di Alberto Negri
Fu un generale che si sentiva come un dio che tra l'11 e il 15 luglio del 1995 a Srebrenica uccise a sangue freddo più di 8mila musulmani. Quarantamila persone furono deportate, centinaia di donne vennero sistematicamente violentate: nella disattenzione di una calda estate di vacanze si consumò il peggiore massacro in Europa dalla seconda guerra mondiale, in una città che l'Onu aveva dichiarato "area protetta". L'unica cosa che facemmo allora fu raccogliere testimonianze: a migliaia raggiunsero Tuzla, feriti, disperati, lasciati agonizzare per giorni sulla pista incandescente dell'aeroporto.Nella marcia tra le montagne bosniache alcuni, ridotti alla follia, si uccisero facendosi saltare in aria con le granate pur di non essere presi vivi. Ma nessun racconto, per quanto macabro e lancinante, smosse le cancellerie internazionali.
Srebrenica oggi è una città dalla tristezza opprimente, schiacciata tra la montagna e il corso della Drina, popolata da profughi serbi scacciati da Sarajevo, un punto sulla carta di uno degli stati più minuscoli d'Europa, la Repubblica Sprska, l'altra entità che insieme alla Federazione croato-musulmana costituisce la Bosnia. Un mese fa il tribunale dell'Aja ha condannato all'ergastolo due ufficiali serbi colpevoli di genocidio ma il generale Ratko Mladic è ancora latitante. Su Srebrenica sono stati scritti molti libri ma soltanto adesso è stato tradotto Cartoline dalla fossa (Beit Editore), il primo racconto di un sopravvissuto, Emir Suljagic, trentacinquenne giornalista di Sarajevo.
Cominciarono separando gli uomini dalle donne, il segnale che dava inizio alla mattanza. «Sapevo cosa sarebbe accaduto dopo, avevano fatto lo stesso nella mia città Bratunac, nel '92, dove mio padre era stato ucciso da una granata. Con il resto della mia famiglia, avevo 17 anni, c'eravamo rifugiati a Srebrenica proprio perché protetta dall'Onu».
Emir incontrò Ratko Mladic il 12 luglio a Potocarì, dove oggi sorge il memoriale. «Ero andato lì come traduttore dell'Onu ma fui lasciato solo davanti a lui. Il generale mi squadrò e prese la mia carta d'identità, chiedendomi se avessi già fatto il servizio militare. Tremavo di paura. Fece qualche passo intorno, poi si voltò ancora verso di me. Gli chiesi di riavere i documenti. Pensavo che mi avrebbe ucciso con gli altri e non volevo diventare un cadavere senza nome in una fossa». Ma il generale lo risparmiò, senza una ragione, così come in quelle ore si era fatto riprendere dalle telecamere accarezzando con sanguinaria tenerezza la testa di una bambino bosniaco. Così come, senza motivo, i caschi blu olandesi e il generale avevano brindato amichevolmente mentre si scavavano le fosse comuni in cui sarebbe finito anche il nonno di Suljagic.
Emir fu l'unico maschio della famiglia a sopravvivere. «Sono ancora qui perché Mladic si sentiva come Dio: aveva potere di vita e di morte su tutti. Per lui ero un essere insignificante, un insetto che avrebbe potuto schiacciare in qualunque momento come fece con altri mille e mille ragazzi». L'assedio di Srebrenica durava da tre anni. «Ero così affamato che la mia personalità si era trasformata, da timido ero diventato aggressivo, incattivito. Ci lanciavamo sui pacchi paracadutati dall'Onu sbranandoci come lupi che sentono l'odore del sangue. Mio zio fu ucciso da una pallottola in fronte in una di queste risse: l'assassino non venne mai punito, c'era solo la legge del più forte».
Prima che Mladic entrasse in città avevano attivato dei ponti radio per parlare con parenti e amici sparsi nella ex Jugoslavia. «Si entrava in una stanza con un microfono e in sottofondo si potevano ascoltare le conversazioni. Sono andato anch'io ma non ho mai sentito nessuno dire: “Ti amo”. Eravamo così pieni di vergogna che non osavamo pronunciare la parola amore, un amore che restava tutto concentrato e inespresso in quella stanza male illuminata, nella penombra». E ora? «Tutti mi chiedono se odio Mladic e i suoi carnefici: no, non li odio ma non riesco neppure a perdonarli».
Tratto da ilsole24ore.com