Vivono nella cosiddetta Area C, sotto il completo controllo dell’esercito israeliano. Per loro un po’ d’acqua che sgorga da un rubinetto è un sogno.
E’ una estate più secca del solito per 60 mila palestinesi della  Cisgiordania. E non solo per la carenza del prezioso liquido a causa  della siccità che ormai da anni afflige questa parte del Vicino Oriente.  Per queste decine di migliaia di persone il «problema» è legato alla  loro residenza nella cosiddetta «Area C», ossia in quella ampia porzione  (circa il 60%) della Cisgiordania sotto il pieno controllo delle  autorità di occupazione israeliane.
Intervistata da Irin, l’agenzia stampa delle Nazioni Unite, Cara  Flowers, una funzionaria di Emergency Water, Sanitation and Hygiene  Group (Ewash), ha avvertito che le condizioni di vita di questi  palestinesi stanno rapidamente peggiorando per la mancanza di acqua e  per l’impossibilità di osservare le regole igieniche basilari. «Ci sono  comunità palestinesi nell’Area C che riescono a procurarsi l’acqua solo  comprandola a 40 km di distanza dalle loro case, una situazione che  rende molto complicata la loro esistenza», ha spiegato Flowers.  Occorrono interventi immediati, ha aggiunto, ma Israele non concede i  permessi necessari per realizzarli.
Dopo gli Accordi di Oslo I e II (1993/1995) tra Israele e l’Olp dello  scomparso presidente palestinese Yasser Arafat la Cisgiordania venne  suddivisa in tre zone: Area A, sotto il pieno controllo dell’Autorità  nazionale palestinese; Area B, con amministrazione civile palestinese e  gestione della sicurezza da parte di Israele; Area C, totalmente sotto  l’autorità militare israeliana.
In quest’ultima zona la popolazione palestinese è limitata a poche  decine di migliaia ma queste persone sono costrette a far riferimento  per ogni aspetto della loro esistenza all’esercito israeliano (nelle  aree A e B vive il 95% dei palestinesi della Cisgiordania). Questa  situazione comporta la mancanza o il ritardo (spesso di anni) nell’avvio  di qualsiasi progetto di sviluppo delle infrastrutture civili e dei  servizi pubblici di base. Occorre tenere in considerazione che Israele  non nasconde di volersi annettere, nel quadro di un futuro accordo con  l’Anp, una fetta consistente dell’Area C, dove si trovano le principali  concentrazioni di colonie ebraiche (costruite in violazione della legge  internazionale) e dove è stato edificato gran parte del «muro di  separazione».
L’acquifero della Cisgiordania è  l’unic fonte accessibile dai  palestinesi ma a controllarla è solo Israele che nella distribuzione  favorisce ampiamente i suoi cittadini e gli abitanti delle colonie. Ai  palestinesi resta una quantità di acqua, (il 20%) non in grado di  coprire il fabbisogno di una popolazione peraltro in forte crescita.  Questa politica israeliana è stata condannata da vari organismi  internazionali e, più di recente, anche da Amnesty International    [http://www.amnesty.org/en/library/asset/MDE15/028/2009/en/634f6762-d603-4efb-98ba-42a02acd3f46/mde150282009en.pdf).
I più penalizzati, denuncia Ewash, sono i palestinesi che vivono  nell’Area C. Si tratta in molti casi di abitanti di piccoli villaggi,  non collegati alla rete idrica, che l’esercito israeliano (attraverso la  sua «Amministrazione civile») è tenuto a tutelare ed assistere e che  invece non tiene in alcuna considerazione. Un caso emblematico è quello  delle cento famiglie beduine del villaggio di Ras al-Awja, vicino  Gerico, che sono costrette a comprare l’acqua a prezzi molto elevati  mentre i coloni israeliani degli insediamenti circostanti hanno a  disposizione quantitativi sufficienti di acqua, proveniente  dall’acquifero della Cisgiordania, per irrigare i campi coltivati e  persino i loro giardini. 
Tratto da Nena News
(Il rapporto di Ewash sulla crisi idrica in Cisgiordania è  disponibile  a questo indirizzo  http://www.ewash.org/files/library/5Factsheet5-AccesstoWASHinAreaC.pdf)
 
 
