sostanzialmente tutte le sigle sindacali nazionali. La lotta dei minatori si configura oggi come una battaglia che deve essere vinta innanzitutto dal sindacalismo messicano. Le ragioni sono semplici. Innanzitutto c'è il rischio che con se dovesse vincere l'impresa alleata al governo, si affermerebbe un pericoloso precedente per tutti gli altri sindacati, vista la forza e la capacità organizzativa e disciplinare del sindacato dei minatori. «Se vincono contro i minatori ci investono tutti», è la frase che tutti pronunciano per cercare di spiegare il pericolo imminente. Un pericolo reale, proprio ora che il governo federale, grazie alla crisi economica che qui impone previsioni di crescita economica attorno al meno 1%, vorrebbe varare l'annunciata riforma della legge del lavoro, stessa che si prevede introdurrebbe i contratti-prova, legalizzerebbe la contrattazione temporale e il lavoro interinale. E poi vi è il problema della violazione alla libertà sindacale. Il caso dei minatori non è l'unico, al contrario. Ma negli ultimi anni è diventato il caso paradigmatico delle ingerenze che un'impresa alleata o meno al governo può esercitare all'interno della vita sindacale. Il governo se ne lava le mani, forte di una legge che gli permette riconoscere o meno un segretario sindacale con la cosiddetta toma de nota, di memoria fascista. La stessa Federazione internazionale dei sindacati metalmeccanici (Fism) ha recentemente inviato una denuncia all'Organizzazione internazionale del lavoro in cui segnala «la mancanza di libertà sindacale in Messico», citando giustamente il caso dei minatori.
Matteo Dean
German Larrea, il colosso del sottosuolo col governo alle spalle.
Il Grupo Mexico non è un'impresa qualsiasi. Anzi, si potrebbe dire che la sua affermazione nel campo minerario a livello internazionale (è il terzo produttore al mondo di rame, il secondo di molibdeno, il quarto di argento e l'ottavo di zinco) è una di quelle classiche storie di arricchimento vertiginoso costruito con influenze e violazione impunita dei diritti dei lavoratori e delle leggi. La forza economica e politica dell'impresa le permette di espandersi per tutto il continente americano, dove acquisisce, per esempio, quella che oggi si conosce come la Southern Coper Corp., la importantissima impresa mineraria peruviana. I minatori che oggi protestano parlano di disinteresse e cinismo da parte del Grupo Mexico. Ed effettivamente i molteplici appelli da parte del sindacato sono rimasti tutti inascoltati. La storia del sindacato dei minatori in Messico mostra almeno due tappe. La prima, in cui l'impresa dimostra una certa tolleranza verso l'organizzazione dei lavoratori. Un periodo felice, in cui il sindacato gode di riconoscibilità e di benefici. Poi arriva la crisi economica del 2000 e l'impresa cambia rotta: ridurre i costi, a qualsiasi prezzo. La presenza del sindacato evidentemente innalza i costi di produzione. Comincia così la guerra tra German Larrea Mota-Velasco, il proprietario del Grupo Mexico e oggi azionista di maggioranza del maggior gruppo televisivo messicano, Televisa, e i lavoratori. E siccome tutto mondo è paese, l'imprenditore non ci pensa su due volte e cerca appoggio presso il governo «imprenditoriale» di Vicente Fox, allora presidente messicano. L'alleanza tra le due parti non tarda a manifestarsi. Nel 2006, subito dopo la tragedia di Pasta de Conchos, Vicente Fox, attraverso il procuratore generale delle repubblica che aveva nominato e che controllava, accusa di furto Napoleon Gomez Urrutia, il segretario nazionale del sindacato. «Napito» (come è chiamato per distinguerlo dal padre Napoleon Gomez Sada, a sua volta capo del sindacato minatori per quarant'anni) secondo l'accusa avrebbe rubato 55 milioni di dollari in azioni che il Grupo Mexico aveva ceduto al sindacato nel quadro dell'acquisto del sistema minerario proprietà dello Stato. «Un'accusa costruita ad arte da parte del governo federale», denunciano i minatori. Vera o falsa (probabilmente vera, ma per cifre molto diverse) l'accusa effettivamente non è stata mai ancora provata. Ma tanto è bastato perché le autorità federali scatenassero tutta la loro forza contro il sindacato. Assieme all'accusa, infatti, il governo riuscì a imporre una votazione straordinaria all'interno dell'organizzazione sindacale imponendo un proprio uomo, Elías Morales Hernández. È il golpe all'interno del sindacato. Pochi mesi dopo, nel maggio 2006, Gomez Urrutia scappava in Canada e chiedeva asilo politico. In Messico rimangono i minatori a lui fedeli - la maggioranza - che non riconoscono il nuovo segretario e continuano nella loro lotta. La nuova amministrazione federale, capitanata dal fraudolento Felipe Calderon, ha ripreso la battaglia contro il sindacato. Calderon non risparmia forze, non solo facendo pressioni sui lavoratori in sciopero con l'invio di centinaia di agenti della temibile polizia federale ma anche riprendendo la via legale: accuse e denunce contro i quadri intermedi del grande e potente sindacato nazionale, e alcuni arresti eccellenti come quelli contro il numero due e tre dell'organizzazione, lo scorso mese di dicembre. Una battaglia, spiegano i minatori, che si combatte su più fronti e che trova, nonostante la storica dispersione e divisione all'interno del sindacalismo messicano, la solidarietà di sostanzialmente tutte le sigle sindacali nazionali. La lotta dei minatori si configura oggi come una battaglia che deve essere vinta innanzitutto dal sindacalismo messicano. Le ragioni sono semplici. Innanzitutto c'è il rischio che con se dovesse vincere l'impresa alleata al governo, si affermerebbe un pericoloso precedente per tutti gli altri sindacati, vista la forza e la capacità organizzativa e disciplinare del sindacato dei minatori. «Se vincono contro i minatori ci investono tutti», è la frase che tutti pronunciano per cercare di spiegare il pericolo imminente. Un pericolo reale, proprio ora che il governo federale, grazie alla crisi economica che qui impone previsioni di crescita economica attorno al meno 1%, vorrebbe varare l'annunciata riforma della legge del lavoro, stessa che si prevede introdurrebbe i contratti-prova, legalizzerebbe la contrattazione temporale e il lavoro interinale. E poi vi è il problema della violazione alla libertà sindacale. Il caso dei minatori non è l'unico, al contrario. Ma negli ultimi anni è diventato il caso paradigmatico delle ingerenze che un'impresa alleata o meno al governo può esercitare all'interno della vita sindacale. Il governo se ne lava le mani, forte di una legge che gli permette riconoscere o meno un segretario sindacale con la cosiddetta toma de nota, di memoria fascista. La stessa Federazione internazionale dei sindacati metalmeccanici (Fism) ha recentemente inviato una denuncia all'Organizzazione internazionale del lavoro in cui segnala «la mancanza di libertà sindacale in Messico», citando giustamente il caso dei minatori.
Matteo Dean
FACCE NERE IN SCIOPERO PER 18 MESI - I parte
di Matteo Dean
Da un anno e mezzo il sindacato dei minatori blocca gli storici giacimenti di Taxco, Sombrerete e Cananea, dove nacque (con una strage del 1906) il movimento sindacale messicano. Il padrone è il super-ricco numero tre del paese, miracolato dalle privatizzazioni. E il leader del sindacato è costretto a fuggire in Canada inseguito dai mandati di cattura. Il 30 gennaio scorso, i minatori del «Sindacato nazionale dei lavoratori minatori e metalmeccanici della Repubblica messicana» (Sntmmrm) hanno compiuto 18 mesi di sciopero presso le tre miniere di Taxco, Sombrerete e Cananea, senza che si intraveda all'orizzonte una soluzione al lungo conflitto che oppone i minatori ad una delle imprese più potenti del paese, il Grupo Mexico. Iniziato per cause legate alla revisione salariale del contratto collettivo nazionale e per questioni di sicurezza sul posto di lavoro, la protesta dei minatori è diventata una questione politica che coinvolge ormai non solo le due parti, ma lo stesso governo messicano. Questo infatti, ancor prima che scoppiasse la dura protesta del sindacato, ha preso parte al conflitto schierandosi apertamente dalla parte dell'impresa di German Larrea Mota-Velasco, il potente imprenditore del nord del paese che ad inizio anni 90, grazie alle privatizzazioni, si è impossessato della maggior parte delle ricchezze del sottosuolo messicano ed oggi è il super-ricco messicano numero tre, e 127 del mondo secondo Forbes. Sono miniere storiche. A Cananea nacque il movimento sindacale in Messico, quando nel 1906 il governatore chiamò i Rangers dall'Arizona per reprimere uno sciopero nella miniera di rame contro la Anaconda copper company: 23 morti. Cento anni dopo le pessime condizioni lavorative, il deterioro dei parametri di sicurezza sul lavoro e l'obsolescenza delle strutture al limite del collasso strutturale, oltre alla negazione da parte dell'impresa della richiesta di revisione salariale, sono tra le cause della protesta. Poco meno di dieci euro al giorno per un turno di otto ore a novecento metri sottoterra sono precisamente le condizioni che i minatori pongono al centro della protesta. E inoltre la mancanza di caschi, guanti e vestiario adatto. Le malattie professionali non si contato, a cominciare dalla silicosi che, dice il sindacato, colpisce praticamente ogni minatore. L'impresa, secondo i lavoratori, non presta attenzione a queste situazioni. Se per contratto un minatore dovrebbe lavorare un massimo di 13 anni dentro la miniera, l'impresa vanta lavoratori con un'anzianità di oltre trent'anni. E quando li manda in pensione, spiegano i sindacalisti, «fa di tutto per negare o ridurre l'indennità per malattia». A questa situazione si aggiunge l'arrivo presso le miniere di un numero ancora impreciso di lavoratori esterni. Contrattati il più delle volte attraverso imprese fantasma, i lavoratori esterni smettono di essere precari, e diventano veri e propri schiavi: 3 euro al giorno, turni da 12 a 14 ore continue per attività che vengono definite «speciali»: esplorazione, apertura di nuove gallerie, utilizzo di esplosivi. Non godono di alcun tipo di protezione sociale, come per esempio la ripartizione dei guadagni dell'impresa (garantita per legge a tutti i lavoratori), non godono di vacanze pagate e nella maggior parte dei casi hanno contratti della durata massima di un mese. Racconta un dirigente del sindacato: «Una volta, un esterno s'è infortunato. L'impresa si rifiutò di chiamare l'ambulanza perché diceva che non era un suo lavoratore. Dovemmo portarlo noi in ospedale e fare colletta per pagargli le cure».Se fosse poco, il sindacato denuncia la precarietà delle strutture: macchinari vecchi, strutture fatiscenti, mancanza di filtri per le emissioni che inquinano aria e fiumi nei territori circostanti. Un esempio su tutti: l'8 agosto 2007, solo pochi giorni dopo l'occupazione da parte dei lavoratori della miniera di Taxco, a duecento chilometri a sud della capitale del paese, un'enorme frana si staccava e cadeva per centinaia di metri nel fosso principale della miniera. «Se fossimo stati lì, ci sarebbero stati almeno un'ottantina di morti», denuncia il segretario locale del sindacato, Roberto Hernández Mojica. E aggiunge: «Pasta de Conchos non ha insegnato nulla». Il riferimento è obbligato: all'alba del 19 febbraio 2006, un anno prima che i minatori cominciassero a protestare, un'esplosione di grisù bloccò e poi seppellì 65 minatori del carbone. Sino ad oggi nessun corpo è stato ancora recuperato. Vivere 18 mesi di sciopero non è una cosa facile. L'impresa ha pagato un'imponente campagna mediatica con l'unico scopo di screditare la dirigenza sindacale. Ed anche se è vero che nel sindacato non sono tutti santi, i dirigenti delle miniere in sciopero pagano le conseguenze come gli altri. «Si vive senza salario e grazie all'aiuto dell'organizzazione nazionale», spiega Roberto Hernández Mojica, segretario locale presso la miniera di Taxco. Sua moglie ammette le privazioni ma non senza un certo orgoglio: «Ci sono conseguenze materiali, chiaro. Non andiamo più fuori a cena, non possiamo comprare molti vestiti nuovi. Ma resistiamo, perché mio marito e i suoi colleghi hanno ragione». Il figlio appena maggiorenne racconta: «Prima, con il salario di mio padre appena si sopravviveva, ma ora è peggio». Mancano le scarpe nuove, mancano i soldi per portare fuori la ragazza. Ciononostante, il giovane dice che quando si può, cerca di aiutare lo sforzo dei genitori. «A volte vado in miniera con mio padre per appoggiare il presidio».
Il piccolo Ahmad si risveglia cieco dopo dodici giorni di coma
Gaza – Infopal. Come sono stati difficili i giorni che il piccolo Ahmad ha passato nel reparto di cure intensive all’ospedale al-Shifa! I medici che lo hanno curato per 12 giorni lo davano per cerebralmente morto, ma si è risvegliato, senza che i suoi occhi, spenti dalle pallottole israeliane durante il massacro di Gaza, tornassero a vedere.
Una pallottola. Ahmad non immaginava che alla sua età non avrebbe potuto più giocare con i suoi amici. Il padre del bambino racconta: “A mio figlio piaceva uscire a giocare. Durante l’aggressione di Gaza doveva restare in casa. Dopo tante suppliche gli ho dato il permesso di uscire, chiedendogli di non far tardi. Era il giorno del ritiro israeliano dopo il massacro. Non potevo sapere che quelle poche ore di svago sarebbero costate così tanto. Mio figlio è stato colpito alla testa da una pallottola sparata dai soldati israeliani, e si è accasciato a terra, sanguinante. Subito, gli altri bambini avevano pensato che fosse stato colpito da un sasso”.
Il padre rimane qualche istante in silenzio per poi continuare il suo racconto: “L’ho portato prima dal medico, ma appena saputo che non si trattava di un sasso ma di una pallottola, l’ho subito accompagnato all’ospedale al-Shifa. Era in coma e vi è rimasto per dodici giorni, in cui è stato sottoposto a terapia intensiva. I medici non sono riusciti a estrarre la pallottola dalla sua testa”. Pareva ormai che non ci fossero più speranze per la guarigione del piccolo Ahmad.
Il padre continua a raccontare: “Dopo 12 giorni di morte clinica, i medici hanno detto di non poter fare più nulla per lui e che avrebbero sospeso l’anestesia. E qui è successo il miracolo: si è svegliato dal coma senza danni al cervello né al corpo, ma aveva perso totalmente la vista”.
Il piccolo Ahmad ora riconosce le persone intorno a lui dalla voce; qualche volta è nervoso e non vuole avere a che fare con nessuno. Faceva la prima elementare e amava molto la scuola e i suoi amici. Diverse volte aveva detto a suo padre: “Papà, sono stufo della guerra, voglio tornare a scuola e giocare con gli amici, basta guerra!”.
Una pallottola. Ahmad non immaginava che alla sua età non avrebbe potuto più giocare con i suoi amici. Il padre del bambino racconta: “A mio figlio piaceva uscire a giocare. Durante l’aggressione di Gaza doveva restare in casa. Dopo tante suppliche gli ho dato il permesso di uscire, chiedendogli di non far tardi. Era il giorno del ritiro israeliano dopo il massacro. Non potevo sapere che quelle poche ore di svago sarebbero costate così tanto. Mio figlio è stato colpito alla testa da una pallottola sparata dai soldati israeliani, e si è accasciato a terra, sanguinante. Subito, gli altri bambini avevano pensato che fosse stato colpito da un sasso”.
Il padre rimane qualche istante in silenzio per poi continuare il suo racconto: “L’ho portato prima dal medico, ma appena saputo che non si trattava di un sasso ma di una pallottola, l’ho subito accompagnato all’ospedale al-Shifa. Era in coma e vi è rimasto per dodici giorni, in cui è stato sottoposto a terapia intensiva. I medici non sono riusciti a estrarre la pallottola dalla sua testa”. Pareva ormai che non ci fossero più speranze per la guarigione del piccolo Ahmad.
Il padre continua a raccontare: “Dopo 12 giorni di morte clinica, i medici hanno detto di non poter fare più nulla per lui e che avrebbero sospeso l’anestesia. E qui è successo il miracolo: si è svegliato dal coma senza danni al cervello né al corpo, ma aveva perso totalmente la vista”.
Il piccolo Ahmad ora riconosce le persone intorno a lui dalla voce; qualche volta è nervoso e non vuole avere a che fare con nessuno. Faceva la prima elementare e amava molto la scuola e i suoi amici. Diverse volte aveva detto a suo padre: “Papà, sono stufo della guerra, voglio tornare a scuola e giocare con gli amici, basta guerra!”.
martedì 24 febbraio 2009
Grecia, esplode la crisi
di Christian Elia, PeaceReporter
Maggioranza e opposizione tentano un accordo nazionale per contenere gli effetti della crisi economica e della tensione sociale. Con il fantasma del terrorismo
Maggioranza e opposizione tentano un accordo nazionale per contenere gli effetti della crisi economica e della tensione sociale. Con il fantasma del terrorismo
Resteranno chiusi in una stanza fino a quando non troveranno un accordo. Il premier greco Costas Karamanlis, dopo aver passato mesi a ridimensionare la rabbia sociale che attraversa il Paese, ha oggi invitato l’opposizione guidata dai socialisti del Pasok per trovare un accordo istituzionale che permetta alla Grecia di tornare a respirare.
Vertice istituzionale. Giorgio Papacostantinou, portavoce del Pasok, ha commentato positivamente l’apertura del premier, garantendo la partecipazione del Pasok al tavolo di emergenza, ma mantenendo ’’molte e grandi riserve’’ sulla politica economica del governo. L’annuncio di Karamanlis, infatti, arriva due giorni dopo l’annuncio dell’Ue di imminenti procedure disciplinari nei confronti dei paesi che stanno sfondando il 3 percento del deficit di bilancio. Una procedura che toglie uno dei pochi strumenti per tentare di sostenere l’economia. Tra loro anche la Grecia. La crisi economica, che non è solo nel Paese ellenico, colpisce in particolare le economie più deboli e, a differenza che altrove, in Grecia sta comportando un’ondata di rabbia popolare senza precedenti. I sondaggi, da qualche mese, danno in vantaggio il Pasok che chiede da tempo elezioni anticipate. Nei giorni scorsi i toni erano diventati roventi. ’’Atene, ormai, è come Kabul o Baghdad’’, ha dichiarato venerdì scorso Michalis Chrysochoidis, ex ministro socialista degli Interni. Magari un’esagerazione a fini elettorali, ma la realtà degli ultimi mesi in Grecia è davvero pesante. Il Pasok, però, si è reso conto che non può approfittare oltre misura delle difficoltà del governo, perché l’elettorato medio comincia a essere impaurito e partecipare al tavolo di emergenza nazionale é un sintomo di maturità. Ma che succede tutt’attorno ai palazzi del potere?
Crisi di sistema. Lo sciopero dei camionisti, che da due giorni paralizzano i principali porti greci, è solo l’ultimo di una serie di grandi scioperi nazionali. Gli autotrasportatori chiedono una politica efficace dell’esecutivo nei confronti dell’immigrazione illegale, che ha nella Grecia una delle porte privilegiate d’ingresso in Europa, e delle merci contraffatte. Negli ultimi mesi si sono astenuti dal lavoro, nell’ordine, i medici, gli insegnanti, i pescatori, i portuali e i contadini. A questo si sono aggiunti gli studenti, rabbiosi dopo l’assassinio da parte della polizia di un uno di loro ad Atene, Alexis Grigoropulos, e i detenuti che protestavano per le disastrose condizioni dei penitenziari. Tutti gli scioperi si sono caratterizzati per un elevato livello di scontro con le forze dell’ordine e contro il governo. Il timore più grande, però, è che questa rabbia non trovi più i tradizionali canali di controllo, come partiti e sindacati. Solo la settimana scorsa ci sono stati altri due attentati ad Atene. Bombe contro un’emittente televisiva e contro una banca. La matrice degli attacchi, secondo gli inquirenti, è di stampo anarchico. Il gruppo indiziato, che non ha però rivendicato le azioni, è la Setta dei Rivoluzionari, che ha recentemente minacciato i giornalisti in quanto ’’omogenei al sistema’’. Secondo la polizia, esiste un legame tra questo gruppo e Lotta Rivoluzionaria, erede dell’organizzazione marxista 17 Novembre, attiva negli anni Settanta. Un periodo oscuro per la Grecia e non solo, che si nutriva della crisi di quegli anni. La riunione tra maggioranza e opposizione non sarà la soluzione di tutti i mali, ma è il segnale che in Grecia si manifestano prima che altrove i segni della crisi economica che sta mettendo in crisi il modello di gestione neoliberista nel mondo.
Gli effetti della crisi in Russia colpiscono gli estremi della scala sociale
Intervista ad Astrit Dakli
D: Parliamo molto in questo periodo degli effetti di quella che viene definita "crisi globale", una crisi che naturalmente colpisce anche la stessa Russia. Quali sono gli effetti di questa crisi?
D: Parliamo molto in questo periodo degli effetti di quella che viene definita "crisi globale", una crisi che naturalmente colpisce anche la stessa Russia. Quali sono gli effetti di questa crisi?
R: La Russia sta vivendo molto male questa crisi globale, molto male perchè è un risveglio particolarmente brusco e sgradevole. Fino a pochi mesi fa i cittadini russi e lo stesso governo erano convinti di vivere in una situazione di grande forza, di progresso e di crescita molto rapida. Il paese era considerato ed era, una delle economie a più rapido sviluppo accompagnata poi al fatto di essere una tradizionale potenza militare e di avere una grande ricchezza di risorse. Insomma tutto faceva della Russia un paese molto potente e in grande crescita. Ora la crisi è venuta a colpire in maniera drammatica questa crescita e a far precipitare di colpo invece, in una situazione, non di povertà perché non è così, ma di grave freno su tutto quanto per vari motivi.In primo luogo perché con la crisi è crollato il prezzo del petrolio. Essendo in crisi l’economia mondiale le previsioni sul consumo di carburanti sono diminuite moltissimo ed è crollata la principale fonte di entrate del commercio estero di questo paese: carburanti, combustibili e gas. Contemporaneamente una delle voci maggiori di sviluppo interno era data dall’edilizia ed anche qui con la crisi finanziaria, la crisi delle banche, la difficoltà di credito che sono globali, nei posti in cui c’è uno sviluppo edilizio particolarmente intenso questo effetto è stato molto più grave perché questo sviluppo viene bruscamente fermato dalla mancanza di credito. Il risultato è che quasi tutti i cantieri, ed erano tanti i cantieri in un paese come la Russia, si sono fermati. Solo a Mosca c’erano migliaia di grandi cantieri. Questo stop improvviso al settore immobiliare e al settore petrolifero sono stati un shock fortissimo. Per ora questa crisi viene pagata soprattutto ai due estremi della scala sociale. I miliardari che avevano fortissimi investimenti di tipo finanziario si sono visti tagliare il proprio patrimonio in maniera impressionante. Ci sono dei dati che drammatici, personaggi che avevano patrimoni stimati in 20/30 miliardi di dollari se li sono visti ridurre a 5 o 6, perdite quasi inconcepibili nella loro dimensione. All’altro estremo della scala sociale i più colpiti sono stati i milioni di immigrati che arrivano in Russia e vivono in maniera semi-clandestina in condizioni tremende e lavorano proprio nell’edilizia nella stragrande maggioranza. Si sono trovati di colpo senza lavoro, senza nessun tipo di prospettiva, senza nessuna legalità di vita.
D: Da questa immagine dei due estremi della scala sociale che sono i primi ad essere toccati dalla gravità della crisi viene fuori anche un’immagine di una società che, come tutte le società a livello globale, si confronterà con temi come quello del protezionismo. Anche in Russia si sta assistendo a queste forme di neo-protezionismo che immagino sia soprattutto nei confronti degli immigrati?
R: Certo gli immigrati sono i primi a pagare in quanto sono una presenza semi-legale o del tutto illegale anche se ben accettata in quanto manodopera sotto pagata. Scontato più di tutti perché perdono sostanzialmente tutto ciò che hanno e non possono nemmeno tornare in patria perché nei loro paesi di origine, che sono soprattutto l’Asia centrale, il Caucaso, la situazione è ancora peggiore quindi non ci sarebbe posto per riaccoglierli. Ma al di là di questa stretta sul lavoro che viene dall’esterno è in corso una drammatica stretta protezionista sul commercio.Il governo ha deciso di imporre molte tasse aggiuntive, dei dazi in pratica, sulle importazioni. La cosa che ha fatto più discutere, che ha provocato anche un’ondata di proteste perfino di manifestazioni di piazza, addirittura violente, è stata la tassa sulle importazioni di auto dall’estero, per cercare di proteggere l’industria dell’auto nazionale. Ma il governo non ha tenuto conto che in alcune parti di questo immenso paese, soprattutto nell’estremo oriente, è molto più conveniente acquistare un’auto, anche usata, all’estero, soprattutto dal Giappone o dalla Corea, piuttosto che far venire un’auto di produzione nazionale.Il risultato è che c’era un’intera economia locale in queste aree dell’estremo oriente che si basava proprio sul commercio, la vendita, la manutenzione, i ricambi, legate a queste auto straniere di importazione. Con queste nuove tasse questo settore è andato in crisi di colpo e ha provocato una vera e propria crisi sociale, con migliaia e migliaia di disoccupati. Quindi invece di proteggere l’occupazione nazionale, alla fine queste misure hanno finito per danneggiarla. Questo naturalmente è solo un esempio, la tendenza spontanea del governo russo in questo periodo è decisamente protezionistica però si scontra con moltissimi problemi nella sua attuazione concreta.
D: In assoluto c’è qualcosa che, anche in maniera sotterranea, allude, come qui in Italia, a questo slogan “La crisi è vostra non la paghiano noi” o dal punto di vista sociale la cosa è molto compressa?
R: Certo che la "compressione" dal punto di vista dell’autorità, quindi repressione, presenza di polizia, difficoltà di fare materialmente queste proteste c’è, ma è del tutto evidente che anche le proteste ci sono. Ormai tutti i weekend da un mese a questa parte centinaia di città russe sono percorse da manifestazioni, certo non oceaniche, si tratta di poche centinaia di persone, però sono manifestazioni che vengono indette, si svolgono, tutti le vedono. Insomma la protesta c’è eccome e gli attori principali sono una parte dei sindacati e per altro verso molto spesso comitati spontanei di cittadini che si formano per protestare magari su una questione molto particolare come quella dell’auto e poi estendono la loro azione anche ad altre cose.Ci sono state proteste molto forti contro l’aumento delle tariffe pubbliche nei trasporti. Piano piano le proteste crescono, sono molto visibili e preoccupano sicuramente il governo.
La tigre celtica non ruggisce più
In 120mila in piazza a Dublino contro le misure economiche del governo
Intervista alla giornalista Orsola Casagrande
Crisi economica e grandi mobilitazioni in Irlanda, paese che ha vissuto uno straordinario sviluppo economico negli anni ’90 grazie soprattutto ai cospicui contributi economici dell’Unione Europea, ad una politica di deregolamentazione del mercato del lavoro e a una politica fiscale che ha incoraggiato gli investimenti esteri tanto che l’Irlanda è stata definita la "tigra celtica". Sabato 22 febbraio una manifestazione oceanica contro le misure anticrisi prese dal governo ha paralizzato Dublino. La giornalista Orsola Casagrande ci offre in questa intervista un quadro della situazione irlandese dentro la crisi globale.
Intervista alla giornalista Orsola Casagrande
Crisi economica e grandi mobilitazioni in Irlanda, paese che ha vissuto uno straordinario sviluppo economico negli anni ’90 grazie soprattutto ai cospicui contributi economici dell’Unione Europea, ad una politica di deregolamentazione del mercato del lavoro e a una politica fiscale che ha incoraggiato gli investimenti esteri tanto che l’Irlanda è stata definita la "tigra celtica". Sabato 22 febbraio una manifestazione oceanica contro le misure anticrisi prese dal governo ha paralizzato Dublino. La giornalista Orsola Casagrande ci offre in questa intervista un quadro della situazione irlandese dentro la crisi globale.
Sabato scorso c’è stata questa enorme manifestazione convocata dai sindacati a Dublino e la partecipazione è stata bel al di là delle aspettative degli stessi sindacati (di 100/120mila persone parlava addirittura la polizia). Una folla mai vista da anni in Irlanda per una manifestazione sindacale che riporta in primo piano tutta la questione dell’economia irlandese, questa "tigre celtica" che da anni non ruggisce più e che forse in realtà, come cominciano a dire anche alcuni commentatori, non ha mai ruggito così tanto come si voleva far credere. Il boom economico degli anni ’90 in Irlanda è stato sicuramente accompagnato da un aumento dei prezzi spaventoso, soprattutto nel mercato immobiliare, ma non solo. A questo boom però non è coincisa una migliore qualità della vita per i tanti lavoratori irlandesi. Le ultime analisi confermano che il boom economico fosse da attribuire soprattutto a quella sorta di "paradiso fiscale" per chi andava a investire nell’isola di smeraldo, soprattutto investitori americani e di alcuni paesi europei. Ben presto però gli investitori americani se ne sono andati per spostarsi verso altri lidi, come l’India o altri paesi dell’Est europeo, portando con sé anche la manodopera con una ricaduta occupazionale sulla popolazione irlandese che non è stata al livello di quello che erano state le aspettative. Oggi si vorrebbe che a pagare la crisi fossero proprio i lavoratori ed é questo che è stato contestato in maniera massiccia dalla manifestazione di sabato scorso a Dublino. Peraltro c’è da ricordare che in Irlanda come in Inghilterra la legislazione in materia sindacale è molto più rigida rispetto a quella italiana ed è molto più complicato sia proclamare uno sciopero che essere presente come sindacato all’interno delle aziende, quindi è stato un doppio successo per il movimento sindacale. I sindacati tramite l’Irish Congress hanno presentato una piattaforma al governo per affrontare i nodi della crisi in maniera “negoziata” e, forti del successo di sabato, hanno scaldato i motori convocando già per giovedì prossimo una manifestazione del pubblico impiego. Sul piede di guerra anche il sindacato dei trasporti e quello del settore privato. In questa situazione potrebbero ritrovare un’unità che non hanno da anni, i lavoratori del settore privato e quelli del settore pubblico che in Irlanda sono sempre stati molto divisi.
Una tigre, dicevamo, che non ruggisce più da tempo e non solo a causa degli effetti di crisi strutturale che sta colpendo tutti. Qual’è la situazione economica dell’Irlanda?
I meccanismi per cui molte delle imprese che hanno poi investito in Irlanda in questi anni, gli americani soprattutto, si sono portati dal proprio paese i lavoratori e la manodopera specializzata hanno prodotto il fatto che i lavori rimasti agli "irlandesi" erano i quelli meno pagati e più precari. Anche qui come in Inghilterra grande flessibilità, grandi spostamenti e cambiamenti di lavoro e pochissima sicurezza anche dal punto di vista sociale e materiale. Tutto questo a fronte di una popolazione che vive per oltre due terzi a Dublino (l’Irlanda ha 3.5 milioni di abitanti e quasi 2 milioni vivono nella capitale) con aeree e interi quartieri molto poveri e aree rurali non floride. A questo si aggiunge un aumento dei prezzi veramente spaventoso e l’arrivo massiccio di immigrati che da un lato hanno iniziato a svolgere dei lavori sottopagati e dall’altro hanno portato ad una serie di situazioni di forte disagio in aeree in cui il disagio era già forte. Anche il governo irlandese, come molti altri a livello europeo, ha una legislazione sull’immigrazione molto rigida che ha creato notevoli problemi per gli immigrati che arrivano su quest’isola.
venerdì 20 febbraio 2009
Arundhati Roy: "Giustizia o guerra civile: la mia India a un bivio"
"Gli attivisti non si stancano, e io sono stanca"
«Il romanzo e il saggio sono come la sinistra e la destra del miocorpo. E io sto provando a essere ambidestra». Quasi un tormento per Arundhati Roy che ha messo il rapporto tra potere e impotenza al centro di ogni forma di scrittura. Il dio delle piccole cose, bestseller internazionale e Booker Prize nel 1997 da lei definito «un romanzo politico», è rimasto la sua prima e unica opera di narrativa. Da allora la scrittrice indiana è diventata la voce dei senza voce. Cortei, sit-in, scioperi della fame e tanti saggi.
Ha così incanalato la sua energia creativa in impegno militante, denunciando soprusi e ingiustizie: dalle grandi dighe sul fiume Narmada, che hanno lasciato senza terra milioni di contadini, alle persecuzioni dei musulmani per la «deriva fascista» dei fondamentalisti indù. Per anni è stata una scelta: «Nel mio caso la narrativa scaturisce senza sforzo. Il saggio invece nasce con fatica dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina» scriveva nel 2002 in Settembre alle porte. Oggi però le cose sono cambiate: «Sto cercando di scrivere il mio secondo romanzo, ma non è facile», ammette dalla sua casa di New Delhi. Una frase che rivela la fatica che sta facendo a indossare di nuovo i panni della narratrice. Già due anni fa aveva confessato al Guardian: «Ho detto tutto quello che potevo sulla globalizzazione, come scrittrice devo andare in un posto diverso». Ma il «trasloco» non è ancora riuscito. Da qualche tempo va ripetendo: «Non sono un’attivista. Gli attivisti non si stancano mai, mentre io sono esausta».
Eppure fino alla scorsa settimana, per San Valentino, era in prima linea al fianco di studenti e docenti universitari a una manifestazione contro le ronde moralizzatrici dei fondamentalisti indù che a gennaio hanno aggredito alcune ragazze in un discopub di Mangalore, accusandole di «comportamenti osceni», atti contro le tradizioni indiane, segnali indecenti della contaminazione occidentale. «Una guerra di classe combattuta sul corpo delle donne» l’ha definita Roy. La scrittrice, un’infanzia di esclusione sociale alle spalle (è cresciuta nel Kerala con la madre divorziata), ha preso la parola leggendo un brano del Dio delle piccole cose, saga familiare che la passione di una donna per un intoccabile trasforma in tragedia. «Sono fuggita da casa a 16 anni perché era intollerabile l’idea di crescere in un piccolo villaggio — ha ricordato alla folla con il microfono in mano, il corpo minuto e aggraziato che sprigiona carisma, qualche filo grigio ad accennare ai suoi 47 anni portati da ragazzina —. Sono fuggita per essere felice, libera, loro vogliono toglierci l’aria e impedirci di respirare. Dobbiamo reclamare l’aria, dobbiamo farlo ogni giorno».
E lei continua a farlo. «Scrivere saggi è soltanto un altro modo di capire la società in cui viviamo. Più diretto, pressante, a volte molto importante, soprattutto se vivi in una parte del mondo che sta sbandando verso il fascismo sotto i tuoi occhi». Ma Roy non considera la lotta per i diritti umani una prerogativa degli intellettuali. «Non prescriverei mai un ruolo prefissato agli scrittori: come gli idraulici o i meccanici, non sono un gruppo omogeneo con un unico orientamento culturale. Alcuni lavorano stando dalla parte dei governanti, altri dalla parte dei governati. Così pure per attori, giornalisti, sportivi, musicisti e tutti gli altri». Poi sembra distinguere tra sostenitori di una causa e testimonial: «Non credo che intervenire in una situazione politica come scrittore equivalga a sfruttare la propria fama per sostenere qualche particolare tipo di rivoluzione. Non si tratta di usare la propria celebrità ma di fare il proprio lavoro: guardarsi intorno. Vedere. Pensare. Scrivere». Ma lei stessa ammette che non tutti gli sguardi sono innocenti. Per esempio Maximum City dell’indiano Suketu Metha contiene un passo in cui lo scrittore osserva le torture della polizia. «Mi ha disturbato la facilità con cui l’autore è andato in una stanza per le torture con un poliziotto amico e ha descritto quello che accadeva. Guardare la tortura non è un atto neutrale. Non si può essere spettatori, si diventa complici».
Apprezza invece La tigre bianca di Aravind Adiga, Booker Prize l’anno scorso, che racconta il lato meno scintillante della rivoluzione indiana: «Il romanzo è stato accolto in India con molta rabbia. La cosa buona è che fa sentire a disagio chi deve essere messo a disagio». Giudizio più sfumato per The Millionaire dello scozzese Danny Boyle, tra i favoriti agli Oscar: «Ho visto il film, mi è sembrato girato in modo splendido, ha un grande impatto. Per il resto è stato come percorrere una strada accidentata. C’erano enormi buche culturali in cui il film continuamente inciampava. I dialoghi erano imbarazzanti, cosa che mi ha sorpreso perché invece ho apprezzato The Full Monty», dello stesso sceneggiatore, Simon Beaufoy. Poi racconta una di queste buche: «Il giovane protagonista, il "cane dello slum" di Mumbai (lo "Slumdog" del titolo inglese, il pezzente, è un neologismo coniato, pare, dallo stesso Beaufoy, ndr), è chiaramente britannico. E la sua sicurezza culturale intimidiva il poliziotto, chiaramente indiano, che lo stava torturando. La pelle scura che li accomuna è troppo sottile per nascondere la forma di quello che li separa. Era come guardare i bambini neri di uno slum di Chicago parlare con l’accento di Yale». Roy ha provato sentimenti ambivalenti: «Felice che il film sgonfi il mito dell’"India scintillante", delusa che non lo faccia con il brio e la coscienza politica che il regista e lo sceneggiatore hanno mostrato in altri lavori. Ma ovviamente l’audience internazionale trangugia il film come melassa...».
Diventare milionari vincendo a un quiz non è una forma di riscatto esemplare. Ma lei stessa ha riconosciuto che pure il tipo di protesta non violenta a cui ha aderito per oltre un decennio è fallita. E ora non se la sente più di condannare del tutto le persone che imbracciano le armi per far valere i propri diritti. La battaglia resta da combattere; come, non è chiaro. «C’è un grande dibattito in India su questo, la strada è ancora da trovare». Una cosa è certa: la sua India è a un bivio: «Da una parte la freccia indica Giustizia, dall’altra Guerra civile». Speranze per le prossime elezioni, ad aprile? «Le elezioni qui sono come un festival — dice —. Vanno e vengono senza portare molti cambiamenti. L’unico modo per evitare che la nostra società scivoli nel caos è che il governo garantisca un livello minimo di trasparenza. Oggi certe persone sanno che possono permettersi tutto: stupri, omicidi di massa, frodi pesanti, espropriazioni, la distruzione di foreste e fiumi».
E pure le cause dell’attentato di Mumbai sono soprattutto indiane, ribadisce. Anche dopo l’ammissione del Pakistan che l’attacco è stato in parte pianificato sul suo territorio con l’appoggio di una rete globale. «Non mi stupisco. Identificare la provenienza di un attentato terroristico è come identificare la provenienza del capitale. Del resto, la stessa polizia di Mumbai ha ammesso che gli attentatori hanno avuto un appoggio logistico in India. Gli attacchi sono nati da una particolare storia e sono stati gli ultimi di una serie, di cui molti, secondo i servizi segreti, pianificati ed eseguiti qui in India. Presentarli come una sorta di attacco al Paese buono da parte del Paese cattivo è banale». Lei, che definisce il terrorismo come «la privatizzazione della guerra», e ha chiamato George Bush e la sua risposta al Terrore come «l’incarnazione di un incubo mondiale», ora spera in Obama. «Il suo compito non è diverso da quello del pilota che pochi giorni fa ha dovuto fare un atterraggio di emergenza nell’Hudson a New York — dice —. Anche l’impero americano ha bisogno di un atterraggio d’emergenza morbido. La sua politica estera dovrà cambiare e molti dei suoi cambiamenti saranno dettati dalla sua economia debole. Obama sembra avere il garbo e l’intelligenza per fare un buon lavoro. Però sono stata delusa perché non ha avuto il coraggio di condannare la recente violenza di Israele a Gaza».
Alessandra Muglia
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 20.02.09
«Il romanzo e il saggio sono come la sinistra e la destra del miocorpo. E io sto provando a essere ambidestra». Quasi un tormento per Arundhati Roy che ha messo il rapporto tra potere e impotenza al centro di ogni forma di scrittura. Il dio delle piccole cose, bestseller internazionale e Booker Prize nel 1997 da lei definito «un romanzo politico», è rimasto la sua prima e unica opera di narrativa. Da allora la scrittrice indiana è diventata la voce dei senza voce. Cortei, sit-in, scioperi della fame e tanti saggi.
Ha così incanalato la sua energia creativa in impegno militante, denunciando soprusi e ingiustizie: dalle grandi dighe sul fiume Narmada, che hanno lasciato senza terra milioni di contadini, alle persecuzioni dei musulmani per la «deriva fascista» dei fondamentalisti indù. Per anni è stata una scelta: «Nel mio caso la narrativa scaturisce senza sforzo. Il saggio invece nasce con fatica dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina» scriveva nel 2002 in Settembre alle porte. Oggi però le cose sono cambiate: «Sto cercando di scrivere il mio secondo romanzo, ma non è facile», ammette dalla sua casa di New Delhi. Una frase che rivela la fatica che sta facendo a indossare di nuovo i panni della narratrice. Già due anni fa aveva confessato al Guardian: «Ho detto tutto quello che potevo sulla globalizzazione, come scrittrice devo andare in un posto diverso». Ma il «trasloco» non è ancora riuscito. Da qualche tempo va ripetendo: «Non sono un’attivista. Gli attivisti non si stancano mai, mentre io sono esausta».
Eppure fino alla scorsa settimana, per San Valentino, era in prima linea al fianco di studenti e docenti universitari a una manifestazione contro le ronde moralizzatrici dei fondamentalisti indù che a gennaio hanno aggredito alcune ragazze in un discopub di Mangalore, accusandole di «comportamenti osceni», atti contro le tradizioni indiane, segnali indecenti della contaminazione occidentale. «Una guerra di classe combattuta sul corpo delle donne» l’ha definita Roy. La scrittrice, un’infanzia di esclusione sociale alle spalle (è cresciuta nel Kerala con la madre divorziata), ha preso la parola leggendo un brano del Dio delle piccole cose, saga familiare che la passione di una donna per un intoccabile trasforma in tragedia. «Sono fuggita da casa a 16 anni perché era intollerabile l’idea di crescere in un piccolo villaggio — ha ricordato alla folla con il microfono in mano, il corpo minuto e aggraziato che sprigiona carisma, qualche filo grigio ad accennare ai suoi 47 anni portati da ragazzina —. Sono fuggita per essere felice, libera, loro vogliono toglierci l’aria e impedirci di respirare. Dobbiamo reclamare l’aria, dobbiamo farlo ogni giorno».
E lei continua a farlo. «Scrivere saggi è soltanto un altro modo di capire la società in cui viviamo. Più diretto, pressante, a volte molto importante, soprattutto se vivi in una parte del mondo che sta sbandando verso il fascismo sotto i tuoi occhi». Ma Roy non considera la lotta per i diritti umani una prerogativa degli intellettuali. «Non prescriverei mai un ruolo prefissato agli scrittori: come gli idraulici o i meccanici, non sono un gruppo omogeneo con un unico orientamento culturale. Alcuni lavorano stando dalla parte dei governanti, altri dalla parte dei governati. Così pure per attori, giornalisti, sportivi, musicisti e tutti gli altri». Poi sembra distinguere tra sostenitori di una causa e testimonial: «Non credo che intervenire in una situazione politica come scrittore equivalga a sfruttare la propria fama per sostenere qualche particolare tipo di rivoluzione. Non si tratta di usare la propria celebrità ma di fare il proprio lavoro: guardarsi intorno. Vedere. Pensare. Scrivere». Ma lei stessa ammette che non tutti gli sguardi sono innocenti. Per esempio Maximum City dell’indiano Suketu Metha contiene un passo in cui lo scrittore osserva le torture della polizia. «Mi ha disturbato la facilità con cui l’autore è andato in una stanza per le torture con un poliziotto amico e ha descritto quello che accadeva. Guardare la tortura non è un atto neutrale. Non si può essere spettatori, si diventa complici».
Apprezza invece La tigre bianca di Aravind Adiga, Booker Prize l’anno scorso, che racconta il lato meno scintillante della rivoluzione indiana: «Il romanzo è stato accolto in India con molta rabbia. La cosa buona è che fa sentire a disagio chi deve essere messo a disagio». Giudizio più sfumato per The Millionaire dello scozzese Danny Boyle, tra i favoriti agli Oscar: «Ho visto il film, mi è sembrato girato in modo splendido, ha un grande impatto. Per il resto è stato come percorrere una strada accidentata. C’erano enormi buche culturali in cui il film continuamente inciampava. I dialoghi erano imbarazzanti, cosa che mi ha sorpreso perché invece ho apprezzato The Full Monty», dello stesso sceneggiatore, Simon Beaufoy. Poi racconta una di queste buche: «Il giovane protagonista, il "cane dello slum" di Mumbai (lo "Slumdog" del titolo inglese, il pezzente, è un neologismo coniato, pare, dallo stesso Beaufoy, ndr), è chiaramente britannico. E la sua sicurezza culturale intimidiva il poliziotto, chiaramente indiano, che lo stava torturando. La pelle scura che li accomuna è troppo sottile per nascondere la forma di quello che li separa. Era come guardare i bambini neri di uno slum di Chicago parlare con l’accento di Yale». Roy ha provato sentimenti ambivalenti: «Felice che il film sgonfi il mito dell’"India scintillante", delusa che non lo faccia con il brio e la coscienza politica che il regista e lo sceneggiatore hanno mostrato in altri lavori. Ma ovviamente l’audience internazionale trangugia il film come melassa...».
Diventare milionari vincendo a un quiz non è una forma di riscatto esemplare. Ma lei stessa ha riconosciuto che pure il tipo di protesta non violenta a cui ha aderito per oltre un decennio è fallita. E ora non se la sente più di condannare del tutto le persone che imbracciano le armi per far valere i propri diritti. La battaglia resta da combattere; come, non è chiaro. «C’è un grande dibattito in India su questo, la strada è ancora da trovare». Una cosa è certa: la sua India è a un bivio: «Da una parte la freccia indica Giustizia, dall’altra Guerra civile». Speranze per le prossime elezioni, ad aprile? «Le elezioni qui sono come un festival — dice —. Vanno e vengono senza portare molti cambiamenti. L’unico modo per evitare che la nostra società scivoli nel caos è che il governo garantisca un livello minimo di trasparenza. Oggi certe persone sanno che possono permettersi tutto: stupri, omicidi di massa, frodi pesanti, espropriazioni, la distruzione di foreste e fiumi».
E pure le cause dell’attentato di Mumbai sono soprattutto indiane, ribadisce. Anche dopo l’ammissione del Pakistan che l’attacco è stato in parte pianificato sul suo territorio con l’appoggio di una rete globale. «Non mi stupisco. Identificare la provenienza di un attentato terroristico è come identificare la provenienza del capitale. Del resto, la stessa polizia di Mumbai ha ammesso che gli attentatori hanno avuto un appoggio logistico in India. Gli attacchi sono nati da una particolare storia e sono stati gli ultimi di una serie, di cui molti, secondo i servizi segreti, pianificati ed eseguiti qui in India. Presentarli come una sorta di attacco al Paese buono da parte del Paese cattivo è banale». Lei, che definisce il terrorismo come «la privatizzazione della guerra», e ha chiamato George Bush e la sua risposta al Terrore come «l’incarnazione di un incubo mondiale», ora spera in Obama. «Il suo compito non è diverso da quello del pilota che pochi giorni fa ha dovuto fare un atterraggio di emergenza nell’Hudson a New York — dice —. Anche l’impero americano ha bisogno di un atterraggio d’emergenza morbido. La sua politica estera dovrà cambiare e molti dei suoi cambiamenti saranno dettati dalla sua economia debole. Obama sembra avere il garbo e l’intelligenza per fare un buon lavoro. Però sono stata delusa perché non ha avuto il coraggio di condannare la recente violenza di Israele a Gaza».
Alessandra Muglia
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 20.02.09
Donne e bambini picchiati da poliziotti mascherati
Donne e bambini hanno ricevuto percosse e minacce da poliziotti a volto coperto, durante incursioni nelle case avvenute il 15 febbraio ad Hakkari, a seguito di numerose manifestazioni di protesta per il 10° anniversario della cattura del leader del PKK, Abdullah Öcalan. Si presume che il capo della polizia locale, Metin Seyfi Sazak, abbia minacciato delle persone la cui casa era stata presa di mira nelle incursioni. Scopo delle minacce è impedire alle persone colpite di informare i media dell’accaduto. Durante l’incursione 4 persone sono state ferite. Le manifestazioni sono state numerose in Turchia; alcune si sono svolte senza conseguenze negative, mentre in altre i dimostranti sono stati attaccati dale forze di sicurezza e vi sono stati numerosi arresti e ferimenti. L’intervento più brutale ha avuto luogo ad Hakkari, dove il dipartimento di polizia locale ha inviato poliziotti dal volto coperto a compiere operazioni speciali, colpendo e minacciando persino donne e bambini. Metin Seyfi Sazak ha poi minacciato quelli che avevano visto la propria porta di casa abbattuta o bruciata durante le incursioni, affinché non informassero i media. Se taceranno potranno anche ottenere il risarcimento dei danni materiali subiti, altrimenti le cose andranno diversamente. Le strade di Hakkari erano piene di giovani allorché erano in atto manifestazioni di protesta contro la prigionia di Abdullah Öcalan. La polizia ha tuttavia pesantemente attaccato i dimostranti circondando vari quartieri e abbattendo le porte delle abitazioni scagliando bombe a gas sia nelle strade che nelle case. A seguito del lancio di ordigni quattro abitazioni hanno addirittura preso fuoco. Persino un bambino di sei mesi è stato ferito e l’abitazione del vicesindaco, Cemil Akış, è stata presa di mira; egli ha poi dichiarato che da anni la polizia intimidisce la popolazione di Hakkari e che intende presentare una denuncia dell’accaduto presso l’IHD. Persino in alcuni Paesi meno sviluppati non si vedono fatti simili a quelli che avvengono in Turchia. Non cesseranno di certo gli spargimenti di sangue finché il governo turco porterà avanti condizioni di vita così brutali e crudeli per la popolazione locale. Yıldız Demir ha spiegato: “La porta della nostra abitazione è stata rotta e all’improvviso sono entrati dei poliziotti mentre ero con il mio bambino più piccolo. Hanno cominciato a prenderci a calci. E ho cercato di proteggere il bambino dai calci e dal gas delle bombe; perciò ho segni di bruciature su tutto il corpo. Uno dei poliziotti nell’azione concitata ha perduto il suo telefonino e ha cominciato a dire che se non glielo avessimo restituito ci avrebbe ucciso. Ayşe Demir, ferita durante l’incursione, dichiara: “Accadeva di tutto durante l’incursione. I poliziotti a volto coperto gettavano alla rinfusa bombe che producevano gas. Abbattevano le porte e attaccavano senza motivo chi si trovava nelle case, compresi i bambini. Il Primo Ministro si dimostra sensibile quando parla dei bambini palestinesi, ma cosa dice ora di quel che accade ai nostri bambini? I nostri bambini non meritano, forse, di essere protetti dal terrore?” “I poliziotti sembrano molto rabbiosi e desiderosi di infierire poiché non sono in grado di fermare le manifestazioni di protesta dei giovani; perciò insultano noi nelle nostre case e ci rompono porte e finestre”, ha dichiarato Sürme Demir. Vi erano anche nelle case malati che non erano in grado di scappare e le loro condizioni sono ora aggravate dal lancio di bombe a gas. Abdulhamit Demir, uno di loro, sostiene che l’AKP non ha possibilità di vincere le elezioni municipali finché continuerà a infierire sulla popolazione locale. A suo avviso i kurdi non sono considerati cittadini, nemmeno di seconda classe. Un dirigente di polizia, Taner Koç, al quale sono stati mostrati bambini feriti durante le incursioni, ha dichiarato che si è trattato di un atto disumano e di vera brutalità. Tuttavia un altro dirigente, Metin Seyfi Sazak, ha persino minacciato le persone colpite negli attacchi, affinché non informassero i media di quel che era avvenuto.
Affrontare gli sfratti? Non abbandoni ma occupazioni
Un articolo di Amy Goodman sull’escalation degli sfratti negli USA e su come le famiglie americane di working class cominciano a difendere la casa pubblicato sul San Francisco Chronicle il 4 febbraio ’09.
Marcy Kaptur, dell’Ohio, è la donna con la carriera più longeva nel Congresso degli Stati Uniti. Il distretto a cui appartiene, esteso lungo la costa del lago Eire tra la parte ovest di Cleveland e Toledo, sta affrontando un’epidemia di sfratti e una disoccupazione all’11,5 %. Questa regione del profondo entroterra, la Rust Belt, è stata sconvolta nel profondo dall’Accordo per il Libero Mercato del Nord America (NAFTA), che ha comportato la chiusura delle fabbriche e le lotte delle fattorie a conduzione familiare. La Kaptur ha condotto la battaglia al Congresso contro il NAFTA. Ora, sta caldeggiando una soluzione radicale agli sfratti dall’interno dello stesso Congresso degli Stati Uniti: "Questo dico al popolo americano: siate gli occupanti delle vostre stesse case. Non abbandonatele".
La sua critica è indirizzata al fallimento del piano anti-crisi per salvaguardare dagli sfratti i proprietari delle abitazioni. Il suo consiglio di "occupare" sfrutta in maniera intelligente un tecnicismo legale all’interno del quadro della crisi dei mutui subprime e delle conseguenti ipoteche. Queste ipoteche erano state attuate, poi raccolte in obbligazioni e vendute e rivendute ripetutamente, da quelle stesse banche di Wall Street che ora stanno beneficiando del TARP (il programma di riassestamento dei patrimoni finanziari). Le banche che ipotecano le case molto spesso non sono in grado di individuarne l’attuale contratto di locazione che lega i proprietari al mutuo. “Fatevi dare il contratto”, raccomanda la Kaptur a tutti coloro i quali stanno affrontando le domande di sfratto delle banche.
"Il possesso" afferma la Kaptur, "rappresenta i 9/10 della legge. Per cui, rimanete nelle vostre proprietà. Affidatevi ad un apposito rappresentante legale. Se Wall Street non può produrre gli atti o l’iter di verifica delle ipoteche… non lasciate la vostra casa. E’ il vostro castello. E’ molto più di un pezzo di proprietà… la maggior parte della gente non pensa nemmeno a farsi rappresentare legalmente, poiché riceve un pezzo di carta dalla banca, e dice ‘Oh, è la banca!’ e si impaurisce piuttosto di ragionare: ‘Questo è un contratto legale. L’ipoteca è un contratto. Io ne sono una parte. C’è un’altra parte. Quali sono i miei diritti in base alla legge come detentore di una proprietà?’. “Se osservate quel pezzo di carta, e controllate dove sta l’inghippo, scoprirete che il 95-98% dei contratti fa riferimento a cinque istituzioni: JP Morgan Chase, Bank of America, Wachovia, Citigroup e HSBC. Tengono il paese per il collo.”
La Kaptur raccomanda di contattare la Legal Aid Society del proprio territorio, la Bar Association o l’888-995-4673 per l’assistenza legale.
L’onere di cacciare fisicamente le persone dalle case e di sgomberarne il mobilio ricade solitamente sulle spalle dello Sceriffo locale. La Kaptur condiziona il proprio consiglio di occupare, affermando “Se siamo allo sgombero con la forza, se si è giunti a quel punto, occupare diviene quasi impossibile.” A meno che non sia lo sceriffo stesso a rifiutarsi di attuare lo sgombero, come decise di fare lo Sceriffo Warren C. Evans della contea di Wayne, nel Michigan, dove, insieme alla zona di Detroit, si sono verificati più di 46.000 sfratti negli ultimi due anni.
Dopo aver controllato il TARP, Evans ha stabilito che gli sfratti entravano in conflitto con gli stessi obbiettivi del TARP, tra cui la riduzione dell’esproprio delle case, e che egli stesso avrebbe violato la legge negando alle famiglie sfrattate la possibilità di essere assistiti legalmente a livello federale. Lo stesso Sceriffo ha affermato: “In tutta coscienza, non posso permettere che anche una sola famiglia in più venga cacciata di casa finché non ho appurato che è stata loro concessa ogni opzione legale di cui sono in diritto per evitare lo sfratto.”
Bruce Marks, della Neighborhood Assistance Corp. of America (NACA), la cui sede si trova a Boston, sta intraprendendo la lotta nelle case degli amministratori delegati delle banche. Lo scorso ottobre, quando il salvataggio TARP si stava rivelando un beneficio solo per Wall Street e non per Main Street, la NACA aveva bloccato l’entrata del gigante delle ipoteche Fannie Mae, fino ad ottenere un incontro con la dirigenza. Ora la NACA sta lavorando con la Fannie Mae per il recupero delle ipoteche. Marks sta organizzando un “Tour del predatore”, una tre giorni che si svolgerà nell’intero paese e che andrà letteralmente nelle case degli amministratori delegati delle banche, con l’obbiettivo di ottenere degli incontri con gli stessi amministratori. Mi ha detto: “Questo è ciò che faremo con migliaia di proprietari, andremo nelle case degli amministratori e diremo loro ‘Venite ad incontrare le nostre famiglie, venite a vedere chi state sfrattando’. Se vogliono portarci via la nostra casa, noi andremo a casa loro per dire BASTA.”
Prima dell’insediamento di Barack Obama, Larry Summers, ora a capo del Consiglio Economico Nazionale del presidente, aveva promesso ai capigruppo democratici al Congresso di “implementare politiche efficaci ed aggressive per ridurre il numero degli sfratti preventivi, attraverso la riduzione di pagamento delle ipoteche per quei proprietari di case che si dimostrassero responsabili ma in situazione di difficoltà economica, oltre a riformare le leggi sulla bancarotta e a rinforzare le politiche abitative esistenti.”
Stando ad un rapporto di RealityTrac, “le istanze di sfratto nel 2008 sono state registrate su 2,3 milioni di proprietà negli Stati Uniti, con un incremento dell’81% rispetto al 2007, e addirittura del 225% rispetto al 2006”.Con l’approfondirsi della crisi economica, le persone costrette ad affrontare gli sfratti dovrebbero seguire il consiglio di Marcy Kaptur e dire ai propri banchieri: “Fateci vedere i contratti”.
La sua critica è indirizzata al fallimento del piano anti-crisi per salvaguardare dagli sfratti i proprietari delle abitazioni. Il suo consiglio di "occupare" sfrutta in maniera intelligente un tecnicismo legale all’interno del quadro della crisi dei mutui subprime e delle conseguenti ipoteche. Queste ipoteche erano state attuate, poi raccolte in obbligazioni e vendute e rivendute ripetutamente, da quelle stesse banche di Wall Street che ora stanno beneficiando del TARP (il programma di riassestamento dei patrimoni finanziari). Le banche che ipotecano le case molto spesso non sono in grado di individuarne l’attuale contratto di locazione che lega i proprietari al mutuo. “Fatevi dare il contratto”, raccomanda la Kaptur a tutti coloro i quali stanno affrontando le domande di sfratto delle banche.
"Il possesso" afferma la Kaptur, "rappresenta i 9/10 della legge. Per cui, rimanete nelle vostre proprietà. Affidatevi ad un apposito rappresentante legale. Se Wall Street non può produrre gli atti o l’iter di verifica delle ipoteche… non lasciate la vostra casa. E’ il vostro castello. E’ molto più di un pezzo di proprietà… la maggior parte della gente non pensa nemmeno a farsi rappresentare legalmente, poiché riceve un pezzo di carta dalla banca, e dice ‘Oh, è la banca!’ e si impaurisce piuttosto di ragionare: ‘Questo è un contratto legale. L’ipoteca è un contratto. Io ne sono una parte. C’è un’altra parte. Quali sono i miei diritti in base alla legge come detentore di una proprietà?’. “Se osservate quel pezzo di carta, e controllate dove sta l’inghippo, scoprirete che il 95-98% dei contratti fa riferimento a cinque istituzioni: JP Morgan Chase, Bank of America, Wachovia, Citigroup e HSBC. Tengono il paese per il collo.”
La Kaptur raccomanda di contattare la Legal Aid Society del proprio territorio, la Bar Association o l’888-995-4673 per l’assistenza legale.
L’onere di cacciare fisicamente le persone dalle case e di sgomberarne il mobilio ricade solitamente sulle spalle dello Sceriffo locale. La Kaptur condiziona il proprio consiglio di occupare, affermando “Se siamo allo sgombero con la forza, se si è giunti a quel punto, occupare diviene quasi impossibile.” A meno che non sia lo sceriffo stesso a rifiutarsi di attuare lo sgombero, come decise di fare lo Sceriffo Warren C. Evans della contea di Wayne, nel Michigan, dove, insieme alla zona di Detroit, si sono verificati più di 46.000 sfratti negli ultimi due anni.
Dopo aver controllato il TARP, Evans ha stabilito che gli sfratti entravano in conflitto con gli stessi obbiettivi del TARP, tra cui la riduzione dell’esproprio delle case, e che egli stesso avrebbe violato la legge negando alle famiglie sfrattate la possibilità di essere assistiti legalmente a livello federale. Lo stesso Sceriffo ha affermato: “In tutta coscienza, non posso permettere che anche una sola famiglia in più venga cacciata di casa finché non ho appurato che è stata loro concessa ogni opzione legale di cui sono in diritto per evitare lo sfratto.”
Bruce Marks, della Neighborhood Assistance Corp. of America (NACA), la cui sede si trova a Boston, sta intraprendendo la lotta nelle case degli amministratori delegati delle banche. Lo scorso ottobre, quando il salvataggio TARP si stava rivelando un beneficio solo per Wall Street e non per Main Street, la NACA aveva bloccato l’entrata del gigante delle ipoteche Fannie Mae, fino ad ottenere un incontro con la dirigenza. Ora la NACA sta lavorando con la Fannie Mae per il recupero delle ipoteche. Marks sta organizzando un “Tour del predatore”, una tre giorni che si svolgerà nell’intero paese e che andrà letteralmente nelle case degli amministratori delegati delle banche, con l’obbiettivo di ottenere degli incontri con gli stessi amministratori. Mi ha detto: “Questo è ciò che faremo con migliaia di proprietari, andremo nelle case degli amministratori e diremo loro ‘Venite ad incontrare le nostre famiglie, venite a vedere chi state sfrattando’. Se vogliono portarci via la nostra casa, noi andremo a casa loro per dire BASTA.”
Prima dell’insediamento di Barack Obama, Larry Summers, ora a capo del Consiglio Economico Nazionale del presidente, aveva promesso ai capigruppo democratici al Congresso di “implementare politiche efficaci ed aggressive per ridurre il numero degli sfratti preventivi, attraverso la riduzione di pagamento delle ipoteche per quei proprietari di case che si dimostrassero responsabili ma in situazione di difficoltà economica, oltre a riformare le leggi sulla bancarotta e a rinforzare le politiche abitative esistenti.”
Stando ad un rapporto di RealityTrac, “le istanze di sfratto nel 2008 sono state registrate su 2,3 milioni di proprietà negli Stati Uniti, con un incremento dell’81% rispetto al 2007, e addirittura del 225% rispetto al 2006”.Con l’approfondirsi della crisi economica, le persone costrette ad affrontare gli sfratti dovrebbero seguire il consiglio di Marcy Kaptur e dire ai propri banchieri: “Fateci vedere i contratti”.
giovedì 19 febbraio 2009
Guadalupa, continuano gli scontri
Sempre più fuori da ogni controllo i tumulti in cui e’ degenerato lo sciopero generale contro il carovita e la crisi economica, proclamato un mese fa sull’isola caraibica della Guadalupa, dipartimento d’Oltremare della Francia considerato finora un paradiso del turismo balneare: dopo gli scontri di piazza di ieri, in cui almeno un sindacalista aveva perso la vita e diverse altre persone erano rimaste ferite, colpi di arma da fuoco sono stati esplosi nella notte contro poliziotti e gendarmi giunti dalla madrepatria per ripristinare l’ordine pubblico. Lo hanno reso noto fonti della Prefettura, secondo cui sono stati almeno cinque i proiettili sparati all’indirizzo degli agenti nella località di Gosier, a pochi chilometri dal capoluogo Pointe-a-Pitre, dove si sono registrati nuovi episodi di incendi dolosi e di saccheggi, cosi’ come nella cittadina di Sainte-Rose; quattro gli arresti. E’ la prima volta in cui le forze di sicurezza inviate da Parigi restano direttamente coinvolte nei disordini.
Articolo pubblicato sul sito di PeaceReporter
Vedi anche:Guadeloupe: nuit de violences, le gouvernement promet la fermeté
Le fotografie su Le Monde
Articolo pubblicato sul sito di PeaceReporter
Vedi anche:Guadeloupe: nuit de violences, le gouvernement promet la fermeté
Le fotografie su Le Monde
Guadalupa, esplosione di violenze
Nell’isola dell’arcipelago delle Antille, gli atti di violenza si sono moltiplicati nella notte nel territorio d’oltremare francese A Guadalupa, isola delle Antille sotto la giurisdizione francese, un’esplosione di rabbia causata dalla drammatica situazione socio-economica rischia di far precipitare il Paese nel caos. Dalla serata di ieri, si sono verificati atti vandalici e incendiari, l’assalto di negozi e veicoli, nonché duri scontri a fuoco con la polizia. La prefettura informa che la prima vittima è un sindacalista di 50 anni.
Giovani e polizia si sarebbero duramente scontrati, secondo più fonti riportate stamattina dal quotidiano Le Monde. Il collettivo LKP, primo movimento dell’isola e in prima linea nelle contestazioni, ha lanciato a metà serata, tramite la radio RCI, un appello alla calma in lingua creola, pur essendo il francese la lingua ufficiale. Oltre alla città di Pointe-à-Pitre, sono rimasti coinvolti nelle agitazioni i comuni di Capesterre-Belle-Eau e Saint-François. La prefettura locale comunica che non è ancora possibile fare un resoconto della situazione. Anche il governo locale lancia un "appello alla calma" tramite il portavoce Luc Chatel alla televisione Europe1. Nella cittadina di Baie-Mahault, a 10 chilometri da Pointe-à-Pitre, un centinaio di giovani si è scontrato con la gendarmeria: alcuni giovani possedevano fucili a pompa e avrebbero più volte sparato alla polizia. Tre poliziotti sono rimasti lievemente feriti nella città di Pointe-à-Pitre. In Francia il segretario del Partito Socialista (Ps), Martine Aubry, ha dichiarato mercoledì, a proposito della crisi nell’isola, che così come "il generale De Gaulle, Mitterand e Chirac amavano i dipartimenti d’oltre mare (Dom), anche Sarkozy dovrebbe interessarsene e farsi amare dai cittadini di questi territori, di fatto francesi".
Articolo pubblicato su PeaceReporter
Giovani e polizia si sarebbero duramente scontrati, secondo più fonti riportate stamattina dal quotidiano Le Monde. Il collettivo LKP, primo movimento dell’isola e in prima linea nelle contestazioni, ha lanciato a metà serata, tramite la radio RCI, un appello alla calma in lingua creola, pur essendo il francese la lingua ufficiale. Oltre alla città di Pointe-à-Pitre, sono rimasti coinvolti nelle agitazioni i comuni di Capesterre-Belle-Eau e Saint-François. La prefettura locale comunica che non è ancora possibile fare un resoconto della situazione. Anche il governo locale lancia un "appello alla calma" tramite il portavoce Luc Chatel alla televisione Europe1. Nella cittadina di Baie-Mahault, a 10 chilometri da Pointe-à-Pitre, un centinaio di giovani si è scontrato con la gendarmeria: alcuni giovani possedevano fucili a pompa e avrebbero più volte sparato alla polizia. Tre poliziotti sono rimasti lievemente feriti nella città di Pointe-à-Pitre. In Francia il segretario del Partito Socialista (Ps), Martine Aubry, ha dichiarato mercoledì, a proposito della crisi nell’isola, che così come "il generale De Gaulle, Mitterand e Chirac amavano i dipartimenti d’oltre mare (Dom), anche Sarkozy dovrebbe interessarsene e farsi amare dai cittadini di questi territori, di fatto francesi".
Articolo pubblicato su PeaceReporter
mercoledì 18 febbraio 2009
In attesa tra le macerie
Mentre la tregua sembra concretizzarsi, la Striscia di Gaza rivela tutto l’orrore della distruzione subita
Di fronte all’ospedale Shifa di Gaza, uno dei tre principali nosocomi della Striscia, il muezzìn chiama alla preghiera di mezzogiorno del venerdì, tradizionalmente la più partecipata. Il traffico si interrompe quasi totalmente e il caos del mercato cittadino si tacita. La gente della zona e i dipendenti dell’ospedale affluiscono ordinatamente verso la moschea di Shifa. Solo che la moschea non c’è più.
E’ stata rasa al suolo, come molte altre, dall’offensiva israeliana di gennaio. La moschea di Shifa sorgeva a pochi metri dall’omonimo ospedale sotto cui, secondo i servizi di intelligence israeliani, si nasconde la leadership di Hamas. Le macerie sono state in gran parte rimosse e al posto del santuario c’è una spianata, sopra la quale sono stati disposti teli e tappeti per la preghiera. Il sermone tra le macerie è un’immagine che ben rappresenta la situazione della Striscia di Gaza dopo l’operazione Piombo Fuso. Più di metà delle strutture del territorio, in gran parte civili, sono state almeno danneggiate. Secondo le ultime stime, ricavate dalle missioni di valutazione umanitaria giunte dopo l’offensiva, gli edifici completamente distrutti sono almeno 14mila. Circa 90mila le persone non hanno più una casa. Qua e là, gruppi di operai lavorano alla rimozione delle macerie, molti di loro indossano i berretti verdi distribuiti da Hamas per proteggerli da sole, ma soprattutto per segnalare la presenza del governo sul territorio. Ma i lavori di ricostruzione non sono nemmeno iniziati. Il governo in verde della Striscia ha iniziato a pagare le compensazioni per quanti hanno avuto le case distrutte da Israele, 3 o 4mila dollari ciascuna. Ancora nulla per le abitazioni danneggiate. Decine di migliaia di persone continuano a vivere in ruderi diroccati, tra calcinacci, schegge di bombe, proiettili e tracce di sangue sui muri. Una rassegnazione motivata dalle gravissime difficoltà economiche di buona parte delle famiglie di Gaza e dalla ben più grave mancanza di materiali edilizi nella Striscia. Cemento e ferro sono nella lista nera dei materiali sotto embargo, il loro prezzo è salito di oltre dieci volte dal quando i valichi sono chiusi. La gente attende la riapertura delle frontiere e un minimo di normalizzazione prima di ricostruire.
Nessuno sa dire quanto tempo ci vorrà prima che ciò accada, e nel frattempo trascorre l’inverno, fortunatamente mite, tra gli incubi del recente passato e le preoccupazioni per l’indomani. Ferro e cemento non sono le sole cose che mancano nella Striscia: c’è una drammatica carenza anche di sistemi per la depurazione delle acque, di gas e generatori di corrente elettrica. In attesa che i colloqui del Cairo, che dovrebbero portare a una tregua di medio termine delle ostilità tra Hamas e Israele e alla riapertura dei valichi di frontiera, l’embargo continua a strangolare la vita civile della Striscia. Di notte, dai tetti di Beit Lahiya, a nord di Gaza vicino al confine israeliano, si notano in lontananza le mille luci di Ashkelon, la città israeliana sul mare, mentre abbassando lo sguardo si piomba nel buio delle vie di Gaza e delle città del nord della Striscia. Le tregue dichiarate unilateralmente da Israele e Hamas lo scorso 28 gennaio hanno consentito l’apertura parziale dei valichi della Striscia, e l’ingresso di diverse missioni internazionali che hanno portato aiuti e effettuato valutazioni sulla situazione umanitaria. In alcuni casi le delegazioni non sono state autorizzate a importare macchinari fondamentali per la ripartenza della vita, come i sistemi di desalinizzazione della protezione civile francese respinti al valico di Rafah a fine gennaio. In altri casi gli aiuti portati non erano quelli necessari.
La missione di medici e giornalisti organizzata dall’ong italiana Crocevia, che ha visitato i principali ospedali della Striscia (Shifa e Al Awda di Gaza, Nasser di Khan Younis e Kamal Adnan di Jabalia) e molte altre strutture sanitarie e socio-sanitarie dei campi profughi della Striscia, ha riscontrato come in diversi casi i tir umanitari internazionali abbiano importato materiale sanitario leggero per il primo soccorso, quando ormai quel tipo di emergenza era superato. All’indomani della tregua i feriti meno gravi sono stati rimandati a casa (anche per la mancanza di posti letto) mentre i casi più difficili sono stati evacuati verso Israele e l’Egitto perché i nosocomi della Striscia non disponevano di strumenti fondamentali come le macchine per la Tac, per la rianimazione e quelle a ultrasuoni come quelle per le ecografie o gli elettrocardiogrammi. In alcuni casi questi macchinari erano presenti ma danneggiati, e sarebbe bastato coordinarsi con le strutture e importare giusto i pezzi di ricambio. Un capitolo a parte é rappresentato dai feriti vittime di armi non convenzionali, come le munizioni al fosforo (illegali se usate in aree densamente abitate) e le cosiddette Dime (Dense Inerte Metal Explosive). La missione di Crocevia ha appurato al di là di ogni dubbio l’impiego delle munizioni al fosforo contro abitazioni civili (valutazione confermata tra gli altri anche da Human Rights Watch, Amnesty International e dal centro palestinese per i diritti umani al-Mezaan), ma durante l’offensiva i medici della Striscia non disponevano delle conoscenze necessarie al trattamento delle ferite provocate da quel tipo di armi. Quanto alle Dime, invece, le numerose testimonianze del loro impiego non sono ancora state confermate da organismi scientifici. Nella Striscia di Gaza non ci sono laboratori in grado di analizzare i campioni di tungsteno (il componente principale delle Dime) ritrovati in diverse abitazioni e all’interno dei corpi delle vittime, e a causa dell’embargo gli stessi campioni non possono essere portati all’estero. Le delegazioni umanitarie giunte a Gaza hanno fatto del loro meglio per gettare un po’ di luce sui crimini contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano durante i 22 giorni di offensiva, ma si sono dovute scontrare con due muri di gomma. Da un lato Israele, che ha concesso l’apertura di corridoi umanitari solo per lenire l’emergenza sanitaria, come se sulla Striscia si fosse abbattuta una disgrazia, un terremoto, anziché una sistematica e intenzionale opera di distruzione iper-tecnologica. Dall’altro, gli organismi internazionali, i paesi occidentali e quelli arabi, che hanno accettato la parte dei pietosi soccorritori senza intaccare il sistema di omertà e servilismo politico, che ha provocato, e continuerà a provocare, disperazione, morte e distruzione.
di Naoki Tomasini
Di fronte all’ospedale Shifa di Gaza, uno dei tre principali nosocomi della Striscia, il muezzìn chiama alla preghiera di mezzogiorno del venerdì, tradizionalmente la più partecipata. Il traffico si interrompe quasi totalmente e il caos del mercato cittadino si tacita. La gente della zona e i dipendenti dell’ospedale affluiscono ordinatamente verso la moschea di Shifa. Solo che la moschea non c’è più.
E’ stata rasa al suolo, come molte altre, dall’offensiva israeliana di gennaio. La moschea di Shifa sorgeva a pochi metri dall’omonimo ospedale sotto cui, secondo i servizi di intelligence israeliani, si nasconde la leadership di Hamas. Le macerie sono state in gran parte rimosse e al posto del santuario c’è una spianata, sopra la quale sono stati disposti teli e tappeti per la preghiera. Il sermone tra le macerie è un’immagine che ben rappresenta la situazione della Striscia di Gaza dopo l’operazione Piombo Fuso. Più di metà delle strutture del territorio, in gran parte civili, sono state almeno danneggiate. Secondo le ultime stime, ricavate dalle missioni di valutazione umanitaria giunte dopo l’offensiva, gli edifici completamente distrutti sono almeno 14mila. Circa 90mila le persone non hanno più una casa. Qua e là, gruppi di operai lavorano alla rimozione delle macerie, molti di loro indossano i berretti verdi distribuiti da Hamas per proteggerli da sole, ma soprattutto per segnalare la presenza del governo sul territorio. Ma i lavori di ricostruzione non sono nemmeno iniziati. Il governo in verde della Striscia ha iniziato a pagare le compensazioni per quanti hanno avuto le case distrutte da Israele, 3 o 4mila dollari ciascuna. Ancora nulla per le abitazioni danneggiate. Decine di migliaia di persone continuano a vivere in ruderi diroccati, tra calcinacci, schegge di bombe, proiettili e tracce di sangue sui muri. Una rassegnazione motivata dalle gravissime difficoltà economiche di buona parte delle famiglie di Gaza e dalla ben più grave mancanza di materiali edilizi nella Striscia. Cemento e ferro sono nella lista nera dei materiali sotto embargo, il loro prezzo è salito di oltre dieci volte dal quando i valichi sono chiusi. La gente attende la riapertura delle frontiere e un minimo di normalizzazione prima di ricostruire.
Nessuno sa dire quanto tempo ci vorrà prima che ciò accada, e nel frattempo trascorre l’inverno, fortunatamente mite, tra gli incubi del recente passato e le preoccupazioni per l’indomani. Ferro e cemento non sono le sole cose che mancano nella Striscia: c’è una drammatica carenza anche di sistemi per la depurazione delle acque, di gas e generatori di corrente elettrica. In attesa che i colloqui del Cairo, che dovrebbero portare a una tregua di medio termine delle ostilità tra Hamas e Israele e alla riapertura dei valichi di frontiera, l’embargo continua a strangolare la vita civile della Striscia. Di notte, dai tetti di Beit Lahiya, a nord di Gaza vicino al confine israeliano, si notano in lontananza le mille luci di Ashkelon, la città israeliana sul mare, mentre abbassando lo sguardo si piomba nel buio delle vie di Gaza e delle città del nord della Striscia. Le tregue dichiarate unilateralmente da Israele e Hamas lo scorso 28 gennaio hanno consentito l’apertura parziale dei valichi della Striscia, e l’ingresso di diverse missioni internazionali che hanno portato aiuti e effettuato valutazioni sulla situazione umanitaria. In alcuni casi le delegazioni non sono state autorizzate a importare macchinari fondamentali per la ripartenza della vita, come i sistemi di desalinizzazione della protezione civile francese respinti al valico di Rafah a fine gennaio. In altri casi gli aiuti portati non erano quelli necessari.
La missione di medici e giornalisti organizzata dall’ong italiana Crocevia, che ha visitato i principali ospedali della Striscia (Shifa e Al Awda di Gaza, Nasser di Khan Younis e Kamal Adnan di Jabalia) e molte altre strutture sanitarie e socio-sanitarie dei campi profughi della Striscia, ha riscontrato come in diversi casi i tir umanitari internazionali abbiano importato materiale sanitario leggero per il primo soccorso, quando ormai quel tipo di emergenza era superato. All’indomani della tregua i feriti meno gravi sono stati rimandati a casa (anche per la mancanza di posti letto) mentre i casi più difficili sono stati evacuati verso Israele e l’Egitto perché i nosocomi della Striscia non disponevano di strumenti fondamentali come le macchine per la Tac, per la rianimazione e quelle a ultrasuoni come quelle per le ecografie o gli elettrocardiogrammi. In alcuni casi questi macchinari erano presenti ma danneggiati, e sarebbe bastato coordinarsi con le strutture e importare giusto i pezzi di ricambio. Un capitolo a parte é rappresentato dai feriti vittime di armi non convenzionali, come le munizioni al fosforo (illegali se usate in aree densamente abitate) e le cosiddette Dime (Dense Inerte Metal Explosive). La missione di Crocevia ha appurato al di là di ogni dubbio l’impiego delle munizioni al fosforo contro abitazioni civili (valutazione confermata tra gli altri anche da Human Rights Watch, Amnesty International e dal centro palestinese per i diritti umani al-Mezaan), ma durante l’offensiva i medici della Striscia non disponevano delle conoscenze necessarie al trattamento delle ferite provocate da quel tipo di armi. Quanto alle Dime, invece, le numerose testimonianze del loro impiego non sono ancora state confermate da organismi scientifici. Nella Striscia di Gaza non ci sono laboratori in grado di analizzare i campioni di tungsteno (il componente principale delle Dime) ritrovati in diverse abitazioni e all’interno dei corpi delle vittime, e a causa dell’embargo gli stessi campioni non possono essere portati all’estero. Le delegazioni umanitarie giunte a Gaza hanno fatto del loro meglio per gettare un po’ di luce sui crimini contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano durante i 22 giorni di offensiva, ma si sono dovute scontrare con due muri di gomma. Da un lato Israele, che ha concesso l’apertura di corridoi umanitari solo per lenire l’emergenza sanitaria, come se sulla Striscia si fosse abbattuta una disgrazia, un terremoto, anziché una sistematica e intenzionale opera di distruzione iper-tecnologica. Dall’altro, gli organismi internazionali, i paesi occidentali e quelli arabi, che hanno accettato la parte dei pietosi soccorritori senza intaccare il sistema di omertà e servilismo politico, che ha provocato, e continuerà a provocare, disperazione, morte e distruzione.
di Naoki Tomasini
Gaza, a un mese dal cessate il fuoco gli sfollati sono almeno 100mila
Dati pubblicati in un rapporto di Save the Children, che sottolinea anche la precaria situazione sanitaria degli sfollati
Sono centinaia di migliaia i palestinesi rimasti senza abitazione in seguito all’offensiva militare israeliana effettuata nella Striscia di Gaza, iniziata con i bombardamenti aerei il 27 dicembre 2008 e proseguita poi con l’offensiva di terra a partire dal 3 gennaio 2009.
Stando a un rapporto pubblicato ieri da Save the Children "almeno 100mila persone, inclusi 56mila bambini, si ritrovano a essere sfollati, a vivere nelle tende o in abitazioni sovraffollate, a un mese dalla dichiarazione del cessate il fuoco a Gaza". Stando ai dati diffusi da Save the Children, almeno 500mila persone, tra le quali 280mila bambini, sarebbero stati costretti ad abbandonare le proprie case durante il conflitto. Nelle zone distrutte durante l’offensiva, nel corso della quale sono stati rasi al suolo interi quartieri, si stanno formando dei veri e propri accampamenti. Il capo esecutivo di Save the Children per la Gran Bretagna, Jasmine Whitbread, ha dichiarato che in alcune di quelle tendopoli le persone si trovano a poter utilizzare un unico bagno, rendendo altissimi i rischi sanitari derivanti da una situazione di scarsa igiene. La gente è costretta a vivere in tende nonostante le temperature invernali. La maggior parte delle tende è stata fornita dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati, dall’Unicef e altre organizzazioni umanitarie. Secondo le stime dell’Unrwa sarebbero almeno 4mila le case distrutte e 17mila quelle seriamente danneggiate.
Dal sito di PeaceReporter.net
Sono centinaia di migliaia i palestinesi rimasti senza abitazione in seguito all’offensiva militare israeliana effettuata nella Striscia di Gaza, iniziata con i bombardamenti aerei il 27 dicembre 2008 e proseguita poi con l’offensiva di terra a partire dal 3 gennaio 2009.
Stando a un rapporto pubblicato ieri da Save the Children "almeno 100mila persone, inclusi 56mila bambini, si ritrovano a essere sfollati, a vivere nelle tende o in abitazioni sovraffollate, a un mese dalla dichiarazione del cessate il fuoco a Gaza". Stando ai dati diffusi da Save the Children, almeno 500mila persone, tra le quali 280mila bambini, sarebbero stati costretti ad abbandonare le proprie case durante il conflitto. Nelle zone distrutte durante l’offensiva, nel corso della quale sono stati rasi al suolo interi quartieri, si stanno formando dei veri e propri accampamenti. Il capo esecutivo di Save the Children per la Gran Bretagna, Jasmine Whitbread, ha dichiarato che in alcune di quelle tendopoli le persone si trovano a poter utilizzare un unico bagno, rendendo altissimi i rischi sanitari derivanti da una situazione di scarsa igiene. La gente è costretta a vivere in tende nonostante le temperature invernali. La maggior parte delle tende è stata fornita dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati, dall’Unicef e altre organizzazioni umanitarie. Secondo le stime dell’Unrwa sarebbero almeno 4mila le case distrutte e 17mila quelle seriamente danneggiate.
Dal sito di PeaceReporter.net
martedì 17 febbraio 2009
Crisi e agitazioni sociali in Russia
di Astrit Dakli
La crisi morde ormai in modo molto serio nell’ex Unione sovietica. Gennaio ha visto manifestazioni antigovernative e scontri di piazza nei paesi baltici; in Ucraina, dove il disastro economico è più grave, si stanno moltiplicando le proteste, indirizzate soprattutto contro il presidente Viktor Yushenko, accusato (non a torto) di aver paralizzato l’azione del governo; in Russia la crisi morde a tutti i livelli e comincia a fare vittime illustri. Ci sono i licenziamenti che cominciano ad essere massicci un po’ in tutti i settori, con i disoccupati che aumentano a un ritmo di centomila a settimana; e c’è la «strage dei miliardari» – 52 grandi magnati che nel 2008 avevano un patrimonio superiore al miliardo di dollari e ora non ce l’hanno più, mentre i 49 rimasti hanno visto ridursi di due terzi le loro ricchezze. Ci sono tensioni crescenti a livello di piazza, con manifestazioni di protesta antigovernativa che ormai si svolgono regolarmente ogni weekend nelle principali città; e ci sono tensioni crescenti nelle alte sfere politiche, mentre le prime teste cominciano a rotolare.Ieri è stata annunciata la prima raffica di epurazioni esplicitamente legate a «cattiva gestione della crisi»: il presidente Dmitrij Medvedev ha rimosso dai loro incarichi quattro governatori regionali, mentre un ministro «storico» ha perso il posto. I dirigenti rimossi sono i governatori delle regioni di Orel, Pskov, Voronezh e quello del distretto autonomo dei Nenets; il ministro è quello dell’agricoltura, Aleksej Gordeev, che teneva l’incarico da dieci anni e che è stato spedito a sostituire uno dei governatori licenziati – quello di Voronezh, cioè di una regione agricola… E’ la prima volta che Medvedev prende in mano decisamente la situazione del personale politico: finora il presidente aveva tenuto quasi completamente fermo l’organico (regionale e federale) costruito durante gli otto anni di Vladimir Putin, ora invece - non a caso sulla spinta della crisi economica incalzante - Medvedev mostra di voler dirigere realmente la nave, e soprattutto lo fa indicando delle responsabilità e mostrando simbolicamente che nessuno è al riparo e che gli sbagli si pagano. Un messaggio che potrebbe riguardare lo stesso Putin – anche se il discorso appare molto prematuro: un giornale (Kommersant-Vlast) ieri si chiedeva e chiedeva a una serie di autorevoli politologi se il presidente non stia preparandosi a dare il benservito al potente primo ministro. La risposta generale è naturalmente «no», però intanto si può notare che il nome del premier è quasi scomparso dai titoli dei giornali, che dominava anche a scapito del presidente fino a non molto tempo fa. Ma forse è il capo del governo, come responsabile dell’economia, che preferisce tenere di questi tempi un profilo basso.Ne ha ben motivo, in effetti. Le proteste di piazza si stanno intensificando e prendono sempre più di mira il potere, che in qualche modo deve mostrare una reazione. Sabato a Mosca si sono svolte diverse manifestazioni (tra cui una, autorizzata, in memoria dell’avvocato Stanislav Markelov e della giornalista Anastasia Baburina, uccisi il 19 gennaio) e molte altre hanno occupato le piazze delle città russe, da Khabarovsk (estremo oriente) a San Pietroburgo. Non si tratta certo di manifestazioni oceaniche – qualche migliaio di persone al massimo – ma la loro regolarità e diffusione sono un segno chiaro del [/TXT]cambiamento netto di umori del paese. Il consenso massiccio, plebiscitario di qualche mese fa sembra ormai solo un ricordo.Il tema è sempre il modo in cui il governo sta gestendo la crisi, in particolare nel settore dell’auto, con le nuove tasse sull’import dall’estero (che stanno provocando una vera e propria rivolta nella Siberia orientale) e con le chiusure e i licenziamenti che stanno comunque affliggendo gli impianti nazionali e in particolare AvtoVaz, la maggiore azienda automobilistica russa, che ha di nuovo fermato le linee. A Togliatti, dove Avtovaz ha la sede, i sindacati hanno tenuto un affollato comizio dove, diversamente da quanto avvenuto il mese scorso, non hanno più difeso la tassa sull’import ma hanno invece attaccato il management aziendale e i dirigenti politici locali. Altro tema molto sentito, gli aumenti delle tariffe dei servizi pubblici e in particolare di quelli legati all’abitazione (riscaldamento, elettricità, gas, affitti comunali, ecc.). Proprio su questo si è svolta una delle manifestazioni più grosse di questo weekend: a Voronezh, dove guarda caso proprio l’indomani il governatore ha ricevuto dal Cremlino l’ordine di far le valigie.Se Putin tiene un basso profilo, bersagliato com’è dalle critiche di piazza che accusano lui, non il Cremlino – e anche da alcune frecciate del presidente, che in un paio di occasioni recenti ha parlato di «errori» e di «ritardi» nell’azione del governo – Medvedev invece tiene banco. Ormai sono diventati regolari i suoi incontri con i media e le sue interviste televisive, in cui continua a ribadire che la situazione del paese «è difficile», ma anche ben avviata verso il superamento della crisi. I prossimi mesi diranno se si è sbilanciato troppo o no.
(Pubblicato sul manifesto del 17 febbraio 2009)
La crisi morde ormai in modo molto serio nell’ex Unione sovietica. Gennaio ha visto manifestazioni antigovernative e scontri di piazza nei paesi baltici; in Ucraina, dove il disastro economico è più grave, si stanno moltiplicando le proteste, indirizzate soprattutto contro il presidente Viktor Yushenko, accusato (non a torto) di aver paralizzato l’azione del governo; in Russia la crisi morde a tutti i livelli e comincia a fare vittime illustri. Ci sono i licenziamenti che cominciano ad essere massicci un po’ in tutti i settori, con i disoccupati che aumentano a un ritmo di centomila a settimana; e c’è la «strage dei miliardari» – 52 grandi magnati che nel 2008 avevano un patrimonio superiore al miliardo di dollari e ora non ce l’hanno più, mentre i 49 rimasti hanno visto ridursi di due terzi le loro ricchezze. Ci sono tensioni crescenti a livello di piazza, con manifestazioni di protesta antigovernativa che ormai si svolgono regolarmente ogni weekend nelle principali città; e ci sono tensioni crescenti nelle alte sfere politiche, mentre le prime teste cominciano a rotolare.Ieri è stata annunciata la prima raffica di epurazioni esplicitamente legate a «cattiva gestione della crisi»: il presidente Dmitrij Medvedev ha rimosso dai loro incarichi quattro governatori regionali, mentre un ministro «storico» ha perso il posto. I dirigenti rimossi sono i governatori delle regioni di Orel, Pskov, Voronezh e quello del distretto autonomo dei Nenets; il ministro è quello dell’agricoltura, Aleksej Gordeev, che teneva l’incarico da dieci anni e che è stato spedito a sostituire uno dei governatori licenziati – quello di Voronezh, cioè di una regione agricola… E’ la prima volta che Medvedev prende in mano decisamente la situazione del personale politico: finora il presidente aveva tenuto quasi completamente fermo l’organico (regionale e federale) costruito durante gli otto anni di Vladimir Putin, ora invece - non a caso sulla spinta della crisi economica incalzante - Medvedev mostra di voler dirigere realmente la nave, e soprattutto lo fa indicando delle responsabilità e mostrando simbolicamente che nessuno è al riparo e che gli sbagli si pagano. Un messaggio che potrebbe riguardare lo stesso Putin – anche se il discorso appare molto prematuro: un giornale (Kommersant-Vlast) ieri si chiedeva e chiedeva a una serie di autorevoli politologi se il presidente non stia preparandosi a dare il benservito al potente primo ministro. La risposta generale è naturalmente «no», però intanto si può notare che il nome del premier è quasi scomparso dai titoli dei giornali, che dominava anche a scapito del presidente fino a non molto tempo fa. Ma forse è il capo del governo, come responsabile dell’economia, che preferisce tenere di questi tempi un profilo basso.Ne ha ben motivo, in effetti. Le proteste di piazza si stanno intensificando e prendono sempre più di mira il potere, che in qualche modo deve mostrare una reazione. Sabato a Mosca si sono svolte diverse manifestazioni (tra cui una, autorizzata, in memoria dell’avvocato Stanislav Markelov e della giornalista Anastasia Baburina, uccisi il 19 gennaio) e molte altre hanno occupato le piazze delle città russe, da Khabarovsk (estremo oriente) a San Pietroburgo. Non si tratta certo di manifestazioni oceaniche – qualche migliaio di persone al massimo – ma la loro regolarità e diffusione sono un segno chiaro del [/TXT]cambiamento netto di umori del paese. Il consenso massiccio, plebiscitario di qualche mese fa sembra ormai solo un ricordo.Il tema è sempre il modo in cui il governo sta gestendo la crisi, in particolare nel settore dell’auto, con le nuove tasse sull’import dall’estero (che stanno provocando una vera e propria rivolta nella Siberia orientale) e con le chiusure e i licenziamenti che stanno comunque affliggendo gli impianti nazionali e in particolare AvtoVaz, la maggiore azienda automobilistica russa, che ha di nuovo fermato le linee. A Togliatti, dove Avtovaz ha la sede, i sindacati hanno tenuto un affollato comizio dove, diversamente da quanto avvenuto il mese scorso, non hanno più difeso la tassa sull’import ma hanno invece attaccato il management aziendale e i dirigenti politici locali. Altro tema molto sentito, gli aumenti delle tariffe dei servizi pubblici e in particolare di quelli legati all’abitazione (riscaldamento, elettricità, gas, affitti comunali, ecc.). Proprio su questo si è svolta una delle manifestazioni più grosse di questo weekend: a Voronezh, dove guarda caso proprio l’indomani il governatore ha ricevuto dal Cremlino l’ordine di far le valigie.Se Putin tiene un basso profilo, bersagliato com’è dalle critiche di piazza che accusano lui, non il Cremlino – e anche da alcune frecciate del presidente, che in un paio di occasioni recenti ha parlato di «errori» e di «ritardi» nell’azione del governo – Medvedev invece tiene banco. Ormai sono diventati regolari i suoi incontri con i media e le sue interviste televisive, in cui continua a ribadire che la situazione del paese «è difficile», ma anche ben avviata verso il superamento della crisi. I prossimi mesi diranno se si è sbilanciato troppo o no.
(Pubblicato sul manifesto del 17 febbraio 2009)
¡Que se vayan todos! di Naomi Klein
di Naomi Klein
Vedere le folle di islandesi riversarsi con pentole e padelle per strada fino a che il loro governo non è caduto mi ha riportato alla mente lo slogan più diffuso nel 2002 tra i gruppi anticapitalisti, «Voi siete Enron. Noi siamo l’Argentina».
Si trattava allora di un messaggio piuttosto semplice. Voi – politici e amministratori chiusi in qualche summit – siete come i peggiori truffatori della Enron (e all’epoca non sapevamo nemmeno la metà di quello che poi si è rivelato essere lo scandalo Enron). Noi – l’irrefrenabile fuori – siamo come gli argentini, che, nel bel mezzo di una crisi terrificante e simile alla nostra, sono scesi per strada con pentole e padelle in mano. Loro gli argentini gridarono «¡Que se vayan todos!» (Se ne devono andare tutti!) e ottennero che quattro presidenti in meno di tre settimane si dimettessero. Quello che ha reso unica la rivolta argentina del 2001-2 è stato il fatto che non era contro qualche partito politico né contro un concetto astratto di corruzione. L’obiettivo della protesta era il modello economico dominante e l’Argentina è passata per la prima ribellione nazionale contro il capitalismo contemporaneo senza regole.
E’ passato un po’ di tempo, ma dall’Islanda alla Lettonia, al Sud Korea alla Grecia, il resto del mondo alla fine sta vivendo il proprio momento di «¡Que se vayan todos!».
Le stoiche matriarche islandesi che lisciano a suon di colpi le proprie pentole mentre i figli saccheggiano il frigorifero alla cerca di proiettili (uova, di sicuro, e pure yogurt?) riecheggiano le tattiche diventate famose a Buenos Aires. E lo stesso rievoca la rabbia collettiva contro le elite che hanno messo in ginocchio un paese un tempo florido e che pensavano di poterlo fare senza alcuna conseguenza. Come ha raccontato Gudrun Jonsdottir, impiegato trentaseienne islandese: «ne ho abbastanza. Non mi fido del governo, delle banche. Non mi fido dei partiti politici né del Fondo monetario internazionale. Avevamo un paese benestante e l’hanno rovinato».
Un altro eco di Argentina: a Reykjavik le proteste non cesseranno con un semplice cambiamento di faccia al potere (per quanto il nuovo primo ministro sia una lesbica). Le manifestazioni vogliono aiuto per le persone, non solo per le banche, vogliono che si aprano inchieste e che ci sia una riforma elettorale.
Sono le stesse richieste che si sentono in questi giorni in Lettonia, la cui economia sta soffrendo più di qualsiasi altro paese europeo e il cui governo sta traballando come un funambolo. Per settimane la capitale lettone è stata l’epicentro di proteste, che il 13 gennaio sono esplose nella rivolta con lanci di sampietrini per le strade. Come in Islanda, i lettone sono sconvolti dall’assoluto rifiuto dei loro leader a fare qualcosa e a assumersi responsabilità per il caos che hanno creato. In un’intervista al canale televisivo Bloomberg, il ministro all’economia lettone alla domanda, cos’ha provocato la crisi?, ha fatto spallucce e risposto, «niente di particolare».
I problemi della Lettonia sono di sicuro peculiari: le politiche che hanno portato la «Tigre del Baltico» a crescere del 12 per cento nel 2006 sono le stesse – ossia, liquidità, liberalizzazione delle dogane, movimenti finanziari in rapida entrata e uscita, di cui molti finiti nelle tasche dei politici - che stanno provocando una violenta contrattura del 10 per cento previsto per quest’anno. (Non è una coincidenza che oggi molte delle crisi siano scoppiate nei paesi del recente miracolo: Irlanda, Lettonia, Estonia, Islanda).
Qualcosa cioè di molto argentino è nell’aria. Nel 2001 i leader argentini hanno risposto alla crisi con un pacchetto brutale d’austerità imposto dal Fondo monetario internazionale: 9 miliardi di dollari in tagli di spesa che hanno colpito soprattutto sanità e educazione. E questo si è rivelato essere un errore fatale. I sindacati organizzarono uno sciopero generale, gli insegnanti scesero in piazza con i propri studenti e le proteste non si sono da qui più fermate in Argentina.
Lo stesso rifiuto di accettare lo scorno della crisi unisce accomuna molte delle proteste odierne. In Lettonia, molta della rabbia popolare si è rivolta contro l’austerità delle misure approntate dal governo – cartolarizzazioni massicce, riduzione dei servizi sociali e taglio degli stipendi degli statali – tutto pensato per qualificarsi per un prestito emergenziale del Fondo monetario (in questo, nulla è cambiato). In Grecia, le proteste sono scoppiate dopo l’assassinio di un quindicenne. Ma ciò che le ha fatte durare nel tempo, con i contadini in piazza subito dopo gli studenti, è la rabbia diffusa contro le risposte del governo alla crisi: le banche hanno ricevuto aiuti per 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto tagliare le proprie pensioni e i contadini non hanno ottenuto nulla. A parte il disagio dei trattori per strada, il 78 per cento dei greci sostiene che le richieste del contadini sono legittime. Allo stesso modo, in Francia il 70 per cento della popolazione ha condiviso le ragioni del recente sciopero generale – mosso in parte dai progetti di Sarkozy di ridurre drasticamente il numero di insegnanti.
C’è poi un filo conduttore in questa recessione globale e probabilmente è il rifiuto della logica «politiche straordinarie», frase coniata dal politico polacco Laszeck Balcerowicz per definire come in una crisi i politici possono ignorare le leggi e lanciarsi in riforme impopolari. Il trucchetto non sta però più funzionando, come di recente ha scoperto il governo sudcoreano. A dicembre il partito al potere ha provato a usare la crisi per introdurre un accordo, molto controverso, di libero mercato con gli Usa. Per portare le cosiddette politiche a porte chiuse a nuovi estremi, i legislatori si sono chiusi nei propri uffici di palazzo per votare in privato, barricati nelle proprie stanze asserragliandosi dietro a scrivanie, sedie, divani.
I politici di opposizione non ci sono tuttavia stati e con seghe elettriche e martelli pneumatici sono entrati nelle stanze di potere e per 12 giorni non hanno rimosso il sit-in al Parlamento. Il voto è stato posticipato, permettendo dibattito – una vittoria per un nuovo genere di «politiche straordinarie».
Qui in Canada, la politica è meno spettacolare, ma in ogni caso ne sono successe di cose. A ottobre il partito conservatore ha vinto le elezioni nazionale sulla base di un programma per niente ambizioso. Sei settimane più tardi il primo ministro conservatore ha rivelato le proprie intenzioni con una proposta di legge che toglie il diritto di sciopero ai lavoratori del pubblico, cancella i fondi pubblici per i partiti e il tutto senza finanze. L’opposizione ha risposto unendosi in una coalizione a dir poco storica e che non ha preso il potere solo per via di un’immediata sospensione del Parlamento. I conservatori dunque sono tornati con una finanziaria rivisitata: le politiche più di destra sono sparite e sono comparsi finanziamenti. Il mosaico è chiaro: i governi che rispondono alla crisi del libero mercato con un’accelerazione delle stesse politiche neoliberiste non sopravvivranno. E in Italia intanto gli studenti sono scesi in piazza urlando: «Noi la crisi non la paghiamo!».
Articolo in inglese sul sito di Naomi Klein
Traduzione a cura di Gloria Bertasi per Global Project
See footage of the global protestGreece Watch footage of the December protests while a student organizer discusses the demonstrators’ demands.
South Korea Watch legislators get tear-gassed, view the furniture barricaded against the door in Parliament.
See 200 security guards storm Parliament and brawl with protesters.
See 200 security guards storm Parliament and brawl with protesters.
Iceland Watch protesters banging on pots, pans, windows, & drums, and see some of the Icelanders’ demands:
See more footage of the "Saucepan Revolution" in this Reuters segment.
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Latvia Watch raw footage of the January 13 protests in Riga.
See a grandma hurl a big rock at police in the Latvian capitol.
See a grandma hurl a big rock at police in the Latvian capitol.
lunedì 16 febbraio 2009
A proposito della presenza del Presidente Correa al Forum Sociale Mondiale
Lettera aperta della CONAIE
Quito,27 de Enero del 2009
Carta Abierta al Foro Social Mundial
Compañer@s del Foro Social Mundial
La Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador, CONAIE, ante el anuncio de la presencia del Presidente de la República del Ecuador, Rafael Correa, en el Foro Social Mundial a desarrollarse en la ciudad de Belem, manifiesta:
1.- Su OPOSICION y RECHAZO a la presencia del Econ. Rafael Correa, Presidente del Ecuador, en un espacio donde históricamente se construyen alternativas y garantías a los derechos de los Pueblos y por la vida y no puede ser tribuna para un Presidente con posiciones impregnadas de racismo, machismo, paternalismo, discriminatorias, sexistas y violentas. El Presidente de Ecuador viola nuestros derechos fundamentales, atenta gravemente contra nuestras organizaciones e instituciones indígenas. El régimen Correa, promueve la explotación de petróleo en territorios de los Pueblos Indígenas en Aislamiento por su pleno ejercicio del derecho a la libre determinación, configurando con ello una situación de Genocidio. El Presidente Rafael Correa y sus Ministros de Gobierno Fernando Bustamante, de Seguridad Interna y Externa Gustavo Larrea y la Secretaria de Estado Manuela Gallegos, han tenido posiciones racistas, divisionistas y atentatorias contra derechos fundamentales y la dignidad indígena. La larga noche neoliberal está presente en Ecuador.
2.- La CONAIE denuncia enfáticamente la represión de que fuimos víctimas las comunidades indígenas que resistimos a la privatización de nuestros territorios, de la biodiversidad y del agua. Venimos siendo objeto de hechos de persecución y de criminalización de nuestro derecho a la resistencia social. Cuando demandamos respeto y garantías para nuestros derechos, hemos sido acusados desde la Presidencia de la República y sus Ministros de “terroristas” “ignorantes” “delincuentes” “ fundamentalistas” e “infantiles”. La represión ha sido grave en comunidades como Dayuma, Molleturo, Cuyabeno donde las fuerzas armadas usaron, helicópteros, gases lacrimógenos, armas de grueso calibre. Se agredió indiscriminadamente a mujeres y niños. En el gobierno de Rafael Correa se imponen leyes favorables a la minería en territorios indígenas, desconociendo y violando flagrantemente y de forma reiterada el Derecho a la Consulta que lo establece el Convenio 169 de la OIT y la Declaración de la ONU sobre los Derechos Indígenas.
3.- La CONAIE se ha opuesto a las leyes extractivistas del régimen de Rafael Correa, como la Ley de Minería, como el proyecto de Ley para el desarrollo de los biocombustibles y de los transgénicos, a una ley que no da garantías a la soberanía alimentaria. Alertamos al Foro que el discurso y prácticas de la Revolución Ciudadana en Ecuador, es levantado e impuesto desconociendo y violentando derechos fundamentales y colectivos garantizados en instrumentos internacionales de respeto obligatorio. Alertamos al Foro que el discurso del régimen de Ecuador usa el argumento de la revolución ciudadana, el del socialismo del siglo 21, como un argumento ideológico a cuyo nombre se reprime y atenta a la dignidad y derechos de nuestros pueblos.
4.- La CONAIE, en el marco del ejercicio del derecho de los Pueblos a sus derechos fundamentales, exhorta al Movimiento Indígena Mundial que se dirija al Foro Social Mundial, para:
A.- Se declare al Presidente del Ecuador, persona no grata con el espíritu del FSM. El Foro se debe a la legitimidad de nuestras reivindicaciones, de nuestros derechos y la de los Pueblos del Mundo y es en este contexto que no debemos ni podemos arriesgar su legitimidad y su credibilidad.
B.- Se suspendan los eventos del FSM en que esté presente el Presidente Ecuatoriano Rafael Correa Delgado y haga pública su posición de condena a las violaciones de los Derechos de nuestros y de todos los Pueblos que hacemos la sociedad ecuatoriana.
5.- La CONAIE ratifica su espíritu democrático, de paz, de defensa inclaudicable de los derechos de nuestros pueblos, de la Madre Tierra y su compromiso con las causas nobles de construcción de sociedades donde se garanticen derechos de todos los Pueblos del planeta.
“Somos como la paja de los Páramos, que nos arrancan y volvemos a crecer y de paja poblaremos el mundo”.
“Los Pueblos Indígenas no somos parte del problema, nosotros somos parte de las soluciones”
“El racismo en todas sus formas es inmoral, miserable y los que lo practican también”
Consejo de Gobierno de la CONAIE
5.- La CONAIE ratifica su espíritu democrático, de paz, de defensa inclaudicable de los derechos de nuestros pueblos, de la Madre Tierra y su compromiso con las causas nobles de construcción de sociedades donde se garanticen derechos de todos los Pueblos del planeta.
“Somos como la paja de los Páramos, que nos arrancan y volvemos a crecer y de paja poblaremos el mundo”.
“Los Pueblos Indígenas no somos parte del problema, nosotros somos parte de las soluciones”
“El racismo en todas sus formas es inmoral, miserable y los que lo practican también”
Consejo de Gobierno de la CONAIE
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BOICOTTA TURCHIA
Viva EZLN
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.
La lucha sigue!