Europa e Paesi emergenti criticano gli accordi protezionistici bilaterali tra Usa e Cina, entrambi interessati a superare la crisi drogando le esportazioni con la svalutazione delle rispettive valute
di Gabriele Barbati
Dichiarazioni sibilline su uno dei temi più caldi del 2010: gli scambi commerciali. La riforma dello yuan è "ineluttabile" ha detto Hu, la flessibilità del cambio aumenterà e tenendo conto del mercato, ha fatto sapere poi un portavoce. Le indicazioni attese da tutti alla vigilia sulla tanto contestata moneta cinese. Il cui valore pilotato al ribasso da Pechino (per quanto, con 6,62, abbia appena registrato il livello più alto contro il dollaro dal '93) ha permesso alle esportazioni del made in China di salire di un ulteriore 23 per cento a ottobre. Sì, se Hu non avesse dettato anche la condizione: "Un contesto esterno molto favorevole".
Il riferimento è alla decisione della Federal Reserve americana di comprare titoli di stato e immettere cosi nel mercato 600 miliardi di dollari di nuova liquidità. Praticamente gli Stati uniti adottano il "modello Cina": in tempi di crisi, con la domanda interna fiacca, l'unico modo di evitare una recessione è vendere all'estero. Un dollaro debole, tale da rendere i prodotti Usa meno cari, servirà la causa delle esportazioni.
Il punto è che queste manovre, chiamate svalutazioni competitive, danneggiano gli altri paesi nella grande concorrenza globale. E se le due maggiori potenze ricorrono ai trucchi, dove finiscono le responsabilità condivise invocate nei G20 di Washington, Londra, Pittsburgh e Toronto, nei due anni dalla nascita di questo forum tra le macerie della crisi? La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha tuonato a nome dell'Europa e delle economie emergenti nel faccia a faccia con Obama, già dimezzato dalle elezioni di medio termine. ''Dobbiamo dare insieme una segnale positivo per la crescita mondiale - ha esortato - senza ricorrere a protezionismi commericiali camuffati in manovre politiche''. Altrimenti, come ha profetizzato il presidente brasiliano uscente Lula, il mondo si dirigerà verso il fallimento.
Il mondo dunque, non solo il G20, il cui comunicato finale discusso finora dai negoziatori nazionali sarà una pallida copia degli auspici della vigilia. Sui conflitti e gli squilibri commericiali si profila un rinvio della questione alla presidenza francese, che ospiterà il prossimo vertice. Sui cambi monetari, il compromesso si ridurrà a un semplice no di principio sulla svalutazione competitiva. L'unica nota lieta viene dal governatore di Bankitalia, Mario Draghi, e dal suo Financial stability Board, l'organo di controllo della finanza mondiale creato lo scorso anno. Le riforme proposte ai grandi della terra dovrebbero essere tutte approvate, in particolare quelle che imporanno maggiori garanzie alle grandi banche per prevenire un nuovo domino finanziario.
Le sessioni plenarie del secondo giorno del summit riveleranno l'esito del G20 e la sua legittimità per il futuro. Un forum ormai morto, stando almeno alle migliaia di persone riunitesi nella capitale sudcoreana (3mila per la polizia, fino a 10 mila secondo gli organizzatori). Con molti attivisti stranieri fermati da un blocco dei visti per Seul, sono state le organizzazioni per i diritti e i sindacati locali a mobilitare la piazza. Per chiedere ai leader mondiali, una volta ancora, di mettere la gente al primo posto.
tratto da PeaceReporter