La Cina ha fatto incetta di energia fossile sfruttando la crisi globale.
Ora si spera nella green technology
Un vigile del fuoco è portato in salvo dopo essere stato sommerso dal petrolio durante i tentativi di tappare i due oleodotti esplosi il 13 luglio nel porto di Xingang a Dalian. 183Kmq di mare sono già coperti dal greggio. Foto Greenpeace
Una macchia nera che ormai ricopre 430 chilometri quadrati di mare, un disastro ecologico riconosciuto anche dai media cinesi che colpisce proprio una delle zone turistiche più famose della Cina, dove gente comune e funzionari di partito affollano spiagge che ricordano le più note località turistiche d'Occidente.
Pesca vietata fino alla fine di agosto, 15 chilometri di barriere antipetrolio calate in mare per evitare che la marea nera raggiunga anche le acque internazionali.
E' quanto sta accadendo a Dalian, capoluogo della provincia del Liaoning e porto più settentrionale del Celeste Impero, dove il 16 luglio due oleodotti e un silos-cisterna sono esplosi riversando in mare oltre 1500 tonnellate di greggio che arrivava dall'Arabia Saudita.
Le autorità locali hanno requisito in fretta e furia più di 800 pescherecci e dicono che risolveranno il problema entro la fine del mese, i media riportano le notizie della riapertura del porto, ma alcune foto diffuse da Greenpeace rivelano l'altra faccia della medaglia: vigili del fuoco sommersi dal petrolio mentre cercavano di tappare la falla e portati faticosamente in salvo (uno è morto e un altro è disperso).
Dietro il disastro, che fa sinistramente eco a quello del Golfo del Messico, c'è la sete di materie prime del Dragone, unica potenza ad attraversare la crisi economica globale pompando ancora più energia nel proprio motore.
In pratica, mentre le altre economie riducevano l’acquisto di materie prime, la Cina ha preso al balzo il calo dei prezzi per fare una politica di acquisizioni e joint-venture a trecentosessanta gradi, finalizzata al controllo di sempre più giacimenti stranieri.
La grande liquidità disponibile e il controllo politico delle banche hanno reso possibile una politica di prestiti a lungo termine e a bassi interessi, sia alle compagnie cinesi a caccia di materie prime, sia ai governi stranieri disponibili a sfruttare le proprie risorse in partnership con la Cina.
Un esempio: nel 2009 la China Development Bank (CDB) presta alla China National Petroleum Corp (CNPC) 30 miliardi di dollari per un progetto di acquisizioni nell’arco di cinque anni; al contempo, concede un prestito da 10 miliardi alla compagnia petrolifera statale brasiliana Petrobras per lo sfruttamento di giacimenti offshore, in cambio di 160mila barili di greggio che prenderanno ogni giorno la via della Cina.
D'altra parte - e qui risiede la speranza - gli investimenti non vanno solo nelle energie fossili.
E' notizia di oggi varo di un maxi-piano da 5mila miliardi di yuan (783 miliardi di dollari) per sviluppare energie alternative nei prossimi dieci anni.
Oltre al nucleare - è stato appena sperimentato il primo reattore di quarta generazione, che va ad aggiungersi alle 11 centrali già esistenti - la Cina investe massiciamente nell'eolico e nel solare, con buoni ritorni anche dal punto di vista dell'export.
I produttori d'oltre Muraglia esportano già turbine eoliche e con industrie di punta come la Yingli Green Energy e la Suntech Power, il Dragone controlla già il 50% del mercato mondiale di pannelli solari. Il motivo è semplice: sono quelli che costano meno.
Dietro a questi successi, la facilità per i produttori di ottenere prestiti bancari, i sussidi statali e la velocità con cui si costruiscono nuovi impianti di green technology.
Con il nuovo piano, si punta a coprire con le energie alternative il 15% del fabbisogno interno entro il 2020.
Petrolio e carbone restano predominanti. Ma il disastro di Dalian potrebbe accelerare il processo di riconversione.
di Gabriele Battaglia
tratto da Peacereporter
Pesca vietata fino alla fine di agosto, 15 chilometri di barriere antipetrolio calate in mare per evitare che la marea nera raggiunga anche le acque internazionali.
E' quanto sta accadendo a Dalian, capoluogo della provincia del Liaoning e porto più settentrionale del Celeste Impero, dove il 16 luglio due oleodotti e un silos-cisterna sono esplosi riversando in mare oltre 1500 tonnellate di greggio che arrivava dall'Arabia Saudita.
Le autorità locali hanno requisito in fretta e furia più di 800 pescherecci e dicono che risolveranno il problema entro la fine del mese, i media riportano le notizie della riapertura del porto, ma alcune foto diffuse da Greenpeace rivelano l'altra faccia della medaglia: vigili del fuoco sommersi dal petrolio mentre cercavano di tappare la falla e portati faticosamente in salvo (uno è morto e un altro è disperso).
Dietro il disastro, che fa sinistramente eco a quello del Golfo del Messico, c'è la sete di materie prime del Dragone, unica potenza ad attraversare la crisi economica globale pompando ancora più energia nel proprio motore.
In pratica, mentre le altre economie riducevano l’acquisto di materie prime, la Cina ha preso al balzo il calo dei prezzi per fare una politica di acquisizioni e joint-venture a trecentosessanta gradi, finalizzata al controllo di sempre più giacimenti stranieri.
La grande liquidità disponibile e il controllo politico delle banche hanno reso possibile una politica di prestiti a lungo termine e a bassi interessi, sia alle compagnie cinesi a caccia di materie prime, sia ai governi stranieri disponibili a sfruttare le proprie risorse in partnership con la Cina.
Un esempio: nel 2009 la China Development Bank (CDB) presta alla China National Petroleum Corp (CNPC) 30 miliardi di dollari per un progetto di acquisizioni nell’arco di cinque anni; al contempo, concede un prestito da 10 miliardi alla compagnia petrolifera statale brasiliana Petrobras per lo sfruttamento di giacimenti offshore, in cambio di 160mila barili di greggio che prenderanno ogni giorno la via della Cina.
D'altra parte - e qui risiede la speranza - gli investimenti non vanno solo nelle energie fossili.
E' notizia di oggi varo di un maxi-piano da 5mila miliardi di yuan (783 miliardi di dollari) per sviluppare energie alternative nei prossimi dieci anni.
Oltre al nucleare - è stato appena sperimentato il primo reattore di quarta generazione, che va ad aggiungersi alle 11 centrali già esistenti - la Cina investe massiciamente nell'eolico e nel solare, con buoni ritorni anche dal punto di vista dell'export.
I produttori d'oltre Muraglia esportano già turbine eoliche e con industrie di punta come la Yingli Green Energy e la Suntech Power, il Dragone controlla già il 50% del mercato mondiale di pannelli solari. Il motivo è semplice: sono quelli che costano meno.
Dietro a questi successi, la facilità per i produttori di ottenere prestiti bancari, i sussidi statali e la velocità con cui si costruiscono nuovi impianti di green technology.
Con il nuovo piano, si punta a coprire con le energie alternative il 15% del fabbisogno interno entro il 2020.
Petrolio e carbone restano predominanti. Ma il disastro di Dalian potrebbe accelerare il processo di riconversione.
di Gabriele Battaglia
tratto da Peacereporter